Sabato, 23 Novembre 2024

Don Giovanni

Aggiunto il 01 Novembre, 2017


WOLFGANG AMADEUS MOZART
DON GIOVANNI

• Don Giovanni WILLIAM SHIMELL
• Il Commendatore JAN-HENDRIK ROOTERING
• Donna Anna CHERYL STUDER
• Don Ottavio FRANK LOPARDO
• Donna Elvira CAROL VANESS
• Leporello SAMUEL RAMEY
• Zerlina SUSANNE MENTZER
• Masetto NATALE DE CAROLIS

Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor
Chorus Master: Peter Burian

Wiener Philharmoniker
RICCARDO MUTI

Continuo: Robert Kettelson (fortepiano)

Luogo e data di registrazione: Wien, Musikvereinssaal, Settembre 1990
Ed. discografica: EMI CDS 7 54255-2 {3CDS} (1991)ª; EMI 5 75535-2 (+Le nozze di Figaro + Così fan tutte) {9CDS} (2002)ª; EMI «Triples» 5008502 {3CDS} (2007)ª

Note tecniche sulla registrazione: ottima qualità, godibilissima

Pregi: direzione, Studer

Difetti: non di rilievo

Valutazione finale: images/giudizi/ottimo.png

Credo sia necessario dare un’occhiata alla sterminata discografia dell’epoca (e non solo, ovviamente) per farsi un’idea di come si collochi l’interpretazione mutiana nel flusso storico interpretativo.
Nel 1990, data in cui il grande direttore italiano dà alle stampe la propria visione definitiva del dramma giocoso, sono già state aperte le danze della filologia: Harnoncourt (1988) e Östman (1989), con l’ausilio di strumenti originali o con organici modificati e criteri che oggi conosciamo come “filologici” hanno tentato altre strade interpretative. Oggi, col senno di poi, sappiamo che questi percorsi non sono diventati definitivi e si spartiscono ancora il terreno con istanze più tradizionaliste, ma all’epoca era qualcosa di nuovo e , a regola, si sarebbe dovuto tenerne conto.
In teoria.
In pratica, oltre a Muti, ci sono i tradizionalisti a vario titolo e in grado variabile Chailly (video), Levine (video), Mehta, Kuhn, Conlon (video), Jordan (video), Abbado (video), Barenboim (video), Marriner.
Per ritornare a un “filologo” – per così dire – occorrerà aspettare Gardiner nel 1994 con la sua discussa versione, ma poi di nuovo ci sarà spazio per un reazionario come Solti, con la sua incisione tanto brutta quanto inutile.
Muti, quindi, non è esponente isolato di un ritorno all’ancien régime; è piuttosto uno dei tanti che, a maggior ragione e (secondo me) con più autorità di altri, sente il bisogno di dire la propria su un argomento in cui veramente, a quel punto e da quel punto di vista, è stato detto di tutto e di più; ma si ritaglia un proprio spazio di autorevole credibilità, oggi ancora più evidente che allora. In questa impresa è aiutato da una delle orchestre che maggiormente lo ama, lo ascolta e lo capisce, vale a dire i Wiener; e da un cast che solo in minima parte ricalca quello dell’inaugurazione scaligera del 1987, vale a dire alle voci Zerlina-Masetto.

Ma com’è il DG di Muti?
A mio gusto, e a distanza di molti anni (quasi trenta), merita un riascolto attento.
Questo Mozart vive di alleggerimenti, di sfumature, di colori che nulla hanno da invidiare a quelli dei filologi allora incalzanti e sgomitanti; anzi, a riascoltare la furia rapinosa dell’ouverture, o la frustata con cui si dipana il ritmo incandescente di “Fin ch’han del vino” viene da pensare che Gardiner non sia rimasto affatto indifferente all’impostazione del direttore italiano.
Di più: i Wiener alleggeriscono di molto la trama (la fuga finale è spettacolare) sino a mimare un organico para-filologico; e questo è sicuramente merito anche della preparazione maniacale di Muti che sembra ricusare la tentazione di furtwanglereggiare preferendo – come già in Così fan tutte, forse il miglior capitolo della sua personalissima interpretazione della trilogia dapontiana – alleggerire e sfumare, alludere e ammiccare.
Certo, per contro c’è sempre una certa qual indifferenza verso le difficoltà dei cantanti – a cominciare ovviamente dal protagonista – ma il DG di Muti è riconoscibile come una creatura autonoma e si percepisce la registrazione come un punto fermo nella parabola creativa del direttore, come a chiudere il cerchio della trilogia dapontiana, dopo la prova teatrale un po’ interlocutoria del 1987.
Rispetto a quella, infatti, grazie anche alla comoda ripetibilità offerta dalla sala di incisione, si percepiscono alcuni miglioramenti.
Il terzetto delle maschere, per esempio, è favoloso, fra i migliori mai registrati.
I due finali d’atto sono del pari fantastici; il Finale Secondo patisce solo un po’ di anonimato indotto dalle performances vocali di due interpreti su tre, ma il modo in cui scatta l’orchestra sul “Già la mensa è preparata” riesce a essere eccitante e tragico allo stesso tempo, come se i due accordi anticipassero in modo diverso l’ingresso del Commendatore.
Eccezionale anche l’accompagnamento di “Dalla sua pace”.
Devo dire che, in questo contesto, si ha non solo una sequenza di bellissimi episodi musicali, ma anche di una continuità drammatica, magari un po’ scontata – la corsa verso il precipizio, il desiderio di bere la vita fino alla feccia, un aspetto che in Muti è spesso presente (si pensi alla sua Traviata) – ma reale e teatralmente palpitante, oltre che drammaturgicamente attendibile.
Grande prova, che non solo regge al passare degli anni ma, devo dire, guadagna anche.

Merita invece qualche considerazione la scelta dei cantanti, che cambiano drasticamente dalla prova teatrale del 1987, a eccezione di Mentzer e De Carolis che, infatti, sono quelli che presentano più sincerità di accento essendo già rodati dal teatro.
Mi riesce piuttosto misteriosa la presenza come protagonista di William Shimell: sconosciuto mi era all’epoca, carneade continua a essere ancora oggi: a leggere i database, ha cantato un po’ dappertutto senza veramente caratterizzarsi per qualcosa. Certo, non canta male: ma che ci fa in un contesto come questo? Alla Scala c’era stato il ben più interessante (attenzione: non vuol necessariamente dire “migliore”) sir Thomas Allen, che aveva fornito la propria versione di DG a metà strada fra il predatorio e il sofisticato-intellettuale. Qui, al di là dell’origine british, di comune c’è ben poco. L’espressione è estroversa, il canto formalmente corretto, pur se in difficoltà nei passaggi resi particolarmente critici da Muti; ma non c’è un solo passaggio che rimanga in mente.
Al suo fianco, il canto molto più vario e mutevole di Sam Ramey (nell’aria del catalogo, chissà perché – come già accadeva nel recital Philips – ripete “marchesone” invece dei più frequenti “marchesane” e “marchesine”) si pone come termine di paragone, anche se il basso americano aveva già impresso la propria orma come Don Giovanni nella produzione di Karajan, e perciò sembra alquanto strano, e forse un po’ forzato, sentirlo in questa parte.
Rootering è anonimo e poco interessante, mentre De Carolis è molto bravo come già lo era stato a teatro.
È invece piuttosto difficile esprimere un parere su Lopardo. Adesso se ne sono perse un po’ le tracce ma, all’epoca, era presente in praticamente tutte le produzioni discografiche mozartiane e non solo. La voce non era male come impasto timbrico, ma la pronuncia era abbastanza modesta. Gli acuti erano di buona qualità, ma le agilità erano un po’ raffazzonate. Insomma, visto col senno di poi era un’onesta “via di mezzo”. Qui, invece, non è niente male. Si percepisce un lavoro molto approfondito fatto col direttore che si evidenzia soprattutto in “Dalla sua pace”, in cui il respiro particolarmente controllato permette un risultato di assoluto rispetto. Il cantante continua a rimanere sullo sfondo dei veri, grandi interpreti, ma l’esito globale è davvero buono.

Le donne sono complessivamente meglio.
La Studer di quegli anni era davvero una gran bella cantante, un soprano lirico vero a suo completo agio in una fetta di repertorio che andava da Semiramide all’Imperatrice della Donna senz’ombra, passando attraverso la Regina della Notte (eccellente nella registrazione di Marriner), Lucia, Mathilde, Elena, Odabella e Sieglinde. Io non l’ho mai trovata generica e, anzi, in qualche ruolo (l’Imperatrice, per esempio), mi è sembrata anche memorabile. La sua Donna Anna è cantata benissimo: veemente, ispirata, musicalissima, anche molto ben orientata nei passaggi di coloratura di “Non mi dir”, in cui si colloca fra le migliori della discografia.
Molto ben cantata anche l’Elvira della Vaness, anche se non risulta particolarmente memorabile.
Notevole infine la Mentzer, che fece un’ottima impressione alla Scala grazie alla figura avvenente, alla voce un po’ fumosa ma intonatissima e all’innata sensualità: a mio personalissimo gusto, fra le migliori documentate da disco.

Da segnalare, infine, l’eccellente lavoro al fortepiano di Bob Kettelson, grande collaboratore di Muti in fase di rifinitura musicale; la sua morte prematura è stata una grave perdita per tutti, appassionati e non. Qui siamo ancora in epoca precedente alla rivisitazione fantasiosa dei recitativi, tipica del periodo filologico; ma il lavoro di Kettelson è davvero notevole per serietà e competenza. Ho avuto il privilegio di conoscerlo, lo ricordo con immenso affetto

Pietro Bagnoli

Categoria: Dischi

 

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