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Aggiunto il 26 Dicembre, 2006

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Feodor Chaliapine o Chaliapin



Note biografiche



Feodor Chaliapine o Chaliapin
Kazan, 13 febbraio 1873 – Parigi, 12 aprile 1938

Nato nel 1873 (come Enrico Caruso, l’altro mito del proto-Novecento) Chaliapine fu il primo cantante russo a conquistarsi una reputazione leggendaria.
Le sue origini furono modeste, segnate dalla povertà e dall’alcolismo del padre. Giovanissimo dovette prestarsi ai lavori più diversi: ciabattino, impiegato, tornitore, scaricatore dei battelli del Volga; fu persino assunto da una compagnia di giocolieri e prestigiatori.
Nel 1892 si impiegò a Tiflis in Georgia in un ufficio delle Ferrovie Transcaucasiche: qui conobbe Ussatov, antico tenore del Bolchoi (primo interprete di Lensky), che gli diede una formazione vocale e lo introdusse alle nuove frontiere della musica russa: il gruppo dei Cinque e in particolare Musorgskij e Borodin.
A Tiflis iniziò la carriera operistica che però prese il volo solo nel 1896 grazie all’incontro col grande mecenate privato Savva Mamontov, perno delle tendenze artistiche e pittoriche più avanzate di Russia. Costui non solo intuì le risorse del giovane, ma lo introdusse fra i grandi intellettuali della sua cerchia. Furono questi gli anni in cui Chaliapine divenne il modello prediletto dei pittori più avanguardisti di Mosca (lo ritrassero Golovin, Kustoviev, Repin, Jakovlev e soprattutto Valentin Serov e Kostantin Korovin, suoi carissimi amici). Furono anche gli anni delle assidue frequentazioni di Rimsky-Korsakov e Rachmaninov (accompagnato al piano da quest’ultimo, Chaliapine fu ascoltato da Tolstoj). Negli stessi anni iniziò l’appassionata, fraterna amicizia con Maksim Gorkij, destinata a infrangersi vent’anni dopo quando Chaliapine, insofferente della dittatura bolscevica, abbandonò per sempre la Russia nel 1921.
Dal 1899 al 1914 restò legato all’Opera Imperiale di Mosca, ma nel frattempo era incominciata la sua avventura attraverso il mondo: a partire dal 16 marzo 1901 (debutto alla Scala), Chaliapine divenne la colonna dei maggiori teatri occidentali, in particolare New York (dove fu diretto da Gustav Mahler), Parigi e Montecarlo (dove tenne a battesimo il “Don Quichotte” di Massenett).
Nel 1908 a Parigi, partecipa alla Saison Russe di Diaghilev al Teatro Sarah Bernhardt; in programma il “Boris Godunov”, che veniva rappresentato per la prima volta in Occidente. È un successo tumultuoso, destinato a cambiare non solo la vita di Chaliapine, ma anche le sorti del capolavoro di Musorgskij.
La fama leggendaria di Chaliapine rimase immutata per i successivi venticinque anni, trascorsi a difendere nel mondo le grandiose raffigurazioni del suo repertorio. Pubblicò due libri autobiografici: “Memorie” (1927) e “La maschera e l’anima” (1932) e nel 1933 girò un film (“Don Quichotte”) per Michael Pabst.
Diede l’addio alla scene nel 37 a Montecarlo (cantando ovviamente il “Boris”) e morì a Parigi l’anno seguente, in seguito a un banale intervento chirurgico.



Registrazione



Bellini, NORMA
Ite sul colle, o Druidi. 1912

Bellini, LA SONNAMBULA
Vi ravviso, o luoghi ameni. 1912, 1921/23, 1927

Boito, MEFISTOFELE
Prologo: Ave Signor. 1907, 1912, 1923, 1926, 1927
Son lo spirito che nega. 1926
Ridda e fuga. 1926

Borodin, PRINCE IGOR,
Aria di Galitzky. 1911, 1922
Aria di Igor. 1924
Aria del Kahn Konchak . 1921/23, 1927

Dargomyzhsky, RUSALKA
Aria del mugnaio. 1931
Scena e morte del mugnaio (con G. Pozemkovsky). 1931

Delibes, LAKME
Ton doux regard. 1908

Donizetti, LUCREZIA BORGIA
Vieni, la mia vendetta. 1912

Glinka, LA VITA PER LO ZAR
Aria di Susanin. 1902, 1908, 1923

Glinka, RUSSLAN E LUDMILA
Rondò di Farlaf. 1908, 1931 Matrix
Aria di Russlan. 1908

Gounod, FAUST
Il vitello d’oro. 1902, 1907, 1930
Nous nous retrouverons. 1930
Il était temps. 1908
Scena della chiesa (con Michailowa). 1908,
Serenata. 1907, 1923, 1930

Massenet DON QUICHOTTE
Morte di Don Quichotte (con O. Kline). 1927

Meyerbeer, ROBERTO IL DIAVOLO
Suore che riposate. 1912, 1923/25

Mozart DON GIOVANNI
Aria del catalogo. 1923, 1926

Mussorgsky, BORIS GODOUNOV,
Scena dell’Incoronazione. 1926, 1928
Monologo di Pimen. 1908, 1911, 1922
Canto di Varlaam. 1911, 1922
Monologo di Boris. 1923, 1928, 1931
Scena della Pendola. 1928, 1931
Preghiera, addio e morte di Boris. 1911, 1922, 1928

Puccini, LA BOHEME
Vecchia zimarra. 1924

Rakhmaninov, ALEKO
Cavatina di Aleko. ?, 1929

Rimsky-Korsakov, SADKO
Canto dell’ospite vichingo. 1913, 1922, 1927

Rossini, IL BARBIERE DI SIVIGLIA
La Calunnia. 1908, 1912, 1922, 1927, ?

Rubinstein: IL DEMONE
Do not weep, child. 1911
On the ocean of the air. 1911

Serov, LA FORZA NEMICA
Canto di Eremka. 1908

Verdi, DON CARLOS
Dormiro sol. 1908, 1922

Verdi, ERNANI
Infelice e tuo credevi. 1912

Verstovskiy, ASKOLD
Aria atto I. 1908



Commenti



Il Cristoforo Colombo dell'opera russa
Più che di basso, Chaliapine ebbe l’estensione di un bass-bariton, come dimostrano tanto la facilità degli acuti, quanto la cautela nell’affrontare i gravi al di sotto del fa diesis (nell’aria di Konchak e nel Mefistofele il basso deve ricorrere ad aggiustamenti).
Del basso-basso Chaliapine non aveva nemmeno i colori neri e sepolcrali.
In proposito ricordiamo una famosa battuta di Alexander Kipnis, lui sì vera canna d’organo. In occasione di un “Don Giovanni” al Metropolitan (in cui Kipnis era scritturato come Commendatore, Chaliapine come Leporello ed Ezio Pinza come Don Giovanni), un giornalista gli chiese se non lo disturbasse dividere il palcoscenico con altri celebri bassi. Kipnis rispose che ne sarebbe stato estremamente disturbato, ma per fortuna, in quell’occasione, era circondato solo da baritoni.
Chaliapine (come Pinza, d’altronde) era – come si diceva all’epoca - “basso cantante”, ossia di tessitura baritonale; egli si valse dell’ambiguità di registro per passare disinvoltamente da ruoli di basso a ruoli di baritono, persino della stessa opera: nel “Principe Igor” fu Igor (baritono) e Konchak (basso); nella “Kovanchina” fu Dosifej (basso) e Kovanchi (baritono); nel “Russlan e Ludmilla” fu Russlan (baritono) e Farlaf (Basso).
Questo eclettismo produceva grande impressione all’epoca e non solo per questioni vocali, ma anche perché presupponeva una considerevole versatilità interpretativa. Il caso più celebre è quello del “Boris Godunov” di Musorgskij, opera in cui Chaliapine poteva vestire i panni tragici del protagonista, quelli mistici di Pimen e quelli buffoneschi di Varlaam.
La vocazione al trasformismo psicologico (di cui parleremo meglio in seguito) ha alimentato il mito di un attore geniale e metamorfico. Storici, commentatori, testimoni non si stancano di celebrare il magnetismo di Chaliapine, la mobilità della sua gigantesca figura, le innovazioni apportate alla gestualità, alla mimica, persino al trucco e alla scelta degli abiti.
Purtroppo non ci restano documenti dell’arte scenica di Chaliapine (con la parziale eccezione del film di Pabst). In compenso i numerosi dischi incisi lungo più tre decenni per la Voce del Padrone e per la Victor possono dirci tanto sulla sua rivoluzione vocale.
Fin dalla prima gioventù, questo “patriarca girovago” (la definizione è di Barilli) si sentì orientato alla musica avanguardista del Gruppo dei Cinque, che distoglieva gli occhi dalle tradizioni occidentali per fissarli sul genio tormentoso del popolo russo. Chaliapine comprese sulla propria pelle che la novità di questo repertorio non poteva essere adeguatamente valorizzata dai cantanti allora impiegati nei palcoscenici imperiali, tecnicamente forgiati all’occidentale. Il vocalismo aulico, sontuoso ma povero di colori della tradizione italiana (quello che, come vedremo, era definito “nella maschera”) non poteva evocare le tipiche sonorità del popolo russo, le sue multiformi tradizioni profane e religiose. Chaliapine sentì quindi il bisogno di “inventarsi” una nuova declamazione, teoricamente più “realistica”, in pratica dotata di nuovi strumenti sonori e retorici all’altezza di Musorgskij e compagni.
Da questa esigenza nacque uno stile nuovo e audace, che fece di Chaliapine, come scrisse Nemirovic-Dancenko, il Cristoforo Colombo dell’opera russa.

DAL CANTO “IN MASCHERA” AL SINCRETISMO
Ma in cosa consisteva esattamente lo stile di canto inventato da Chaliapine e quali ne furono le fondamenta tecniche?
Il primo passo fu quello di capire che il canto “in maschera” all’italiana, regolarmente praticato dai cantanti russi e studiato dallo stesso Chaliapine, non era più sufficiente. A farglielo capire fu il suo maestro di canto, il tenore Ussatov, allievo di Garcia ma anche acceso sostenitore della “nuova” musica russa. Costui da un lato insegnò a Chaliapine il dominio della tecnica “italiana”, dall’altro gliene fece comprendere i limiti (in particolare la povertà di colori).
Tecnicamente parlando, la scuola italiana prevede che il cantante usi le cavità facciali come casse di risonanza del suono: avvalendosi poi del millimetrico sostegno del fiato, il virtuoso può manipolare e riplasmare i suoni in misura sorprendente, fino a estendere all’inverosimile la flessibilità, la proiezione e l’estensione della sua voce.
L’unico limite è che le vocali, così oscurate, raccolte e stilizzate, si uniformano e perdono i loro colori originari; la stessa parola cantata diventa incomprensibile, si riduce a mero suono.
Questo non era un problema nel pieno del Barocco, quando la musica e il canto dovevano essere semplici metafore del Bello, anzi del Meraviglioso. Ma è naturale che, alla fine dell’800, in piena esplosione di poetiche naturaliste, l’imperialismo del canto all’italiana cominciasse ad essere posto sotto accusa.
Come abbiamo detto, Chaliapine sapeva cantare all’italiana: tutti i suoi dischi sono ricolmi di suoni “alti”, morbidi, leggeri, risonanti; e non di meno, come già Ussatov, si sentiva prigioniero della povertà coloristica di questa tecnica.
Nessun cantante d’opera gli piaceva; preferiva applaudire gli attori russi. Li invidiava quando, con la loro voce, imitavano ed evocavano i colori e gli accenti del contadino, del principe, del soldato, del mendicante, del frate sfratato o del mistico ortodosso, mentre lui, in quanto cantante, era condannato a restare prigioniero di quelle vocali tutte oscurate, omogeneizzate, indifferenziate.
Certo, avrebbe potuto passare un colpo di spugna sulla tecnica italiana (come avevano fatto poco prima di lui i Wagneriani) e ripartire da zero. Ma nemmeno questo era possibile per lui: per monocromatica che fosse, soltanto la tecnica italiana poteva assicurargli i fraseggi torniti e la finitezza scultorea necessari alle arcate melodiche su cui poggia la musica russa.
Finalmente, nello studiare la “Canzone della Pulce” di Musorgskij, Chaliapine trovò la strada: se non era possibile fondere l’elocuzione parlata al canto vocalistico, sarebbe bastato accostarli secondo un processo di continua, caleidoscopica, arlecchinesca giustapposizione.
Per intenderci: l’intelaiatura melodica di un’aria sarebbe rimasta “in maschera”(ossia omogenea, timbrata, vibrante); ma tutto intorno l’interprete avrebbe cosparso suoni ed effetti da attore di prosa, per nulla “vocalistici” e, in molti casi, nemmeno “canori”.
È come se un impeccabile cantante italiano e un attore di prosa alla Stanislavskij avessero deciso di spartirsi lo spazio di un’aria, battuta per battuta, nota per nota.
Difficile descrivere il vastissimo repertorio di sonorità “non vocalistiche” che Chaliapine scopriva, elaborava, riproduceva, traendole dalla parlata comune o dalle tradizioni popolari russe, profane o religiose. Si poteva trattare di suoni nasali o platealmente aperti o ancora gutturali ed esofagei o ancora di versi inarticolati e a bocca chiusa (mugolii, borbottii, digrignamenti, rantoli) o persino l’esilarante gioco di labbra (una specie di “ba-ba-ba”) in occasione di melismi e agilità.
Nei momenti di massima tensione (ad esempio nella scena della pendola del Boris) Chaliapine poteva anche abbandonare le note scritte e andare avanti a recitare, con effetto simile al contemporaneo sprechgesang inventato dai tedeschi. In altri casi ancora sembrava non cantare, ma canticchiare, come quando ricorreva ai suoi celeberrimi falsetti. Per avere un’idea di quali effetti Chaliapine traesse da questi afoni sussurri consiglierei di ascoltare il “Canto d’Amore Persiano” di Rubinstein o la fine della preghiera del “Boris”, dove uno di questi aliti dell’anima pare levarsi dalle più inaccessibili profondità della coscienza.
Col passare degli anni questa tecnica sincretistica e virtualmente espressionistica pervenne a livelli talmente geniali ed esuberanti da sfiorare il manierismo: Chaliapine non ci arrivò, per fortuna; l’ingrato compito di insistere su questi effetti fino a renderli stucchevoli toccò alla vasta progenie dei suoi eredi e imitatori.

IL RITMO COME CAMBIO DI MARCIA EMOTIVA
Il limite di una tecnica fondata sul “cromatismo” è quello di non saper gestire il “chiaroscuro”.
E infatti Chaliapine può apparire a disagio quando deve esprimere con la voce sfumature o graduali trapassi emozionali all’interno di uno stesso brano (è per questo che il suo canto comunica talora una sensazione di enfasi e di eccesso). Forse consapevole di questo limite, Chaliapine poteva ricorrere in questi casi ad espedienti non di natura vocale, ma musicale.
Il suo stratagemma preferito – ma detestato da tutti gli altri - erano le licenze ritmiche.
Si sono ascoltate storie di tutti i tipi sulle sue intemperanze in questo senso, sul suo caparbio imporre i tempi più eccentrici e irrispettosi: un esempio fra i tanti è quello il direttore Michel Steiman che dovette interrompere una rappresentazione di “Mozart e Salieri” di Rimsky, perché Chaliapine, per costringerlo a seguirlo, si era messo a battere una forchetta sul tavolo, mandando in crisi l’orchestra.
Eppure è sbagliato, secondo me, scambiare queste tattiche (per aberranti che possano sembrarci) con scarso senso del ritmo. Se c’è qualcosa che Chaliapine sentì profondamente è proprio il tempo musicale e la sua architettura profonda. Il problema è proprio che tendeva a impossessarsene e a gestirlo in modo dispotico, a dispetto di tutti, allargando a dismisura o stringendo repentinamente o interpolando pause e corone. Le sue licenze, che mettevano in crisi colleghi e direttori non erano però anti-musicali come vorrebbero gli idolatri del metronomo; riflettevano una visione più ampia, in cui la melodia aderisce all’asse emotivo della frase e ne ricava le proprie pulsazioni.
Se, ad esempio, si ascolta il terzo brano del “Don Quichotte” di Ibert, creato e inciso da Chaliapine in occasione del film di Pabst (“Un an me dure la journée”) si noterà che il cantante parte con un tono cavallerescamente atteggiato e comicamente altero, da hidalgo che omaggia la propria dama, ma progressivamente discende nella consapevolezza della propria solitudine e del vuoto di un’esistenza immolata all’Ideale. Per esprimere tutto questo, Chaliapine agisce sul ritmo, destrutturando letteralmente la melodia, elevandola oltre il suo stesso significato e schiudendo un orizzonte di amarezza crepuscolare che la stessa musica (se rigorosamente battuta) non avrebbe reso. Basterebbe l’ascolto di questa esecuzione incantatoria per comprendere che l’estrosità ritmica di Chaliapine non fu un semplice vezzo, una stramberia da perdonargli perché era Chaliapine, ma (ci piaccia o meno) un elemento vitale alla sua dialettica.

DAL REALISMO AL SURREALISMO
Come si è detto, l’idea di uno stile fondato sull’antifrasi cromatica era nata in Chaliapine dal suo bisogno di realismo; era una dichiarazione di guerra al canto italiano, astratto ed edonistico.
Data una simile premessa, tutto ci si poteva aspettare fuorché ciò che in effetti avvenne:
Chaliapine non fu affatto un interprete “realista”; fu esattamente il contrario: il più grande cantore dell’Assurdo, del Surreale e persino del Grottesco che abbia conosciuto il 900. Il suo destino fu di raccontare l’uomo, ma non (come avrebbe voluto) attraverso la sua veristica rappresentazione, bensì attraverso la sua caricatura. Il suo declamato puntuto e sovraccarico, dai molteplici riverberi e dai bagliori in lontananza, sapeva infatti portare alla luce la ferita invisibile dell’umanità, quella che si nasconde dietro le deformità e le bizzarrie.
In Chaliapine comico e tragico erano riflessi della stessa luce, ed egli sapeva far dialogare con tale evidenza il patetico e il grottesco che i suoi contemporanei videro in lui (che pure proveniva da lande fredde e ben poco mediterranee) l’incarnazione stessa di Don Quichotte.
Nulla di strano, quindi, che Chaliapine non abbia sentito il fascino dei ruoli solenni e paternalistici in cui tipicamente si illustrano i bassi (tipo Padre Guardiano) e che al contrario si sia concentrato su macchiette come Don Basilio, il Mugnaio della “Rusalka” di Dargomisky, Leporello, lo stesso Varlaam. Tutti questi caratteri comici, a contatto con Chaliapine, si monumentalizzavano e divenivano l’epica proiezione di un’umanità sordida ma incolpevole, perché dietro la sua miseria si rifletteva quella dell’umanità intera.
A questo proposito, sono rivelatrici le parole che lo stesso Chaliapine scrisse a proposito di Varlaam, il frate mendicante del Boris, alcolizzato, semianalfabeta, ridicolo e abbandonato a se stesso, che grida canzonacce all’osteria per tacitare il pianto della sua anima di rifiutato dal mondo.
Ma anche i grandi “cattivi” che Chaliapine sbalzava con vigore ferino (come Ivan il Terribile, Oloferne, Salieri, Filippo II) trovano il loro riscatto nel vortice di contraddizioni umane e psicologiche di cui l’interprete sapeva arricchirli.
Ed è ancora l’umanità, con le sue blasfeme recriminazioni e impotenti rivolte, ad agitarsi dietro ai famosi diavoli di Chaliapine (Boito, Gounod, Meyerbeer, Rubinstein…) vertici di questa carnevalesca rappresentazione dell’umanità. E per quanto Chaliapine si impegnasse a renderne terrorizzante l’aspetto, addirittura bestiale (per acuire la fissità dello sguardo, si infilava lamine metalliche sotto le palpebre), un fondo di angoscia e un anelito di rivalsa restavano a mulinare sotto le fiammate della voce: basta sentire l’urlo di disperazione con cui Chaliapine aggredisce - nel canto del fischio - la parola “rido”.
L’estremizzazione delle debolezze e delle grandezze dell’individuo diviene, per Chaliapine, lo strumento del suo Umanesimo: l’uomo non è descritto o giudicato di per sé, ma diviene metafora dell’universo che lo esprime, che può essere tutta l’umanità o anche semplicemente il Genio del Popolo Russo. È questo il caso dei grandi ritratti storici sbalzati da Chaliapine fra sentimento popolare e rappresentazione epica, soldatesca tribalità e candore infantile: il Principe Kovanchi, il Principe Igor, il Russlan e il Sussanin di Glinka.
Da essi, però, occorre tenere ben distinto lo zar Boris.
A differenza di tutti gli altri personaggi di Chaliapine, egli non rimanda ad altro, non si fa sintesi del mondo. Boris, l’infanticida, è solo.
Deposti umanesimi e caricature, Chaliapine fissa l’obbiettivo nella voragine della coscienza e da lì non si sposta. La tavolozza del suo canto è sempre sgargiante, ma i frastornanti bagliori questa volta sembrano spegnersi nel buio impenetrabile che circonda l’usurpatore. In lui e fuori di lui non c’è che tenebra e - sullo sfondo - il Cremlino, Mosca, il mondo intero paiono pietrificati.
La lucidità con cui Chaliapine seppe descrivere la concentrazione dell’orrore, la torsione ossessiva della coscienza e l’erosione dell’anima, fa del suo Boris una rappresentazione della disperazione umana tra le più compiute e allucinanti di ogni tempo.

Matteo Marazzi

Categoria: Cantanti

 

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