Backstage: Macbeth di Martin Kusej a Monaco. Regietheater o Dummtheater - di Francesco Brigo
Aggiunto il 01 Agosto, 2013
C’è chi lava i panni sporchi in famiglia, chi nasconde gli scheletri negli armadi e chi la polvere sotto il tappeto. Macbeth e consorte, in questa “non-regia” di Kusej, hanno scelto di nascondere gli orrori del loro inconscio nientemento che in una tenda da campo. E, giusto per far capire fin da subito allo sprovveduto spettatore quale sia lo spirito dell’opera verdiana, hanno scelto di piantare la loro tenda in una pianura letteralmente invasa da centinaia di teschi. Si sa, un teschio fa molto simbolo di morte per bambini deficienti, mentre decine e decine di teschi bianchi e perfettamente levigati sono puro design.
Questa la scena iniziale del Macbeth monacense. Spettacolo che, nel complesso, rappresenta in modo emblematico tutti i limiti teatrali del famigerato Regietheater tedesco. Che, dopo aver subito la visione di questa “non regia” proporrei di ribattezzare Dummtheater, teatro della stupidità. Se non altro come rispetto per quei registi, che –Konzept o no– teatro vero lo sanno fare.
Molti i momenti assolutamenti… dimenticabili dello spettacolo. Le streghe come minuscole pulci che assalgono una comitiva di passaggio per la suddetta landa invasa dai teschi (posto ideale per una scampagnata), impossessandosi dei loro corpi e spiriti: divertentissimo vedere questi turisti molto british perdere il loro aplomb e mettersi improvvisamente a grattarsi in maniera selvaggia. Salvo poi decidere di soddisfare altri pruriti. E siccome la location sembra davvero ideale per un po’ di sesso sfrenato, via soprabiti, pantaloni e camicette. Tutti in lingerie, mutandoni e reggiseno a copulare allegramente, sulla musica della tarantella demoniaca ideata da Verdi! Naturalmente con l’immancabile accompagnamento delle luci stroboscopiche (ancora?! Signor Kusej, non si potevano evitare, almeno questa volta? Certo, lo sappiamo bene che la biancheria intima è una sua fissazione, e che per lei il sesso altro non è se non una vuota ripetizione di gesti meccanici e privi
di senso, ma – insomma! – se ne faccia una ragione!). Le streghe riappaiono poi come bambini vestiti come perfetti scolaretti di Oxford, biondissimi, bellissimi, cattivissimi. Ovunque sangue e atrocità da filmone splatter: il povero re Duncano che fuoriesce dalla tanda da campo letteralmente maciullato, feti sanguinanti, cadaveri squartati e appesi a testa in giù… La scena del banchetto con tutti rigorosamente vestiti in abiti medievali (le donne, in particolare, sembravano tante copie delle disneyane Flora, Fauna e Serena: delizioso). E tuttavia, dopo la terrificante (oh quanto!) apparizione del fantasma di Banco (in realtà sono ancora i bambini-streghe, ciascuno con una maschera di Banco in capo, manco fossimo a carnevale), eccoli pronti a denudarsi (ancora?!) e a restarsene smutandati a circondare il povero Macbeth, neanche fossimo nel giudizio universale michelangiolesco. Al banchetto, per inciso, partecipa anche Banco. O meglio, la sua testa mozzata, debitamente nascosta in un sacchetto di plastica da supermercato. Della serie “amore, ti avevo chiesto un’ anguria e mi porti una testa decapitata”? Le apparizioni dei tre spiriti? Presto detto: il primo è una testa mozzata (quella di banco?) che piove dall’alto, poi arriva Rex il cane (giuro che non sto mentendo!) e se la porta via; il secondo è un bimbo insanguinato dalla testa ai piedi; il terzo un bambino che indossa la maschera di Joker. Dimenticavo i turisti posseduti che, all’inizio del terzo atto, perso definitivamente ogni senso del pudore, si mettono persino a orinare in scena, mentre i bambini-streghe si affrettano a raccoglierne le deiezioni da aggiungere alla pozione stregata. A quanto pare per Kusej l’urina umana aggiunta a dito di pargolo, pelo di nottola, rospo venefico eccetera eccetera fa molto novelle cuisine.
Non è solo brutto, questo Macbeth. E’ incoerente, privo di idee, sconclusionato, effettistico, tecnicamente mediocre. In una parola, stupido. E della stupidità meglio non parlare.Anzi, scusate, ne ho parlato già troppo.
Musicalmente si è trattato di un Macbeth discontinuo. A partire dalla direzione dell’anemico Massimo Zanetti, sonnacchiosa e di routine in un’opera in cui se non si ha nulla da dire, meglio non dire nulla. Peccato, perché avendo a disposizione un’orchestra eccellente come la Bayerisches Staatsorchester si poteva davvero realizzare qualcosa di significativo. Non ho mai capito se Macbeth sia parte per vocalista o piuttosto per declamatore (come forse pretendeva il Verdi dal Varesi, almeno a leggere alcune lettere). Di certo però è ruolo che pretende presenza scenica indiscutibile, grande personalità, dominio assoluto della parola scenica. In altri termini, per Macbeth non c’è spazio per le mezze calzette. Lo ammetto, prima di ascoltare Zeljko Lučić ero scettico e prevenuto. E invece il baritono serbo si è dimostrato assolutamente eccellente nella dizione, con un’interpretazione sfumata, ricca di colori, assottigliamenti, sussurri. Un Macbeth che non grida mai, ma che nella mezzavoce e nei toni sommessi risulta tanto più pericoloso. La Lady di Nadja Michael mostra invece con evidenza tutti i limiti imposti da una tecnica declamatoria quando applicata ad una parte eminentemente vocalistica. Con buona pace dei sostenitori della tecnica vocale unica (e qui la pernacchia è d’obbligo). Ogni acuto un grido straziante, le agilità spianate, l’intonazione precaria, l’impossibilità assoluta a sfumare e alleggerire. Un vero peccato. Anche perché tra sprazzi di una voce allo stremo, si intuiscono delle intuizioni assolutamente non banali: l’inizio del sonnambulismo, in particolare, è da pelle d’oca. Peccato che l’emozione sfumi rapidamente, almeno tanto quanto l’intonazione. Resta però un’ interprete gigantesca dal punto di vista scenico. Certe occhiate di questa donna magra, alta, di una bellezza funerea (la somiglianza fisica con la Mia Farrow di Rosemary’s Baby di Polanski è impressionante), sono di una potenza, di unapregnanza, di un’immediatezza teatrale straordinari. Più ordinari gli altri. Solido ed espressivo il Macduff di Wookyung Kim, accolto da un boato di approvazione al termine dell’aria (applausi meritati, va detto, sebbene Maugham insegni che a Monaco i tenori, di qualunque livello, vengano comunque osannati), e molto buoni il Banco di Dmitry Belosselskiy e il Malcolm di Emanuele D'Aguanno. Last but not least, il coro. Se ancora qualcuno crede alla leggenda metropolitana secondo cui il coro della Scala sarebbe insuperabile in Verdi, suggerirei una gitarella a Monaco di Baviera. Sarebbe probabilmente un’uscita istruttiva. Per me, quanto meno, lo è stato. Ascoltare, a latitudini così nordiche, un “Patria oppressa” così perfetto nella dizione, negli attacchi, nell’intonazione, cantato a fior di labbra, ricco di sfumature e colori è stata un’ esperienza davvero inaspettata. Eppure a Monaco le masse corali sono fatte da tedeschi veri, genuini crucchi di Germania. Uomini e donne adusi alla birra, non certo al lambrusco, che qualche parole di italiano le parlano, verosimilmente poco e male, solo quando sono in vacanza sul Lago di Garda. Chissà quale sia il segreto di un risultato tanto perfetto. Forse uno solo. Studio, studio, studio. Dovrebbero ricordarsene anche più al sud.
Francesco Brigo (AKA Dr. Malatesta)