Backstage: Due Walkure a confronto - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 05 Maggio, 2013
Siccome è periodo di anniversario wagneriano, è inevitabile approfondire l’ascolto di registrazioni di opere del grande autore tedesco. In questi giorni, in modo non del tutto casuale, mi sono capitate fra le mani due registrazioni della Walkure, molto differenti e molto distanti anche dal punto di vista temporale fra di loro.
La prima di queste registrazioni, pubblicata dalla linea è un broadcast del 1946 dal Metropolitan di New York che ha il suo motivo di interesse principale nella Sieglinde di Astrid Varnay, la quale aveva debuttato proprio questo ruolo cinque anni prima nello stesso teatro, e neanche una settimana dopo aveva sostituito Helen Traubel (che compare anche nella presente registrazione) nel title-role, quello che diventerà il suo ruolo-feticcio, il suo marchio di fabbrica più autentico nel corso di numerose stagioni a Bayreuth.
L’altra registrazione è invece in studio, e si tratta dell’incisione effettuata da Valery Gergiev con i complessi del Mariinsky, e con un cast costruito assemblando alcuni fra i più importanti cantanti wagneriani del nostro periodo.
Il trait d’union fra le due registrazioni, è il fatto di essere nate entrambe al di fuori dei confini di Bayreuth e quindi, almeno entro certi limiti, di essere entrambe espressione del cosiddetto “Wagner internazionale”; questo ci permetterà di valutare le registrazioni, e di poterle paragonare fra di loro, senza partire dall’inevitabile presupposto che una sia necessariamente più “giusta” dell’altra perché maturata entro i confini del Colle.
Ovviamente prescindere o anche dalla qualità fonica, necessariamente infinitamente superiore nella registrazione di Gergiev; ma la qualità complessivamente decorosa del broadcast americano ci permette di farci un’idea sufficientemente adeguata anche della performance più antica.
La prima considerazione da fare è necessariamente sulla direzione.
Il direttore del broadcast americano è tale Paul Breisach, a me
prima completamente sconosciuto. Nato in Austria nel 1896, era alla sua ultima stagione di permanenza al Metropolitan; non ne sappiamo molto di più, ed è ragionevole pensare che fosse uno dei tanti routinier che si avvicendavano, soprattutto in opere wagneriane, sul podio del teatro di New York. La sua direzione, di passo spedito e priva di fronzoli, ha il pregio fondamentale di non annoiare; ma qui si limitano le sue benemerenze, giacché il canto viene totalmente ignorato, abbandonato a se stesso, soprattutto con cantanti come per esempio Melchior che, invece, ne avrebbero drammaticamente bisogno.
La differenza con Gergiev è, su questo piano, assolutamente stridente. Gergiev, direttore che solitamente non amo, compita una direzione limpida, pulita, cristallina, assolutamente leggibile pur senza rinunciare a una drammaticità fatta di sottili filamenti nervosi, epidermici. Il canto viene esaltato, sorretto con amore, accompagnato con intensità ed esaltato nelle nervature più scoperte; si consideri tale proposito il lavoro evidentemente molto intenso svolto con l’elemento più debole del cast, che purtroppo è anche quello che ricopre anche il ruolo più importante, e cioè René Pape.
A New York, l’elemento più interessante è prevedibilmente Astrid Varnay.
La cantante americana di origini norvegesi ha 28 anni e, come anticipato, ha già debuttato il ruolo cinque anni prima. Ruolo che a quel punto ha un po’ lasciato da parte, essendosi ormai abbondantemente appropriata della parte di Brunnhilde che le è sicuramente più congeniale. Nonostante ciò, la prestazione è di bruciante modernità: pur non essendo ancora transitata dalle parti di Bayreuth, Astrid ha già un dominio assolutamente diabolico del declamato, che fa di lei una Sieglinde nervosa, vibratile, ricca di violenza espressiva e di intonazione solo episodicamente periclitante quale conseguenza di un’emissione violenta, che fa presagire in filigrana anche l’Elektra che verrà. Si consideri per
esempio il tono febbricitante in cui viene enunciato il “Der Männer sippe”: bisognerà aspettare Leonie Rysanek per ritrovare qualcosa di anche solo lontanamente paragonabile. È ovvio che una Sieglinde del genere manda definitivamente in soffitta le interpreti angelicate che avevano trovato in Lotte Lehmann la loro interprete di riferimento.
La Kampe dell’incisione di Gergiev, pure interessante, non regge il confronto con un simile mostro di bravura: fa il suo onesto lavoro, è molto ben assecondata dal direttore, canta con gusto e discreta partecipazione emotiva e, lei sì, si ripropone nel novero vecchio e alquanto superato delle Sieglinde meste e tormentate, che accettano passivamente il loro destino.
Quanto a Siegmund, ovviamente il confronto viene stravinto e a mani basse da Jonas Kaufmann, probabilmente più sfaccettato interessante interprete di questo ruolo, se non di tutti tempi, quantomeno dall’epoca di Ramon Vinay (con la sola ovvia eccezione di Jon Vickers). Abbiamo già parlato diverse volte come il grandissimo artista tedesco riesca a piegare il proprio vocione a ogni minima inflessione con una naturalezza che lascia sconcertati ogni volta; a questo si aggiunge la completa maturità dell’artista che ha trovato in questo ruolo uno di quelli in cui riesce meglio a esprimere tutte le proprie potenzialità. Eccezionale il monologo del primo atto, ovviamente non per la durata dei “Wälse!” che, per molti, sono ancora il più importante indicatore della bontà della performance, quanto per il tono di allucinato e infantile stupore di chi, nel momento del bisogno, sa che avrà accanto a sé la figura paterna che lo proteggerà. Eccezionale anche il rapido trascolorare dal tono di tenera insicurezza alla certezza dell’uomo adulto nel secondo atto, durante l’Annuncio di Morte in cui, grazie anche all’intesa perfetta con Nina Stemme, riesce a dare un preciso significato a ogni indicazione dello spartito.
Ben diversa la situazione di Melchior a New York:
il cantante danese ha, a quel punto, 57 anni e una grande carriera dietro le spalle. Il suo Siegmund è semplicemente disastroso: non c’è un solo passaggio in cui vada a tempo, l’intonazione è una scommessa persa, il personaggio è totalmente inesistente. È semplicemente incredibile che esista ancora qualcuno che indichi in lui il cantante wagneriano di riferimento: voce più grossa che grande, tubata nella prima ottava; acuti sforzati e falsettanti anche nei suoi tempi migliori (quanto a questo, che abisso con i veri grandi tenori wagneriani); mancanza totale di dinamiche, incapacità integrale di cogliere qualunque sfumatura del personaggio che vada al di là del sorriso beota, quello che aveva sempre stampato sul faccione ogni volta che dava voce a Siegfried. Siamo onesti: cosa c’è da ricordare in un cantante così modesto? Al di là della lunghezza interminabile dei suoi “Wälse!”, per cosa vale la pena ricordarsi di questo che è semplicemente l’antitesi di un cantante wagneriano?
Siamo d’accordo, non dovrebbe essere questa la prova su cui giudicare la carriera di Melchior. Ma non sarà un caso se il cantante danese ha trovato la sua patria d’elezione nel Metropolitan, sede del cosiddetto “Wagner internazionale”, creando i suoi personaggi quasi sempre con la placida e paciosa Flagstad e con direttori di scarsissimo rilievo, nati e cresciuti nel teatro americano (con la parziale eccezione di Leinsdorf e Beecham). Ma è veramente stridente il confronto non solo con Kaufmann – che vedrebbe perdenti quasi tutti – ma anche con artisti del calibro dei già citati Vinay o Vickers; o, se per quello, anche King o il più modesto Windgassen che non aveva certo in Siegmund il proprio personaggio migliore. Ma persino Suthaus è meglio di questo adorabile troglodita.
Lauritz Melchior, simpatico gigante dal sorriso buono, è il classico prodotto di un’epoca in cui si pensava che Wagner dovesse essere abbaiato e blaterato canne al vento, e che Siegfried fosse il fanciullone
stupido, interdetto e adeguatamente coglione, figlio di una tradizione solo americana (a Bayreuth, come sappiamo, le cose andavano in modo diverso anche prima della Neue Bayreuth) che perdura ancora oggi.
Non che fosse tutta fuffa, quella di Melchior. È solo che pesare un’esecuzione sulla durata di un “Wälse!” mi sembra un po’ limitativo; e che il suo Siegfried, celebre solo per come col suo vocione riusciva a domare la scena della forgiatura della spada, è stato ampiamente surclassato da quello di Windgassen, uno che non aveva nemmeno un quinto della sua voce ma che, grazie anche a direttori e registi veri, è riuscito a trovare la vera chiave di lettura di questo personaggio, e cioè il percorso iniziatico simile a quello di un Tamino.
Deboli alla stessa maniera i due Wotan.
A New York c’è Joel Berglund, cantante svedese noto ai melomani per aver partecipato all’unico Ring di Karajan a Bayreuth nel 1951. Qui è decisamente rozzo, vociferante, privo di qualunque sfumatura e molto artificioso nell’emissione. Il rimando cui sembra rifarsi è Schorr che, però, poteva contare su ben altro mezzo vocale.
A suo confronto, Pape è un po’ meglio per l’emissione più sorvegliata, ma Wotan è un ruolo che gli sta decisamente largo: gli manca totalmente l’autorità morale, la forza, i colori, la capacità di frastagliare il passaggio. Qualunque paragone non dico con Hotter, ma anche con personaggi un po’ più prosaici come Theo Adam o John Tomlinson non si pone nemmeno per sbaglio. Il grande monologo del secondo atto è di una noia mortale proprio per l’incapacità di dominare il declamato; il terzo atto manca totalmente di autorità e il grande monologo finale naufraga in una melassa di cui Gergiev è corresponsabile.
Discrete entrambe le interpreti di Fricka. A New York c’è la Thorborg, che si bea della bellezza del proprio mezzo vocale e basta. La Gubanova viene ovviamente molti anni dopo la profonda revisione di questo personaggio; e di questo
aspetto bisogna tener conto giudicando la sua performance che, quanto a questo specifico aspetto, è anni luce sopra quella della Thorborg. In compenso, la voce della cantante svedese è molto più sfaccettata.
E veniamo a Brunnhilde.
Nel 1946 Helen Francesca Traubel ha 47 anni e ha da poco trovato il suo posto al Met dominato, quanto ai ruoli wagneriani pesanti, dalla Flagstad e dalla ben più interessante Marjorie Lawrence. La sua carriera è al top e questo ben lo si percepisce nella raffigurazione di un personaggio trepido e volitivo. Oltre a tutto, la voce si prestava particolarmente bene a Brunnhilde, con ottime fiondate all’acuto. Certo, il personaggio è un po’ monocorde nel suo virginale furore, ma ci si passa sopra volentieri.
La Stemme ha un paio d’anni in più, e a Brunnhilde c’è arrivata molto più tardi rispetto alla Traubel e alle sue colleghe; ma la sua presenza nel ruolo è ormai un dato di fatto di straordinaria importanza. Da un punto di vista vocale è perfetta: gli “Hojotoho!” iniziali sono resi con baldanza, ma tutta la parte si segnala per una freschezza vocale di cui non l’avrei accreditata a priori. Eccellente l’Annuncio di Morte in cui duetta con Kaufmann ribattendo colpo su colpo; ma addirittura meraviglioso il terzo atto che, praticamente, si carica in spalla da sola vista la latitanza di Pape.
Concludendo, ammetto che è un gioco un po’ sporco paragonare fra loro realizzazioni così distanti nel tempo, ma questo aiuta a chiarire qualche concetto, il più importante dei quali è: Wagner si canta indiscutibilmente meglio oggi di ieri...
Pietro Bagnoli