Venerdì, 22 Novembre 2024

Backstage: Cose di Wagner - Con quella testa da gatta - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 14 Aprile, 2012

Quando nel 1950 Wieland – in cerca di una primadonna – andò a ascoltare Martha Mödl, la prima a esserne meravigliata fu proprio lei: “Con la mia testa da gatta slava – disse, più tardi, nel libro-intervista in cui racconta la propria vita – non c’entravo nulla con i canoni estetici che immaginavo associati ai grandi ruoli wagneriani”. E invece, a sorpresa, fu convocata per un’audizione che avvenne nell’inverno dello stesso anno a Bayreuth. “Faceva un freddo infernale, e non c’era nemmeno il riscaldamento. L’audizione avvenne a sera, dopo tutto il giorno passato a aspettare, e Wieland mi fece cantare Kundry: fu come se la cantassi la prima volta”.
È il racconto dell’inizio di un rapporto unico, uno di quelli destinati non solo a cambiare la storia di determinati ruoli, ma a dettare proprio nuove regole dell’interpretazione.
È curioso che all’inizio la Mödl sia tanto preoccupata del proprio aspetto fisico. Non è bella – ne è consapevole, ironizzando sui propri lineamenti larghi e felini – eppure il volto che ci viene raccontato dalle fotografie è coinvolgente, lo sguardo è profondo e magnetico, il sorriso è misterioso. Tutto, nei tratti del suo viso, sembra effettivamente contraddire i canoni estetici classici tramandati dalle grandi Hochdramatische di impostazione classica, l’ultima delle quali era stata probabilmente Kirsten Flagstad. Donne che sembravano fatte apposta per l’Annuncio di Morte, con i lineamenti perfettamente equilibrati, che procedevano sul palcoscenico con la stessa forza che promanava dalla loro vocalità: Nanny Larsen-Todsen, Gertrude Grob-Prandl, Helena Braun, Helen Traubel, Frida Leider, Marjorie Lawrence, Germaine Lubin; lascerei da parte Martha Fuchs che, come vedremo, fa storia a sé. Erano tutte dee sfolgoranti, dalla vocalità miracolosa e forte come una roccia, dall’acuto luminoso come una sciabola. Tutte davano la sensazione di una certezza incrollabile, la stessa che invece era crollata miseramente cinque anni prima sotto i colpi di una guerra che si era ritorta contro chi l’aveva scatenata, aprendo scenari impensabili sino a pochi anni prima.
Eppure, ciò che avrebbe dovuto preoccupare maggiormente la Mödl era ben altro che il suo aspetto fisico. Arrivava a Bayreuth per confrontarsi con un modello vocale che era quello tramandato da una grande tradizione, arrivata però al “redde rationem”, e non solo per ragioni storiche.

A Bayreuth – come abbiamo anticipato nella puntata precedente – era ben chiara la necessità di ripensare profondamente quel festival che, sino a pochi anni prima, era permeato dalla presenza di “zio Wolf”. Lasciata quindi da parte Winifred e tutto l’ingombrante bagaglio che portava con sé, il festival era nelle mani del genio creativo di Wieland e di quello organizzativo di Wolfgang, i due fratelli in reciproco contrasto ma entrambi indispensabili al rinnovamento.
C’era l’idea di cambiare, ma ancora non molte idee su come cambiare, se si considera la scelta degli interpreti: Wieland, per esempio, voleva fortemente la Flagstad che però – come abbiamo già detto – disse di non voler più fare Wagner a teatro (si smentirà); ne ottenne in cambio Astrid Varnay, la Brunnhilde di riferimento non solo per quegli anni, ma anche per tutti quelli a venire, almeno sino all’avvento della Nilsson. Hotter arriverà solo a partire dal 1952; Windgassen – come Siegfried – addirittura dal 1953 (come Parsifal era già invece presente dal 1951), facendo piazza pulita dell’ultima tradizione di tragica stupidità annessa al personaggio che forse più ne aveva bisogno.
C’erano alcuni residui del passato: Max Lorenz, per esempio; Ludwig Weber, che con il Wagner dei “nipoti” non avrebbe mai avuto nulla a che spartire; addirittura Bernd Aldenhoff, proprio un vecchio rudere soprattutto stilisticamente.
C’era l’alternanza di direttori vecchio stile come Knappertsbusch – ne parleremo, ovviamente – con alcuni il cui fraseggio mobile e nervoso avrebbe cambiato

completamente le regole dell’interpretazione, non solo wagneriana: Karajan, Clemens Krauss, persino Keilberth.
E poi c’era lei, Martha Mödl, con la sua testa da gatta slava (lo dice lei di se stessa, lo ricorderà anche Wieland parlando di lei), con il suo essere fondamentalmente un mezzosoprano che gli acuti se li è dovuti costruire – anche se, con civetteria, più tardi avrebbe detto che in realtà gli acuti li aveva sempre avuti sin dall’inizio, con il suo fraseggio mobile e nervoso, con il suo hegeliano “da-sein” (esserci) profondamente in ogni personaggio.
Arrivava lei, e tutto ciò che si era sentito prima diventava irrimediabilmente vecchio. Era lei la prescelta di Wieland, era lei la predestinata a creare un nuovo universo stilistico.
È con lei che – d’ora in avanti – dovremo confrontarci anche per capire l’evoluzione attuale delle cosiddette “hochdramatische”.

Astrid Varnay è del 1918, Hans Hotter è invece classe 1909, Windgassen del 1914, Knappertsbusch del 1888, Karajan e Keilberth sono entrambi del 1908. Wieland è del 1917, Wolfgang è del 1919.
Martha Mödl nasce a Norimberga nel 1912.
A parte il vecchio Knappertsbusch, nettamente più vecchio e, quindi, padre putativo di tutti, e la Varnay, trentatreenne, gli altri sono tutti più o meno lì: la Neue Bayreuth nasce intorno a una generazione di quarantenni, artisti che si trovano al top delle rispettive possibilità, ma tutti disposti a mettersi al servizio di una nuova concezione i cui ritmi sono dettati dal geniale nipote di Wagner.
Quando Martha arriva a Bayreuth, ha già in repertorio Kundry – che ha debuttato nel 1948 – ma è disposta a ripensare al ruolo in modo completamente innovativo, mediante lo scavo minuzioso della parola pesata sul suono, in un bilanciamento che ancora questa parte non aveva conosciuto. Per quantificare la portata di questa innovazione, sarà sufficiente sentire come Kirsten Flagstad interpretava nel 1938 al Metropolitan la stessa parte, non solo senza la minima comprensione o consapevolezza della portata, ma gonfiando i suoni alla ricerca di una pienezza e rotondità da sopranone ancien régime che, invece, sono esattamente la negazione di quello che il ruolo richiede.

Ma quello della Flagstad non è un caso isolato, anche se è un problema tipico del “Wagner internazionale”.
Se invece scorriamo i cast del Festival negli ultimi anni prima della Seconda Guerra Mondiale (quelli, cioè, in cui fu rappresentato Parsifal prima della riapertura del 1951) troviamo prima Martha Fuchs e poi Paula Buchner: vale a dire, una cantante eccitante nel primo caso e una iper-tradizionale (sostanzialmente un clone della Flagstad) nel secondo.
Delle due, la Buchner è quella che francamente ci interessa di meno: la voce è importante, ma le intenzioni interpretative sono veramente da “Wagner internazionale” nel senso più deteriore che associamo al termine: voce, e nient’altro. È il tipo di cantante che manda tuttora in solluchero i passatisti, quella che si pone meno problemi nell’esegesi di un personaggio e che, soprattutto, non ha nulla a che vedere con Kundry.
La Fuchs invece ha un’impostazione che assomiglia a quella che sarà alle basi della vocalità della stessa Mödl: la base di partenza è proprio la stessa, da mezzosoprano se non contralto puro, quindi adattissima a Kundry; i ruoli di arrivo – Isolde e Brunnhilde – anche.
È anche interessante notare come il percorso delle due… Marthe parta in modo assolutamente parallelo da Kundry per arrivare a Brunnhilde, passando attraverso Isolde: l’inizio con la tessitura più mezzosopranile porta, come prima interessante conseguenza, a una maggiore “comodità” vocale e quindi a un approfondito scavo della parola, del fraseggio e della musicalità. In seguito lo slancio all’acuto, anche se più complesso, sarà solo la naturale evoluzione di un percorso stilistico già perfettamente impostato e, soprattutto, giustificherà appieno la violazione della “regola aurea” di Cosima.
Insomma, non ci sarà più spazio per una compartimentazione dei grandi ruoli Hochdramatische: è nata una nuova stirpe di cantanti che parte da un registro vocale più basso perché i ruoli lo consentono, perché i direttori e i registi interessati all’espressione (come Wieland, appunto) sollecitano quest’evoluzione con il loro interesse, perché il pubblico ama questo tipo di impostazione. Certo, ci sarà sempre qualche appassionato malcontento ma sono talmente pochi che verranno riassorbiti; senza contare che, per loro, ci sono sempre i soprani di stampo tradizionale che appagheranno le loro scarse pretese con acuti lucenti.
Sottolineerei in particolare l’interessamento dei direttori, perché è un aspetto importante. Quando Martha arriva a Bayreuth nel 1951 non ha ancora in repertorio né Isolde – che affronterà nel 1952 – né Brunnhilde che incorporerà nel 1953, e non solo sul Colle ma, aspetto ben più interessante, a Roma e con Furtwängler. E qui è necessario chiarirsi.

Sul Colle, in fondo, ci si può anche aspettare un esperimento del genere: nei primi Anni Cinquanta a Bayreuth c’è volontà di sperimentazione, curiosità, ansia di liberarsi di vecchi modelli che possano potenzialmente evocare atmosfere con cui, invece, è mandatorio tagliare i ponti. Questo aspetto, una vera e propria cifra stilistica sin dall’inizio della Neue Bayreuth, si è poi progressivamente avvitato su se stesso nel corso degli anni sino a creare situazioni paradossali o comunque poco sostenibili dal punto di vista artistico.
Ma fuori dal Colle le cose non sarebbero andate così a ruota libera: specie a partire dall’avvento di Birgit Nilsson (di cui parla anche la stessa Mödl), la parte di Brunnhilde avrebbe ritrovato una propria collocazione stilistica molto classica non solo in teatro, ma anche in disco, creando un modello talmente importante da indurre lo stesso Karajan a richiedere la collaborazione della

Nilsson per la propria registrazione in studio. Nel Ring allestito a Roma da Sawallisch – musicista rigoroso – alla fine degli Anni Settanta venne chiamata come Brunnhilde Nadezda Kniplova che aveva quegli “acuti grossi così” che ancora, distanza di oltre un quarto di secolo dai fatti che stiamo raccontando, si presumevano indispensabili all’incarnazione della parte di Brunnhilde.
Eppure proprio a Roma, venticinque anni prima, uno dei più tradizionalisti dei direttori della Vecchia Scuola – Wilhelm Furtwängler aveva chiamato per l’allestimento del Ring, assieme a un cast molto tradizionale e molto legato alla Vecchia Scuola (c’erano Suthaus, la Konetzni e Ferdinand Frantz!), proprio quella Martha Mödl che stava sconvolgendo la platea di Bayreuth. Non solo: quello stesso anno avrebbe inciso sempre con la Mödl un “Fidelio” che sanciva fra i due grandi artisti una collaborazione che sfiorava la simbiosi e che sarebbe stata difficilmente ipotizzabile solo tre anni prima quando, a fianco del grande direttore negli stessi ruoli, c’era Kirsten Flagstad!
Ma va peraltro rilevato con interesse che anche la stessa Varnay, che nel Crepuscolo del 1951 appare ancora al di qua di un preciso inquadramento vocale e interpretativo, a partire dal 1952 sembra modellare la propria impostazione sulla dizione scultorea e sulla prevalenza del medium centrale della Mödl.
Questa influenza è ben percepibile nelle occasioni in cui cantano insieme: particolarmente preziose, da questo punto di vista, sono le due incisioni di Walkiria in cui coprono alternativamente i due ruoli sopranili, anche se le vedono in diverse condizioni vocali a seconda degli anni (il 1953, per esempio, l’anno di cui abbiamo le registrazioni integrali dei due cicli del Ring, è già un anno limite per la Mödl per operazioni sopranili, mentre la Varnay è al top del proprio fulgore vocale).
Ma lo si capisce ancora meglio nei ruoli in cui Martha aveva dato il meglio di sé e in cui la Varnay provò a cimentarsi: Isolde, per esempio; e ovviamente Kundry. In nessuno dei due ruoli la Varnay riesce a ergersi allo stesso livello della collega – nonostante, ovviamente, una migliore prestanza del registro acuto – ma in entrambe le performances è molto evidente un lavoro intenso della Varnay sul proprio già corposo medium allo scopo di ricreare le stesse magie della collega più anziana; ma, altrettanto evidentemente, senza gli stessi risultati.

È da notare un aspetto curioso: agli inizi della sua carriera Martha aveva interpretato anche Ortrud e Venus, senza eccellere ma soprattutto senza trovare l’esatta quadratura. Ora, se per quanto riguarda Venus si può capire la scarsa affinità della grande cantante con un ruolo così carico di un eros epidermico tanto lontano dalla propria sensibilità, più interessante appare la scarsa affinità con una parte che esaltava una vocalità anfibia e aggressiva come la sua. La realtà è che a Bayreuth Martha ha cantato, oltre ai tre ruoli che abbiamo citato, anche Sieglinde (alternandosi nella stessa parte con la Varnay, mentre l’altra interpretava Brunnhilde), Gutrune – poco adatta alla sua psicologia – e Waltraute, molto interessante, con Böhm.
Fuori da Bayreuth, invece, avrebbe cantato anche Elektra (su pressione di Wieland), benché in ovvia difficoltà; lei stessa ammetterà essersi trattato di un errore.
È singolare invece che il ritorno a un repertorio più mezzosopranile avrebbe prodotto alcuni imprevedibili flop: la Amme della “Frau ohne Schatten” con Keilberth, ma soprattutto la Kostelnicka. Può darsi che siano stati dovuti all’età non più verdissima e alla lunga carriera, ma lo stesso questi fiaschi clamorosi fanno pensare l’ascoltatore.
Forse, nonostante gli acuti complicati, in realtà era un soprano?
Oppure la lunga frequenza con il repertorio sopranile le aveva precluso l’espressione in quello mezzosopranile?
Difficile da dire e, in fondo, questioni oziose: di fatto, stiamo parlando di una delle più grandi Artiste della storia del teatro d’opera; definizione, questa, che riassume tutte le altre che le possono essere attribuite.

Ciò che invece non è ozioso è la riflessione sul suo utilizzo come soprano vero e, per di più, in ruoli che avevano visto protagoniste sopranoni dagli acuti d’acciaio.
È troppo semplicistica la considerazione che Wieland volesse creare una nuova impostazione: a parte il fatto che la parte musicale non sarebbe stata comunque solo di sua competenza – c’erano anche i direttori, fra cui un ipertradizionalista come Knappertsbusch che non avrebbe mai accettato stravolgimenti di quello che era scritto - oggi sappiamo per certo che, almeno agli inizi, il grande regista non avesse le idee particolarmente chiare sul percorso interpretativo da dare al Festival; e così ovviamente suo fratello, il grande organizzatore.
Certo, la Mödl l’aveva scelta Wieland, ma non per Brunnhilde – quanto meno, non inizialmente – bensì per la più logica Kundry, ruolo che aveva già affrontato con successo. Una Mödl per Kundry, per sconvolgente e elettrizzante che possa essere, non è un’intuizione particolarmente geniale: è solo mettere il tassello giusto nel posto giusto.
Una Mödl per Isolde, per di più con la direzione di un Artista eccentrico come Karajan in un ruolo sino a quel momento “infestato” – absit iniuria verbis, ovviamente – da cantanti dall’acuto d’acciaio è, nel 1952, un azzardo. Ed è con questo azzardo che si confronterà non solo il pubblico basito del 1952, ma anche – da allora in avanti – l’appassionato che sarà obbligato a prendere atto che, da quel momento in avanti, tutto è cambiato.

Wieland amava le voci scure: questo è un altro dato interessante.
La stessa Martha ne parla a proposito del casting del Tristan del 1952, quando fa riferimento alla scrittura di Ramon Vinay, per una breve stagione il più importante interprete di Otello (Del Monaco aveva già fatto capolino ma, per il momento, si rivolgeva a un pubblico diverso). Se questo valeva per le voci maschili, il concetto si poteva estendere facilmente anche a quelle femminili: col che abbiamo una delle ragioni della presenza della Mödl in un ruolo che, quello stesso anno, Furtwängler incideva con la Flagstad e che negli anni precedenti aveva visto protagoniste di assoluto prestigio e di impostazione ipertradizionale come – oltre alla stessa Flagstad, testimoniata anche da diversi live – Helena Braun, Frida Leider, Gertrude Grob-Prandl, Erna Schlüter, Helen Traubel e altre ancora.
Il colore di queste meravigliose artiste poteva essere variabile, ma quello che le accomunava erano gli acuti raggianti, sfolgoranti, da vera regina. È un’impostazione comoda e rassicurante che continuerà anche dopo la Mödl se si considera che il ruolo passerà – impropriamente, a nostro avviso – nelle mani di Birgit Nilsson.
Con Martha, invece, a prezzo di un registro acuto sicuramente più problematico, si passa a un’impostazione completamente differente. La lettura, vibrante di umanità offesa, vive di chiaroscuri continui e dissonanze laceranti, in perenne lotta con l’intonazione in un modo che lascia sconcertati i superficiali ammiratori dell’ancien régime, quelli che si sentono rassicurati dagli acuti pieni e ben impostati. Con lei, Isolde ritorna al regno della notte di Novalis, quello stesso regno che divideva con la voce scura e introversa di Vinay. L’esistenzialismo arrivava sul Colle: nel 1953, nella Walkiria, Siegmund e Sieglinde saranno interpretati dallo stesso Vinay e da Regina Resnik, altro mezzosoprano di voce acida e corrotta, con la stessa Mödl (che, come Brunnhilde, si alternava ovviamente con la Varnay) a pronunciare l’Annuncio di Morte: non si potrebbe immaginare uno scenario più bouleversant per una delle scene più tristi e solenni immaginate da Wagner.
La stessa Varnay, peraltro, pur soprano – e quindi più “a posto” rispetto a Martha, almeno per comesiamo abituati a considerare questi ruoli – disponeva negli Anni Cinquanta di acuti laceranti, assai poco ortodossi, simili a grida di aquila ferita. Nessuno avrebbe identificato in questo modo di esprimersi le certezze che avevano permeato il canto di Marjorie Lawrence o di Helen Traubel o di quella Grob-Prandl che la stessa Mödl identificava come parametro meramente vocale di riferimento.
Pure, era evidente che le cose stavano cambiando: si stava affacciando alla ribalta un nuovo modo espressivo che, ben lungi dall’improvvisare, aveva come solida base lo spartito.
Sono parti poi così acute come la tradizione tramandava, quelle da Hochdramatische?
Spartito alla mano, Martha Mödl risponde di no: la tessitura è prevalentemente centralizzante – e infatti le conviene senza particolari problemi per larga parte – con l’eccezione di alcune fiondate acute disseminate nelle partiture; e, ovviamente, con l’eccezione di tutto un ruolo intero.
Le fiondate all’acuto sono ben esemplificate dagli “Hojotoho!”, che infatti lei regge malissimo, con costruzioni complesse e molto forzate: un vero strazio dell’anima (ma gli acuti di Isolde, per contro, le riescono benissimo). Ora, però, compulsando la sterminata discografia dell’Anello del Nibelungo, a parte Birgit Nilsson, Gwyneth Jones e poche altre, chi è che riesce sempre a far squillare alla perfezione gli Hojotoho?
Helmwige.
L’interprete di Helmwige è spesso un soprano leggero – che quindi non ha nessuna difficoltà a salire anche sopra il do – oppure è un “progetto di Brunnhilde”: vale a dire una Hochdramatische giovane e squillante che di lì a qualche anno farà Brunnhilde. Di questi “progetti”, scorrendo la discografia, se ne trovano un bel po’: la Mastilovic, per esempio, oppure Berit Lindholm; e, in tempi più recenti, anche Irene Theorin.
Quindi, non è sull’Hojotoho che dobbiamo basare una Brunnhilde.
Brunnhilde si gioca i suoi assi nel settore centrale, nell’ampiezzascultorea del declamato (Annuncio di Morte, ovviamente), nella giusta alternanza fra l’affettuosità e la scansione bruciante del duetto con Wotan e Waltraute, nell’ampiezza dolente del monologo finale del Crepuscolo.
Una voce così impostata paga dazio, ovviamente, nel duetto del primo atto del “Crepuscolo” con Siegfried; e, terribilmente, nell’opera che viene temuta da tutte le Brunnhildi che non siano Birgit Nilsson o Astrid Varnay, vale a dire “Siegfried”. Brunnhilde compare solo alla fine, si gioca tutto in un duettone che è non solo la parte più acuta di tutto il Ring, ma anche probabilmente la parte Hochdramatische più acuta scritta in assoluto da Wagner. Non a caso, è l’unica parte veramente temuta dalla Mödl ed è anche l’unica in cui onestamente si percepisce una netta difficoltà che non è solo vocale: in “Siegfried”, infatti, Brunnhilde ha un eloquio trionfale, raggiante, esaltato che è lontanissimo dal modo di esprimersi della cantante tedesca (e che, invece, riesce magnificamente spontaneo alla Varnay e alla Nilsson).
Ma, per il resto, è straordinaria.
Tanto straordinaria da diventare paradigmatica, e non solo per noi ascoltatori di oggi, ma anche per tutta una serie di personaggi che facevano ruotare le loro performances intorno a lei, e non solo innovatori anarchici come Karajan, ma anche grandi conservatori della tradizione come Furtwängler che trova in lei la Musa della sua anzianità.
Tanto straordinaria da obbligarci a porci dei quesiti su alcune domande che potrebbero portarci risposte inattese:
1. Qual è la reale vocalità di Brunnhilde?
2. Aveva ragione Cosima nello scindere in modo così drastico le interpreti di Isolde da quelle di Brunnhilde?
3. È possibile ipotizzare una figura di Hochdramatische che copra tutti i grandi ruoli “pesanti” scritti da Wagner?
Alla domanda 1 abbiamo già in parte risposto: con l’eccezione di “Siegfried”, non è una vocalità così acuta come saremmo portati apensare ascoltando i sopranoni tanto cari alla tradizione passatista; e comunque non sono gli “Hojotoho!” a caratterizzarla. È la vocalità di una Kundry più acuta, il cui medium deve però avere un velluto pieno, carezzevole, sensuale, ricco di armonici e di rilevante peso declamatorio.
La domanda numero 2 è al centro di un articolo importante e molto letto del nostro sito, che si basava sull’assunto storico di Cosima che teneva lontane le “sue” Isolde (Rose Sucher, Therese Malten e Marie Wittich) da Brunnhilde, così come Amalie Materna – prima Brunnhilde e prima Kundry – da Isolde.
In realtà, la spinta del “Wagner internazionale” che aveva il suo epicentro al Metropolitan e la naturale ambizione degli Artisti a non vedersi precluso nessuno dei grandi ruoli aveva fatto sì che le carte si mischiassero ben prima dell’avvento sul Colle di Martha Mödl: tutte le Hochdramatische si erano misurate con i diversi ruoli drammatici con esiti alterni.
E se la Flagstad suonava ridicola in Kundry e la Grob-Prandl totalmente improponibile come Isolde, entrambe però espandevano le loro voci d’acciaio come Brunnhilde e dimostravano che era – ed è – tecnicamente possibile coprire tutta la grande produzione drammatica wagneriana. Non solo: questa tendenza, di fatto, è diventata la regola anche ai nostri giorni, con alcune significative eccezioni come, per esempio, Waltraud Meier: con un’impostazione vocale non molto diversa da quella della Mödl, è stata una favolosa Isolde e Kundry, ma si è tenuta accuratamente alla larga da Brunnhilde. Eccezione, dicevamo: le altre due più rilevanti Hochdramatische a noi contemporanee – Nina Stemme e Evelyn Herlitzius – hanno già fatto sia Isolde che Brunnhilde; e Kundry manca solo per il momento alla Stemme, che la dovrebbe debuttare prossimamente al Liceu.
Col che si arriva al quesito numero 3 e alla risposta, che potrebbe essere un “sì” abbastanza convinto se la cantante di cui parliamo avesse:
• Settorecentrale ampio e scultoreo
• Sensualità
• Capacità attoriali
• Registro acuto se non facile, almeno costruibile senza particolari problemi
• Colori notturni
• Umanità calda e appassionata
• Consapevolezza di quello che dice
A tutte queste esigenze rispondeva appieno la quarantenne Martha Mödl che approdava al Colle avendo in repertorio sostanzialmente solo Kundry, (parzialmente) Ortrud e l’odiata Venus, che pure costituì la base per convincere Wieland a arruolarla.
Il rapporto con Wieland è quasi di sudditanza: lei vive la figura del regista – di cinque anni più giovane di lei – come una specie di semidio. È la stessa considerazione che ha per Furtwängler, e questo ci fa pensare a quanto contino per Martha queste figure quasi apotropaiche, in grado cioè quasi per magia di tirar fuori il meglio di lei.
Curiosamente, dice di Wieland e Furtwängler quasi la stessa cosa: “Non c’era bisogno che mi spiegasse cosa dovevo fare: eravamo perfettamente in sintonia. Era pura intuizione”.
Di lei, Wieland disse: “Martha Mödl ci mostra in modo veramente esemplare che l’abnegazione artistica – e non l’esibizionismo teatrale! – ancora oggi esercita dal palcoscenico sul pubblico un effetto più forte della piatta perfezione dell’arte… Canto, personalità e interpretazione sono, nella Mödl, un’unità assoluta e indivisibile, così come li ha conosciuti Richard Wagner, centrotrenta anni fa, nella Schröder-Devrient, lo sappiamo dalle sue estasiate descrizioni”. E ancora: “Il timbro scuro, boemo della Mödl lo destina alle cosiddette parti da soprano drammatico spinto wagneriano – non solo a quella di Kundry – che richiedono occasionalmente toni acuti, ma essenzialmente registro centrale e anche profondità”.
Di lei, Wieland si fidò ciecamente in un connubio, una simbiosi più unica che rara per una persona schiva come lui.

Analizzeremo nella prossima puntata i rapporti della Mödl con Furtwängler, isuoi grandi ruoli wagneriani e la sua eredità artistica.

Pietro Bagnoli

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Categoria: Backstage

 

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