Backstage: Lohengrin - discografia ragionata parte 5 - a cura di Luca Di Girolamo
Aggiunto il 26 Marzo, 2011
III parte: gli anni ‘60: Bayereuth e altri teatri
Edizioni di Lohengrin in disco (tedesco, bulgaro) esaminate in questo periodo:
* 1962 - Sawallisch - Thomas, Silja, Varnay - Bayreuth
* 1962-63 - Kempe - Thomas, Grümmer, Ludwig - Wien
* 1964 - Rosenstock - Kónya, Crespin, Rankin - New York
* 1964 - von Matačić - Uhl, de los Angeles, Ludwig - Buenos Aires
* 1965 - Sawallisch - Thomas, Bjoner, Varnay - Milano
* 1965 - Böhm - Thomas, Watson, Ludwig - Wien
* 1965 - Leinsdorf - Kónya, Amara, Gorr - Boston
* 1966 - Varviso - Gedda, Nordmo-Løvberg, Ericson - Stockholm
* 1967 - Kempe - Kónya, Harper, Hoffman - Bayreuth
* 1968 - Erede - King, Harper, Dvoráková - Bayreuth
* 1968 - Swarowsky - Schachtschneider, Kirschstein - Nürnberg
* 1968 - Naidenov - Bodurov, Wiener, Afejan - Sofia
Elenco dettagliato
1962 PHILIPS J. Thomas – A. Silja – A. Varnay – R. Vinay – F. Crass – T. Krause
(446 337-2) Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. W. Sawallisch
(3 CD)
1964 EMI J. Thomas – E. Grümmer – C. Ludwig – D. Fischer -Dieskau – G. Frick – O.
(CDS 7 49017 8) Wiener
Wiener Philarmoniker und Staatsopernchor – Dir. R. Kempe (3 CD)
1964 GALA S. Kónya – R. Crespin – N. Rankin – W. Cassell – E. Wiemann – W. Stanz
GL 10.656 Orchestra e Coro MET New York – Dir. J. Rosenstock (4 CD)
1964 (2009) COLUMNA MUSICA F.Uhl – V. De Los Angeles – C. Ludwig – C. Alexander – F. 1CM 0229 Crass – G. Mastromei
Orchestra e Coro del Teatro Colon di Buenos Aires – Dir. L. von Matacic (ed. bilingue)
1965 MELODRAM J. Thomas – I. Bjoner – A. Varnay – G. Neidliger – F. Crass – T.
MEL 37067 Krause
Orchestra del Teatro alla Scala e Coro Filarmonico di Praga – Dir.W. Sawallisch (3 CD)
1965GOLDEN MELODRAM J. Thomas – C. Watson – C. Ludwig – W. Berry – M. Talvela
(GM 1.0045) – E. Wätcher
Orchester und Chor Wiener Staatsoper – Dir K. Böhm (3 CD)
1965 RCA S. Konya – L. Amara – R. Gorr – W. Dooley – J. Hines – C. Marsh
7 4321 50164 2 Boston Symphony Orchestra Boston Chorus Pro Musica – Dir.: E. Leinsdorf (3 CD)
1966 PONTO N. Gedda – A. Nordmo-Løvberg – B. Ericson – R. Jupither – B. Rundgren –
(PO 1011) I. Wixell
Kungliga Teaterns kör und Hovkapellet – Dir. S. Varviso (3 CD)
1967 GOLDEN MELODRAM S. Kónya – H. Harper – G. Hoffmann – D. McIntyre – K.
(GM 1.0035) Ridderbusch – T. Tipton
Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. R. Kempe
(3 CD)
1968 GOLDEN MELODRAM J. King – H. Harper – L. Dvoráková – D. McIntyre – K.
(GM 1.0063) Ridderbusch – T. Stewart
Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. A. Erede
(3 CD)
1968 WELTBILD CLASSICS H. Schachtschneider – L. Kirschstein – R. Hesse – H. Imdahl –
(703835) O. von Rohr – H. Helm
Großes Symponierorchester e Chor der Wiener Staatsoper – Dir. H. Swarowsky (3 CD)
1968 Reg. Privata L. Bodurov – J. Wiener – N. Afejan – S. Popov – N. Stoilov – S. Markov
Sofia National Opera – Dir. A. Naidenov (1 CD MP3)
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1962 PHILIPS J. Thomas – A. Silja – A. Varnay – R. Vinay – F. Crass – T. Krause
(446 337-2) Orchestra e Coro del Festival di Bayereuth – Dir. W. Sawallisch
(3 CD)
Anzitutto è interessante qui la direzione di Sawallisch abbastanza ben equilibrata tra la dimensione epica della vicenda e quella lirica. Se infatti sono buoni i preludi del I e del III (questo però appare un po’ attutito), all’inizio del II abbiamo solo una tinta fosca generica e non quell’atmosfera diangoscia, mistero, ossessione che ci vorrebbe. Ugualmente i due interludi nel II atto sc. 2°-3° abbiamo una notevolissima eleganza e precisione ed è qui che comprendiamo la grandezza del Sawallisch concertista; nell’atto successivo sc. 2a-3a l’eleganza si ripresenta, ma forse non abbiamo quello scatenarsi sonoro di marzialità e impeto guerriero che troveremo in altre edizioni (Solti e specialmente Abbado). Fra i cantanti: Vinay mostra un livello vocale sensibilmente inferiore alle esigenze del ruolo. La voce è scarsamente sonora negli a solo (anzi è piatta e legnosa) e scompare nei momenti più concitati quanto lo strumentale o il coro cantano con lui (la scena della chiesa del II atto, ma ancor prima diverse frasi della parte finale duetto con Ortrud sono deboli e si sentono poco). Anche l’interprete è piuttosto anonimo: una brutta prestazione in cui il personaggio schiaccia l’artista, a mio avviso, spesso sopravvalutato anche quando cantava in registro tenorile. La Varnay mostra più di una ruga nel suo assetto vocale e anche sull’interpretazione cede a due opposti: o è generica e meccanica (ad esempio, la frase «Ha, wie tödlich du mich kränkst» è gettata via senza un minimo di espressività), oppure non poche sono le occasioni in cui carica ed esagera tramutando il personaggio in un’orrenda megera regalandoci tanto il ghigno alla fine della scena con Elsa, quanto un settore acuto ormai stridente e fisso, oltre al settore medio-grave piuttosto rauco. Un bel Re è invece Crass sonoro, umano e – per il titolo – anche dominatore quanto basta. L’allor giovane Krause è un efficiente Araldo di timbro e dizione buoni. Thomas è un buon Lohengrin con voce che si piega a belle morbidezze e, sul piano dell’epicità, superiore allo stesso Kónya. Sul piano vocale non tutto è perfetto – certi piani sono ovattati (specialmente nella parte iniziale dell’ «In fernem land») e alcune frasi un po’ faticose, né c’è uno squillo particolarmente perentorio in zona acuta e la stessa dizionenon è perfetta – però abbiamo una forte concentrazione sul personaggio in tutte quelle che sono le sue dimensioni. Ne scaturisce un Lohengrin non privo di certa originalità e completezza. Singolare ed originale è anche l’approccio della Silja al personaggio di Elsa: voce tremula e di timbro piuttosto bianco e non particolarmente svettante in alto, il soprano tedesco riesce ad incanalare quella che non è propriamente una bella e carnosa voce verso una raffigurazione di un personaggio giovanile, a tratti infantile ma sempre tendenzialmente instabile e malato; molto espressivo, in tal senso, il suo lungo intervento nel concertato che precede il finale II sulle parole «Was er verbirgt, wohl brächt es ihm Gefaren…». È l’elemento più singolare del cast che, anche nei momenti più felici ed innocenti della vicenda, ci presenta una costante venatura di precarietà psicologica che diviene una crepa profonda nel III atto quando, sappiamo, la vicenda precipita. A voler andare a fondo è qui che la Silja è grande: nel sottrarre ad Elsa tanti manierismi per ricondurla a quella instabilità e morbosità di fondo che caratterizzerà poi il linguaggio/comportamento di due eroine proprie del repertorio della Silja, ossia Salome e Lulu destinate anch’esse a perdere l’oggetto amato e a perdersi in modo senz’altro più cruento. La registrazione è un ‘live’ che, in quanto a resa audio, è soddisfacente ed è corredato da buon libretto in 4 lingue con piccoli saggi ed immagini della rappresentazione.
1964 EMI J. Thomas – E. Grümmer – C. Ludwig – D. Fischer -Dieskau – G. Frick – O.
(CDS 7 49017 8) Wiener
Wiener Philarmoniker und Staatsopernchor – Dir. R. Kempe (3 CD)
Questa edizione vanta anzitutto una delle migliori direzioni d’orchestra unita ad effetti acustici a tratti straordinari con prospettive davvero suggestive. I caratteri che abbiamo incontrato nella vecchia edizione ACANTA del 1951 trovano ora adeguato risalto. Trasparente sindall’inizio dell’opera, Kempe infonde sempre una forza interiore ed una morbidezza che impediscono sfilacciamenti o inconsistenze timbriche. Singolarissima l’atmosfera di sospensione all’arrivo di Lohengrin. A ciò si aggiunge la capacità nei pieni orchestrali (specialmente nella parte finale del Preludio o nelle scene di massa) di non degenerare mai in effetti clamorosi e chiassosi. Notevole è poi la teatralità, sempre contraddistinta da altrettanta solennità. Un esempio per tutti è il grande corteo di Elsa, né vanno dimenticate alcune accensioni appropriate (il commento orchestrale allo scontro tra Ortrud ed Elsa nel II atto è quanto di più giusto), oppure convulse (la parte finale del duetto Elsa-Lohengrin nel III atto, è tutto da ascoltare per il commento allo stato confusionale che cattura Elsa). Inoltre l’esecuzione è integrale (manca solo la II parte del racconto di Lohengrin, taglio di tradizione) e lo meritava con un cast, tutto sommato, molto valido. Si potrà forse fare qualche appunto al ritratto timbrico piuttosto chiaro dato da Fischer Dieskau a Telramund (e beninteso non è il primo baritono ‘chiaro’ ad impersonare questo personaggio sostanzialmente passivo), ma anche questa voce non particolarmente bella è posta al servizio di un fraseggio eloquentissimo, tale da unire dolore, sdegno, disperazione e smania di rivalsa. Molti passi potrebbero essere citati, ma singolare fra tutti appare l’insieme degli interventi di sfida a Lohengrin davanti alla Chiesa. Si tratta di un momento di tessitura pesante in cui la voce deve farsi largo tra coro e pieni orchestrali. Inoltre il baritono tedesco si trova molto in sintonia con la Ortrud della Ludwig che si discosta dall’emettere suoni reboanti (e in alto mostra un po’ la corda negli acuti interventi del finale, ma qualcosa si potrebbe dire anche nell’invocazione agli dei pagani nel II atto) fondendo invece in questo personaggio due aspetti apparentemente opposti: una fredda mente calcolatrice ed una nota disensualità conturbante. Una grande trovata degna di una grande interprete dotata di una voce molto vellutata. Per il Re e l’Araldo si può dire che, rispettivamente, Frick e Wiener compitano bene i loro ruoli. Molto interessanti e vocalmente pregevoli sono Thomas e la Grümmer. Il primo è molto più accurato che non nel precedente ‘live’ e tutta l’impostazione del personaggio ne guadagna. Sul piano vocale udiamo un timbro scuro, ma anche un’estensione e luminosità che si sposano molto bene nei passi più lirici e donano originalità a quelli più tesi. Sicché il divieto a Elsa del I atto si colora di toni suadenti e non tribunizi. Abile risolutore del difficile «Heil dir, Elsa !» (II atto), Thomas esegue un duetto con Elsa fra i migliori dove l’intesa con la Grümmer è ideale. A questa Elsa possiamo rimproverare un’espressione a tratti un po’ zuccherina ed infantile e alcuni suoni in alto piuttosto striduli o comunque che potevano essere emessi meglio (ad esempio, il «Wie deine Art» nel III atto appare un po’ teso e strillato e così sono alcuni passi del duetto con Ortrud nel II atto), ma la prestazione complessiva è quella di ritrarre una giovane di una grande purezza unita però a forte determinazione e capacità vocali notevoli, tali da offrirci un «Mein Schirm, mein Retter, mein Erlöser» ancora bellissimo. Il coro è eccezionale e molto buona è anche la resa acustica della registrazione.
1964 GALA S. Kónya – R. Crespin – N. Rankin – W. Cassel – E. Wiemann – W. Stanz
GL 10.656 Orchestra e Coro MET New York – Dir. J. Rosenstock (4 CD)
Anche questo cofanetto è in 4 CD e in essi oltre alla riproduzione integrale della recita datata 1964 contiene altre 3 selezioni di esecuzioni effettuate in epoche diverse al MET e tutte aventi come comune denominatore la presenza di S. Konya. Potremmo definire quest’operazione una sorta di monumento al tenore ungherese anche se poi di veri meriti da celebrare ce ne sono ben pochi, mentre forsec’è da scoprire qualche curiosità più dalle varie selezioni che non dall’edizione completa. Fatto sta che la prima impressione che ho avuto dopo aver ascoltato quanto è contenuto in questa edizione è quella di ritornare con la mente ad una vecchia raccolta di fiabe di Cristoforo Schmid che ho ancora in un vecchio libro del 1948. Si tratta di racconti di natura edificante e pedagogica di diversa lunghezza. Fra essi ce n’è uno intitolato Le noci d’oro, dove si narra la vicenda di un bambino assai capriccioso e testardo che la notte di Natale mentre tutti gli offrono tanti regali si fissa con la mente su due noci dorate che sono collocate sull’albero che si prepara in tale solennità. Invano i genitori e i parenti tentano di distoglierlo, ma invano: ottenute queste due noci d’oro grande è la delusione del bambino perché si tratta di due gusci vuoti foderati di carta dorata e nulla più.
Quindi un cofanetto di pochi meriti a partire proprio dall’integrale del ’64 che porta il peso della sciatteria orchestrale di Rosentock nonché per diversi tagli apportati alla partitura divenuti di tradizione al Met in quegli anni (e anche anteriormente). A ciò si aggiunge la prova del coro che è sovente assai sgraziato ed impreciso esprimendosi tra l’altro con tinte forti, senza contare che il disordine è evidente. Né l’orchestra, del resto, si comporta meglio: il Lohengrin non è un’opera soltanto guerresca e di “massa”, ma riserva momenti elegiaci che richiedono tinte attutite e sfumature. Che questi elementi manchino è percepibile già nel Preludio, avaro di finezze e pianissimi, ma anche l’ingresso di Elsa fa udire un’orchestra carente di atmosfera e di sospensione. Tuttavia anche dove il momento è concitato (es. il duello e il Finale I), il livello prevalente è quello della sommarietà e della poca accuratezza ed è chiaro che, essendo questa la cornice di fondo, il coro non può che essere poco compatto.
Neppure nel II atto le cose vanno meglio: l’introduzione non è tetracome dovrebbe e lo stesso motivo fuori scena è più sgangherato che festoso. Durante il duetto Elsa-Ortrud tutto è posto sul forte e nel successivo interludio 2a-3a scena i fiati vanno eufemisticamente ‘ad effetto’.
Il III atto inizia con un’Ouverture piuttosto sbrigativa e squilibrata e questo si sposa con la carenza di solennità che accompagna il coro e tutto il seguito orchestrale presenta più o meno gli stessi limiti. Banale e poco solenne l’interludio tra 2a e 3a scena. Quanto ai tagli: alcuni sono di minore entità (es. tutta la parte centrale del primo intervento del Re nel I atto), altri sono più evidenti (es., il primo intervento del coro che segue l’interludio tra 2° e 3° scena del II atto), altri sono decisamente assurdi, irrazionali ed inspiegabili (es. l’accordo di Telramund con i 4 cavalieri brabantini, tutto il concertato del dubbio nel II atto, mentre nel successivo spariscono il secondo intervento di denuncia di Lohengrin, tutte le battute successive all’«In fermem land» fino all’addio al cigno). Insomma una storia che sta in piedi ‘per scommessa’, come del resto la parte vocale e ciò perché il cast è particolarmente problematico e diciamo che, per un verso o per l’altro, nessuno canta e interpreta questa vicenda come converrebbe ad un intreccio che mescola amore, vendetta, misticismo, storia e magia. Oggettivamente è difficile dire chi veramente si distingua dalla diffusa mediocrità che si ascolta qui.
Rispetto al biennio 1958-59 Konya appare in declino e ciò si percepisce nei fiati accorciati e nelle oscillazioni al centro (meno evidenti ovviamente rispetto a quanto udremo nell’edizione del 1967), inoltre l’argento e la luminosità sono qui piuttosto appannate. La situazione vocale obbliga perciò il cantante a ‘giocare in difesa’ con un ingresso («Nun sei bedankt») piuttosto monotono ed uniforme e successivamente con un «Elsa ich liebe dich» poco sfumato, lento e marmoreo. Anche gli slanci amorosi o affettuosi devono fare i conti conquesta situazione vocale. I momenti eroici, poi, sono risolti in modo sommario e con voce che, sebbene voluminosa, risulta essere pesante. Rivolgendosi ad Elsa nel corso dell’opera non sono poche le frasi che mancano di affettuosità o di accento rassicurante. È chiaro che il lungo duetto del III atto si apre con un «Das süsse Lied verhall…» pesante e voluminoso che si contrappone ad una Crespin che, almeno, cerca tinte soavi. Il successivo «Höchtstes Vertraun» mostra i suoi limiti ed analogamente il monologo finale è privo di sfumature e tinte estatiche che ne sono il corollario e neppure si a sentire, nell’addio ad Elsa del protagonista, la commozione che le è consona. Da aggiungere che diversi tagli (specie nel III atto) amputano la prestazione di Konya. Accanto ad un protagonista un tempo ritenuto il top, ma ora declinante, la Crespin si comporta senz’altro meglio, ma non è l’ideale né vocalmente, né psicologicamente per quanto Elsa richiede. Il personaggio è lirico e, al contempo, assai complesso. Dalla prestazione della Crespin emerge una Elsa piuttosto robusta dalla voce corposa che sa essere all’occorrenza (ma non sempre) anche duttile nei piani della sua parte. Tuttavia manca in modo sensibile la spontaneità di una voce di ben altra caratura, costretta a vestire i panni di una ragazza ingenua e vittima, quando invece la Crespin ha primeggiato in eroine volitive (Tosca in primis). È chiaro che, osa più ora meno, la cantante francese prova ad ingentilire i suoni o ad ingentilirsi, ma si sente che ciò è studiato (sebbene lodevolmente) a tavolino e perciò non naturale. Sul piano puramente vocale, non di rado il suono poi è fisso o forzato, specie in alto (cf. scontro con Ortrud del II atto), mentre è da registrare una fondamentale monotonia nel duetto con Ortrud sempre nello stesso atto. Ciò che poi è più grave lo ascoltiamo nel III atto dove, nel duetto con Lohengrin, manca tutto il progressivo sfacelo psicologico di Elsa. Tutto è svolto da gran primadonna,piuttosto matura e padrona di una situazione che non è precisamente quella di una donna in carriera che Elsa in effetti non è. Manco a dirlo, tutto il duetto con Ortrud ci fa sentire un’Elsa assai poco dotata di quell’indole fanciullesca ed instabile pel personaggio, senza contare che la differenza timbrica tra le due soliste non è ben delineata.
La Rankin è un’Ortrud tutto sommato assai poco attraente che vorrebbe prendere a modello la Ludwig, ma non ne possiede né il carisma né la vocalità e ne è insomma lontana le proverbiali ‘mille miglia’. Intanto il personaggio non è approfondito e resta nel generico nei momenti (apparentemente più semplici sul piano vocale) in cui il malvagio personaggio dovrebbe esprimersi in termini protervi o minacciosi. Anche l’assetto vocale è deficitario per cui nello scontro con Elsa questa Ortrud non si slancia come dovrebbe e negli interventi finali non si astiene dal grido scomposto (compreso quello finale come da libretto).
Alla sua seconda edizione Cassell è divenuto un Telramund ormai inserito nella falange dei berciatori e quando non bercia (assai raramente) diviene vocalmente parlando una sorta di bambinone (cf. l’avvio del duetto con Ortrud del II atto). Ma una cosa è certa: occorrerà attendere la prova di Nimsgern per udire un’altra sagra del ringhio scomposto e urlante e lo scontro dinanzi alla chiesa del II lo conferma.
Fiacchezza, poca autorità e poco peso vocale contraddistinguono anche il re di Wiemann: voce solo apparentemente imponente, ma che arrivato al «Mein Herr und Gott», tra l’altro attaccato in anticipo, manca di vera grandiosità presentando limiti proprio in basso. Anche negli altri atti il comportamento vocale ed interpretativo è lo stesso e finisce per raffigurare un Re Enrico senza nerbo e corona. Generico, per finire, anche se corretto l’Araldo di Stanz.
Le altre 3 selezioni coprono il biennio 1967-68 tutte provenienti dal MET e sono pressoché sovrapponibili in quella cheè la scelta dei brani (entrata di Elsa, entrata di Lohengrin del I atto e duetto del III) Come denominatore resta Konya quale protagonista via via sempre più affaticato. Nella prima selezione la Bjoner è un’Elsa che guarda alla Flagstadt, mentre né Berry (Telramund), né Macurdy (Re) lasciano memorabili ricordi. Più significativa, grazie alla protagonista femminile, appare l’edizione del 1968 che fra l’altro si giova della direzione di K. Böhm, compatta, lirica e sognante (un altro pianeta rispetto allo squallore di Rosenstock). M. Arroyo traccia un’Elsa che anticipa per molti versi la tipologia che ci offrirà J. Norman dell’edizione DECCA diretta da Solti. Udiamo una voce purissima, sensuale e notturna forse in antitesi con l’immaginario comune che si ha di Elsa, ma comunque è una prestazione interessante. Poco da dire su Cassell e Macurdy mentre molto ben scandito e franco appare l’Araldo dell’allor giovane S. Milnes, presente anche l’anno precedente ma qui captato meglio. Konya e la Grümmer sono i protagonisti del duetto del II atto presente come ultima selezione. Su Konya mi sono già espresso, mentre la Grümmer è brava ma inferiore rispetto all’edizione del 1959. Il direttore Rosenstock è come nell’edizione integrale.
1964 (2009) COLUMNA MÚSICA F. Uhl – V. De Los Angeles – C. Ludwig – C. Alexander –
1CM 0229 F. Crass – G. Mastromei
Orchestra e Coro del Teatro Colon di Buenos Aires – Dir. L. von Matačić (ed. bilingue) (3 CD)
La presente edizione nasce a cura della Fundaciò Victoria de los Angeles (con sede a Barcellona) che, attraverso la casa editrice Columna Música, provvede alla diffusione della musica spagnola (castigliana e catalana) e con una sezione dedicata a questo soprano. Il cofanetto è molto curato comprendendo il libretto (in cui le parti italiane del coro sono in grassetto per differenziare dal resto in tedesco), il profilo trilingue della de los Angeles e qualche foto. Tale casa possiedeun sito proprio ed ha una sezione operistica in cui la de los Angeles figura, oltre che in recitals, in altre due produzioni complete come Le Nozze di Figaro (con Siepi) e la Martha di Flotow (con Tucker), oltre a questo Lohengrin che risale al 1964. L’ascolto è godibile sul piano tecnico e l’esecuzione presenta molti motivi di interessi. Come sovente avveniva in Sud America gli interpreti cantano in lingua originale e il coro in italiano (tranne le 8 donne del corteggio della scena nuziale del III atto). A guidare i non eccelsi complessi (ma, tutto sommato, meno nefasti di altre compaggini del tempo) del Teatro Colòn è Lovro von Matačić, grande direttore che io stesso ho sentito personalmente in incandescenti esecuzioni straussiane (Elektra qui a Roma con la Stapp) e wagneriane (Parsifal con la giovane Schnaut e Ridderbusch). In disco poi Matačić è famoso in modo particolare per la pucciniana Fanciulla del West con la Nilsson. Diciamo subito che si ascolta una grande e varia direzione: dai colori lievissimi (ma sempre sostenuti) del Preludio iniziale, alla gagliardia delle scene di massa, che sono più mosse e guerresche fino alla solidità rocciosa, ma non rozza, dell’Interludio tra 2a e 3a scena del III atto. C’è da aggiungere un notevole equilibrio tra le scene dove ad agire sono i ‘buoni’ (comparsa di Lohengrin, festoso corteo nuziale di Elsa nel II atto, accompagnamento del duetto Elsa-Lohengrin del III atto e tinte molto diafane – tali da ricordare le sonorità del preludio – nello scioglimento dell’incantesimo del cigno) e in quelle più tenebrose proprie di Telramund e Ortrud (ottimo, spettrale come si conviene è, ad esempio, l’avvio del II atto ed il sostegno dato al successivo duetto). Inoltre von Matačić stabilisce un buon rapporto con i cantanti riuscendo a colmare alcune loro lacune con sonorità che evitano zone di inerzia. Dicevo prima non ecclesi complessi: in effetti le trombe, soprattutto nel II atto, sono piuttostoscorrette, meno nell’interludio del III. Peccato grave di quest’edizione il taglio del concertato del dubbio nel II atto anche perché riduce di molto la prestazione del basso che, nella fattispecie, è un Crass davvero molto bravo. Il coro, si diceva canta in italiano e, in generale è corretto, salvo ad indulgere in toni piazzaioli all’arrivo del cigno nel III atto.
Fritz Uhl è un Lohengrin sostanzialmente corretto, ma anche molto generico in quanto ad accenti ed interpretazione. Non si odono vere brutture vocali, salvo forse, verso la fine in alcuni piani del saluto al cigno la voce tende ad ingolfarsi e ad andare indietro. La sua prestazione manca però di due requisiti di fondo: da un lato l’eroismo e la grinta e, dall’altro, il misticismo. Di qui ascoltiamo certa placidità nei divieti, poca perentorietà negli scontri e nella cacciata di Telramund ed anche il passaggio declamato rivolto ad Elsa «Höchstes Vertraun hast du mir...» del III atto, resta in superficie. Si apprezzano invece i momenti lirici ed amorosi, ma si giunge alla conclusione che questo Lohengrin non è un essere enigmatico, ma un buon giovane, liceale di belle speranze che ha fatto una buona maturità e si avvia a mietere più successi femminili che scolastici. La De Los Angeles rivela una fondamentale eleganza, ma solo quella perché né l’interprete, né tantomeno il canto fanno gridare al miracolo: l’interpretazione è leziosa, caramellosa e zuccherosa, a tratti Elsa è proprio una fanciulletta (il «Mein Schirm Mein Retter...» è bambinesco nell’espressione). Vocalmente tutto procederebbe discretramente se Elsa non avesse accensioni di gioia (I atto) o di follia (III atto) che richiedono incursioni in alto. Del resto l’aria di ingresso ci aveva presentato una voce non carnosa, non quantitativamente grande e neppure particolarmente portata all’esaltazione (che richiede forza). Più avanti la De Los Angeles mostra la corda: l’«O fänd ich jubelweisen» rivela entrambi i limiti nell’espressione troppozuccherosa e acuti fibrosi, ma nemmeno possiamo dire che tutto fili liscio nella seconda parte del duetto con Lohengrin soprattuto arrivata alle tre domande fatali, superate sì vocalmente, ma senza quell’allure allucinata che dovrebbero avere... Nel duetto con Ortrud del II atto, la malefica donna prevale sulla buona: la De Los Angeles infatti, a partire dalle Aurette, è manierata e se non ci sono particolari difficoltà, dopo un pò la sua espressione annoia ed irrita per lo zucchero versato a profusione. Senza contare poi che nella frase «Es gibt ein Glück» che precede l’unisono con Ortrud la voce si rivela malferma. Questo appare in modo evidente dal raffronto con una Ludwig pastosa e granitica. Anche la replica a Lohengrin verso la fine del II atto («Mein Retter...») ci fa risentire l’espressione dolciastra. Un pò meglio la parte iniziale del duetto col protagonista nel III atto ma, tirando le somme, soprani che hanno interpretato Elsa meglio della De Los Angeles ce ne sono a iosa.
Molto più affiatata la coppia cattiva: Alexander è un buon Telramund, nobile e senza effettacci nel I atto, disperato nella consapevolezza della sua sconfitta nella scena iniziale del II atto. Trova poi effetti molto interessanti; ad esempio l’«Entzetzlich» con il quale replica a Ortrud, è allucinato. Inoltre l’intesa con la Ludwig è ottima tanto che questa coppia maledetta non si scaraventa reciprocamente accenti altisonanti e perentori, ma lavora frase per frase redendo l’atmosfera del momnento. Buona la scena della Chiesa e lo scontro con Lohengrin che vede Alexander sovrastare agevolmente il pieno dell’orchestra e del coro. Ma fra tutti gli interpreti al primo posto è la Ludwig, a tratti una forza della natura, per gli accenti veementi (l’invocazione agli dei germanici provoca un’ovazione da stadio, parossistico per voce e grinta lo scontro con Elsa e molto bene i tre interventi finali). La sua grandezza si misura anche per la sottigliezza di altri squarci: i pianissimi dicerti passi del duetto con Telramund sono efficacissimi nel delineare una falsa innocenza ed una predisposizione all’insinuazione velenosa. Quanto ai momenti più incandescenti la Ludwig è esplosiva, ma se si fa il confronto con la successiva edizione, qui a Buenos Aires la cantante tedesca sembra essere leggermente più misurata, sebbene ‘condisca’ la sua parte con risatacce sataniche. Riprovevole: non ne avrebbe bisogno, ma data la grandissima prestazione in cui i colori sono davvero molteplici ed il velluto timbrico della voce (che non è sacrificato neppure dalla veemenza di certe frasi in settore medio-acuto, pensiamo ai tre interventi finali) è da antologia, tali eccessi possono passare in secondo piano. Il pubblico capisce e premia meritatamente.
Bene come si diceva anche Crass: Re Enrico morbido, autoritario e solenne e altrettanto valido (anzi, valisissimo, direi) Mastromei quale Araldo che scandisce i suoi proclami con bella voce ed ottima dizione. Uno dei migliori Araldi della discografia, se non addirittura il migliore.
1965 GOLDEN MELODRAM J. Thomas – C. Watson – C. Ludwig – W. Berry – M. Talvela
(GM 1.0045) – E. Wätcher
Orchester und Chor Wiener Staatsoper – Dir K. Böhm (3 CD)
Edizione molto pregevole a partire dalla direzione molto morbida e tendenzialmente lirica di Böhm. I meriti della sua conduzione sono diversi: anzitutto l’intesa con le voci e il rispetto che questo direttore riserva loro; anche nei concertati (specialmente nel I atto e in quello successivo al grande scontro tra Lohengrin e Telramund nel II atto) i solisti hanno modo di emergere. In secondo luogo la narrazione molto variegata nelle tinte e nelle intensità: ricca di tensione l’atmosfera per l’arrivo del cigno nel I atto ed egualmente corrusco l’accompagnamento dell’unisono Ortrud-Telramund «Der racke Werk». Molto buona poi la dose di solennità che mai degenera in pesantezza. Singolare poi l’interludio tra 2a e 3a scena del III atto cheha tonalità rustica e nobile al contempo. In sostanza una splendida direzione che sa essere appassionata lirica, fastosa, drammatica e, soprattutto, sa narrare. La voce di Thomas è sensibilmente appesantita e scurita rispetto al live del ‘62. Si percepisce meno slancio giovanile ad esempio in «Heil, König Heinrich» del I atto. Non è tuttavia scadimento perché il personaggio acquista maggior intensità e robustezza sebbene lo scontro e la cacciata di Telramund (finale II) rivelano qualche opacità ed egualmente l’arduo «Heil dir, Elsa !» è meno brillante di un tempo. Thomas tuttavia è veramente bravo nel monologo finale («In fernem Land») in cui ci mostra però una forza e una notevole gagliardia. Certo i pianissimi e i piani non sono le sue carte migliori (ma non sono neppure da censurare se le paragoniamo al Windgassen dell’edizione del 1960), certa laboriosità di suono si sente e la dizione, a tratti, è tirata un po’ via, però il personaggio è molto ben delineato. Molto bene anche la Watson dal timbro cristallino e giovanile, ma per nulla esile o smunto, tanto che affronta con slancio e si disimpegna bene l’arduo «O fänd ich jubelweisen» con il quale inizia il concertato conclusivo del I atto. Un po’ meno attraente forse nella prima parte dell’a solo iniziale mentre molto buona è l’esecuzione delle “aurette” nel II atto e in tutto il duetto con Ortrud è molto candida nell’espressione e robusta nella vocalità. Nello scontro davanti la Chiesa affronta a testa alta Ortrud e riesce molto bene a passare dall’insinuante e amorosa fanciulla alla donna disperata e sostanzialmente alienata nel grande duetto con Lohengrin. La Ortrud della Ludwig è davvero sensazionale: non un’enorme quantità di voce (se pensiamo alla Klose del ‘live’ del 1942), né una caratterizzazione solo demoniaca e nera (la Varnay delle precedenti edizioni), ma una grandissima sensibilità ne fanno un ritratto inquietante dove alla perfidia sottile si mescola certa sensualità, già presente peraltronell’edizione in studio. La dizione è quanto mai meticolosa e scava con il talento di una fraseggiatrice frase per frase lavorando sull’accento e sulle inflessioni e sul piano vocale è prodiga di piani e pianissimi (il «Könntest du erfassen» è davvero pericoloso proprio nella tinta diafana che la Ludwig sa trovare nell’irretire Elsa). Come a Buenos Aires, nell’invocazione alle divinità pagane la Ludwig strappa un’ovazione da stadio per l’impeto e la drammaticità che non ledono la sostanza della voce ed ugualmente scatenata appare nello scontro con Elsa davanti alla chiesa. Un po’ in difficoltà, sul piano puramente vocale, mi pare presente invece nei tre interventi finali dell’opera che sono di tessitura abbastanza alta (a Buenos Aires erano caratterizzati da maggior slancio). In compenso per completare il suo ritratto, la Ludwig emette il grido di Ortrud annientata: non è un bell’espediente, ma dinanzi ad un’interpretazione così singolare glielo si può perdonare, tanto più che è segnato nel libretto. Davvero una singolare e pregevolissima prestazione. Accanto a lei il marito anche nella vita, W. Berry ci offre un ritratto vario di Telramund: grintoso nei passi più rudi e scabri del I atto, Berry vanta una bella dizione scolpita con forte drammaticità senza tuttavia perdere in morbidezza. Dolente e disperato per poi tornare ferocissimo nel duetto con Ortrud (con la quale, ovviamente, è affiatatissimo). A tratti per sottolineare l’amarezza di fondo tipica di questo personaggio ricorre a soluzioni in pianissimo suggestive (il «Du wilde Seherin» è notevole). Incisivo poi nello scontro con Lohengrin e insinuante nelle profferte a Elsa verso il Finale II. Insomma un ritratto a tutto tondo di un personaggio che, a volte, viene reso solo nel tratto più scopertamente ringhioso. Il Re di Talvela è monumentale: con voce colossale ma duttile, fa udire un Enrico solenne e guerriero al contempo e le sue invocazioni di preghiera assumono davvero accenti arcani e misteriosi (il«Mein Herr und Gött» è a tratti misticheggiante). Inoltre nei vari interventi del III atto Talvela è realmente un Re dominatore. Un po’ appannato rispetto alla precedente edizione del 1960 l’Araldo di Wätcher: veri e propri disastri non se ne sentono, ma la scansione è diluita e ciò lo si sente nei vari interventi (la denuncia di Telramund, il programma delle nozze l’imminenza della battaglia) anche nel II atto. La resa fonica è soddisfacente. Nel cofanetto manca il libretto e c’è solo un fascicolo con la divisione dei tracks, un profilo dei cantanti e qualche foto
Luca Di Girolamo