Backstage: Due Dandy e un santo
Aggiunto il 04 Febbraio, 2010
I dandy sono Gabriele d’Annunzio e Robert de Montesquiou; il santo è San Sebastiano, per dirla schietta un santo un po’ così e, proprio per questo, fatto su misura per affascinare due esteti inveterati.
In fuga dai creditori che gli stanno per mettere all’asta gli arredi della Capponcina, nel 1910 Gabriele d’Annunzio torna a Parigi dove trova un’accoglienza calorosa e si gode la sua notorietà riprendendo la solita vita brillante tra la società più esclusiva e culturalmente à la page.
Suo amico e mentore è Robert de Montesquiou, il dandy esteta più famoso della Belle Èpoque.
“Io gustavo l’ebbrezza esaltante di credermi teneramente amato da un uomo di genio. Feci quello cui fino allora non avevo mai acconsentito… presi spontaneamente l’impegno sentimentale e quasi religioso di un anno in onore di colui che accettava questo devoto omaggio, si prestava affettuosamente alla mia rispettosa fantasia.”
In quell’anno a Parigi furoreggiavano i Balletti Russi, ancora una relativa novità, e d’Annunzio assiste a una rappresentazione di ‘Cleopatra’ con Ida Rubinstein e ne resta folgorato.
Ida Rubinstein aveva una storia poco comune fra le ballerine.
Secondo Lynn Garafola era nata a Kharkov nel 1883 da genitori molto facoltosi che ben presto muoiono, lei e la sorella Iréne si trasferiscono a Mosca da dei cugini e alla maggiore età sono ricchissime e libere come il vento.
Ida studia danza e la sua felice scelta del maestro cade su Michel Fokine.
Debutta in pubblico nel 1908 al teatro Mikhailovsky nella ‘Salomé’, musica di Aleksander Glazunov e coreografia di Fokine.
Quando Diaghilev porta i Balletti Russi a Parigi viene inclusa nella compagnia e danza in ‘Cleopatra’ (Chatelet 2 giugno 1909) e in ‘Sherazade’ (Opera 4 giugno 1910) nel ruolo di Zobeide.
Grazie a due zie, Marie Kann e Julia Cahen d’Anvers che tengono noti salotti artistici, la Rubinstein frequenta quanto offre di meglio la culturaparigina e non tarda a dimostrarsi donna coltissima, oltre che molto determinata e apertamente omosessuale.
D’Annunzio vuole conoscerla e si rivolge a Montesquiou che non se lo fa dire due volte: l’incontro avviene ed è così vivo che ancora in un manoscritto del 1926 l’Immaginifico - il lettore avvertito è ben consapevole di doversi aspettare da lui scrupolose verità poetiche, non letterali - racconta:
“La visita nel camerino della Diva, condotto da Montesquiou: C’è Barrès, c’è Rostand, ci sono altri letterati franciosi, imbarazzati, agghindati. Con la solita temerità, vedendo da vicino le meravigliose gambe nude, mi getto a terra – senza sentire su di me l’abito “a coda di rondine”- e bacio i piedi, salgo su pel fasolo alle ginocchia, e su per la coscia fino all’inguine, con il labbro abile e fuggevole dell’aulete che scorre sul doppio flauto…
Tableau! Scandalo!
Alzo gli occhi. Vedo il volto di Cleopatra, sotto la grande cappellatura azzurra, chino verso di me sorridere con una bocca abbagliante.
Mi rialzo, in un silenzio ottuso, e mormoro, come trasognato: Saint Sébastien?
Ecco la genesi dell’opera nefanda.”
Questa epifania sarebbe dovuta alla somiglianza tra la Rubinstein e Olga Ossani, una giornalista che il giovane poeta aveva amato a Roma qualcosa come un quarto di secolo prima e alla quale scriveva firmandosi “San Sebastiano”.
Nei suoi taccuini:
”Il mio corpo maculato dai baci violenti, dai morsi di vampiro. Una notte di giungo torno a casa con la pelle più maculosa che quella della pantera. La sera seguente –il convegno nel bosco alto della Villa Medici… ella non sa fino a qual punto il suo ardore mi abbia piagato. Subitanea fantasia. La luna entra fra i lecci. Mi nascondo. Tolgo rapido il leggero abito estivo. La chiamo, addossato a un oleandro, atteggiandomi come se vi fossi legato. La luna bagna il mio corpo nudo, e tutte le lividure appaiono. “SanSebastiano!” ella grida. Quando s’avvicina … ho la sensazione che le saette vaniscano nelle mie piaghe e rimangano infisse nell’oleandro.”
Montesquiou è estasiato dal progetto e si assume il ruolo di una specie di impresario della messa in scena. Anche la ‘tragedienne du silence’ resta ammaliata da d’Annunzio, ma solo per la creazione della pièce. A quanto riferisce Anna Maria Andreoli nella sua sapiente biografia del poeta, il ‘fine amatore’ aveva una relazione con la pittrice Romaine Brooks e tra le due fu amore a prima vista. D’Annnunzio, che aveva ripreso a frequentare la Marchesa Casati sua complice di avventure anche erotiche, non se la prende e le scrive chiamandola ‘mon frère’. Lei riferisce che “io danzavo, mimavo quando ho incontrato Gabriele d’Annunzio, posso dire che mi ha dato la voce… Mi ha donato la rivelazione completa di me stessa, di tutto quello che io stessa non sapevo di me stessa.” La Rubinstein finanzia lo spettacolo, che “deve andare in scena questa primavera (1911), quand’anche si dovesse smuovere cielo e terra”, cioè al suo ritorno da Milano dove Diaghilev stava per portare in tourné alla Scala ‘Cleopatra’ e ‘Sherazade’. Questa è una difficoltà: i primi due musicisti interpellati Roger Ducasse in settembre e Henry Février in ottobre rinunciano perché il tempo è troppo poco. Montesquiou insiste per Debussy – a suo dire- e finalmente in dicembre quando il tempo rimasto è ancor meno Debussy accetta.
Gabriele d’Annunzio si presenta in un momento molto fortunato: dalla pubblicazione di Péleas et Mélisande nel 1902 Debussy non si era più dedicato a lavori di grande impegno.
“Attraverso un periodo di grande inquietudine, un po’ come qualcuno che attende il treno in una sala d’aspetto senza sole. ho voglia di andarmene da una parte qualunque e paura di partire nello stesso tempo”, scrive a Jacques Durand, il suo editore, proprio nel settembre 1910.
La fascinazione e l’intesa sono immediate, tra i duenesce un’amicizia ben testimoniata nel loro carteggio: Debussy chiama ‘mon irrésistible Tourbillon’ l’altro che gli scrive ‘Magister Claudius’ o ‘Claude de France’ e soprattutto lo consulta con autentica arrendevolezza per modificare i versi in funzione della partitura.
Dai primi di dicembre 1910 al marzo 1911 d’Annunzio stende il testo, che è in forma di sacra rappresentazione medioevale, impiegando il francese antico e nella versione integrale sono circa 4000 versi ottonari per una durata di cinque ore.
Del resto non si era neppure mai pensato di musicarlo tutto, il testo nasce per essere recitato e Debussy deve scrivere cori, danze, commenti e intermezzi con la collaborazione dell’amico André Caplet che lo assiste per l’orchestrazione e si incarica delle prove e della direzione.
Malgrado questo sostegno Debussy attraversa momenti di dubbio e di scoraggiamento, quando riceve la prima consegna di testo confessa di sentirsi come Pollicino :
“Ed ecco che ora mi sembra che qualunque musica sia inutile a fronte dello splendore continuamente rinnovato della vostra immaginazione. E’ per questo che non è senza un poco di terrore che vedo avvicinarsi il momento in cui dovrò decisamente mettermi a scrivere… Cosa volete che diventi di fronte al torrente di bellezza del vostro invio, e soprattutto come scegliere?” (29 gennaio). E ancora in febbraio “Questo è tanto elevato e lontano che diventa una cosa terribile trovare la musica” e il 12 a Edgar Varèse “Si, sto collaborando con d’Annunzio. Sto scrivendo la musica di scena del Marthyre de Saint Sébastien, è un’impresa per la quale mi ci vorrebbero due anni, mentre ho appena due mesi a disposizione!”.
Adriana Guglielmini