Backstage: Elina Makropulos e le dive occidentali
Aggiunto il 07 Settembre, 2009
JANÁČEK IN OCCIDENTE
La storia degli interpreti di Janáček corre, per tutto il ‘900, su due binari paralleli: quello Ceco e quello Occidentale.
In Boemia e in Moravia (nei teatri di Praga, Brno, Ostrava e negli studi dalla Supraphon) Janáček era eseguito in lingua originale da interpreti fieri della loro “autenticità”; nel resto del mondo le sue opere sono state tradotte in tutte le possibili lingue, innestate su altre tradizioni, contaminate con altri stili, omologate ad altri repertori. Questo processo di “occidentalizzazione” (sia pure snaturante in termini stilistici ed estetici) ha arricchito l’interpretazione di Janáček di stimoli e prospettive inaudite e ne ha moltiplicato le chiavi di lettura, interagendo con le evoluzioni storico-culturali del ‘900, ben più di quanto avrebbe potuto fare fra i limitati orizzonti dei teatri cecoslovacchi.
Se ad esempio prendiamo il “Caso Makropulos” (sua penultima opera tratta da un fantadramma di Karel Čapek e creata nel 1926), le primedonne occidentali che si sono avvicendate nelle vesti della protagonista hanno definito nel tempo un processo “evolutivo” di impressionante complessità e di cui invano cercheremo l’equivalente fra le interpreti cecoslovacche.
È tale processo che cercheremo di ripercorrere in questi appunti.
ELINA MAKROPULOS: IL PERSONAGGIO
Le opere di Janáček sono ricche di grandi ruoli femminili: Mila, Jenůfa, Kat’a, la Kostelnicka, la Bystrouska; ma nessuno è gravato di tante responsabilità e contraddizioni quanto Elina Makropulos, sorta di Olandese Volante al femminile.
“Diva” dal magnetismo insondabile e devastante e insieme carcassa alla deriva sul mare del tempo, Elina riassume il mistero della vita e della morte. In lei gli opposti si armonizzano in un singolare crogiolo di sensualità e freddezza, combattività e nichilismo, paura della morte e distacco dalla vita.
Lanostra eroina nacque nel 1575 nell’isola di Creta (o 1585… non è sicura di ricordare bene).
Quando era ancora una ragazza, suo padre - l’alchimista Hieronymus Makropulos - mise a punto un prodigioso elisir in grado di prolungare la vita umana di circa 300 anni. L’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, a cui il sensazionale intruglio fu sottoposto, ordinò però che a testarlo fosse la stessa figlia dello scopritore. Assunta la pozione, Elina cadde in coma; al suo risveglio, una settimana più tardi, il padre era stato giustiziato.
Ormai sola al mondo, la ragazza fuggì in Ungheria portando con sé la preziosa ricetta.
Fu questo l’inizio della sua incredibile vita: tre secoli di salute perfetta e incontaminata bellezza, fra peripezie, fughe, amori, glorie, infamie, incontri e abbandoni (… figli) e naturalmente innumerevoli cambi di identità. Infatti, per non destare sospetti, ogni cinquant’anni sparisce: emigra, cambia nome e inaugura una nuova esistenza. L’unica cosa che mantiene sono le iniziali EM, tanto per non dover ogni volta buttare gioielli, bagagli, timbri e altri effetti su cui esse fossero impresse. Tra i suoi vari nomi Ekaterina Myskin, Elsa Müller, Eugenia Montez, Ellian Mc Gregor…
Quando la conosciamo noi (intorno al 1920) si fa chiamare Emilia Marty ed è un’applauditissima diva dell’opera. La città di Praga, dove è appena approdata, è conquistata dal suo fascino: tutti la ricoprono di omaggi, cercano di sondarne i segreti. C’è chi pensa che potrebbe avere quarant’anni.
In realtà ne ha 337.
Fin dal suo primo apparire in scena, il personaggio sprigiona un magnetismo contraddittorio: seducente come una dea ma glaciale, svuotata di interessi, impermeabile alle passioni, sarcastica verso tutto ciò che agli altri uomini è caro. L’aver visto troppo, provato troppo, vissuto troppo non le ha lasciato dentro che un’apatia sepolcrale.
L’unico sentimento che pare agitarla è l’istinto di sopravvivenza. Anche perlei, infatti, è scattato il conto alla rovescia: dopo tre secoli, l’effetto della pozione comincia a esaurirsi e la donna avverte nel suo corpo i segnali della fine.
Per prolungare ulteriormente la sua vita non le resta che bere una seconda dose della pozione del padre. È per questa ragione che, nel 1922, ritorna a Praga.
È lì che spera infatti di ritrovare la formula che lei stessa, un centinaio d’anni prima, aveva affidato al Barone Prus, suo antico amante ora morto e sepolto. Da Prus Elina aveva addirittura avuto un figlio, ovviamente illegittimo, registrato all’anagrafe col nome di Ferdinand Gregor (la donna, all’epoca dei fatti, si chiamava Ellian Mc Gregor) e affidato a un orfanotrofio.
Dai giornali della capitale viene a sapere che gli eredi di Prus sono coinvolti in un processo che si sta trascinando da generazioni e di cui, in certo senso, è lei stessa responsabile. Infatti i discendenti di suo figlio (Ferdinand Gregor) rivendicano - da un secolo! - l’eredità del barone, senza però essere mai riusciti a dimostrare che Prus fosse effettivamente il padre naturale di Gregor.
Elina si intromette nella causa: sconcertante testimone dei morti, svela agli avvocati particolari e informazioni che ribaltano le sentenze; nel frattempo fa di tutto per rientrare in possesso del vecchio manoscritto “in caratteri greci”, ancora conservato fra i documenti dei Prus.
Riuscirà a ottenerlo dall’ultimo dei Baroni, concedendogli in cambio una notte di sesso (notte che lui stesso definirà “disgustante, come stringere un cadavere”).
Ora che ha in mano la sua pergamena, Elina è pronta a fuggire per un’ennesima nuova vita, ma viene bloccata da tutti i personaggi dell’opera, che irrompono nella sua camera d’albergo, le sbarrano la strada e la accusano di aver contraffatto gli atti processuali.
Se non fornirà seduta stante risposte convincenti sulla sua reale identità, chiameranno la polizia.
È così giunto il momentodella verità, momento che Elina aveva rimandato per tre secoli: in orchestra echeggiano le fanfare (già udite all’Ouverture) di Rodolfo II.
Si ubriaca per darsi forza e barcollando comincia il suo incredibile racconto.
“Sono la figlia di Hieronymus Makropulos, nata a Creta nel 1575. Ho 337 anni”.
Racconta il segreto della formula, racconta la disgrazia del padre, racconta la sua prima fuga e le sue successive vite, racconta i fantastici paradossi della sua esistenza e più racconta più si sente liberata, come recuperando progressivamente un’identità smarrita nei secoli.
E quando per l’ennesima volta gli increduli astanti le intimano di dichiarare il suo vero nome, lei sfinita, allo stremo delle forze, lo ripeterà con una gioia nuova, un’esaltazione che non ricordava, assaporando un suono che da tempo immemorabile nessuno pronunciava più: “Elina Makropulos”.
Dall’orchestra si leva, struggente, il tema della “trasfigurazione” proprio mentre la donna cade svenuta. Viene soccorsa. Riapre gli occhi. È ormai in fin di vita.
Ora sa che la morte non è un male e l’attende con serenità. Prima di spegnersi, tuttavia, vorrebbe donare ai presenti la formula “Makropulos”: la prova che suo padre era un genio. Nessuno ha il coraggio di accettarla, tranne la giovane Krista che, afferrato il terribile foglio, gli dà fuoco.
Le ultime parole di Elina (in greco, la sua vera lingua) sono rivolte a Dio.
LE ELINE-BRÜNNHILDE
Else Getner-Fischer (1929)
Hildegard Behrens (1988)
Gabriele Schnaut (2006)
In Occidente si poté ascoltare per la prima volta l’Affare Makropulos a Francoforte nel 1929, con gli auspici di un grande direttore: il giovane Joseph Krips.
La scelta della protagonista cadde naturalmente sulla dominatrice di quel teatro, la quarantaseienne Else Gentner-Fischer, classe 1884, nota anche per aver creato, assieme al secondo marito Benno Ziegler, “Von Heute aufMorgen” di Schoenberg.
La sua grande voce drammatica (impiegata in quasi 130 ruoli), dagli acuti saettanti, il baricentro mezzosopranile e l’ampio spettro dinamico, prestò a Elina i bagliori tempestosi di Brünnhilde.
Con lei, quindi, non si inaugurò solo la galleria delle Eline occidentali, ma anche quella delle tedesche e infine la serie (non particolarmente fortunata) delle Eline-Brünnhildi.
Sullo spartito, nell’elencare le dramatis personae, Janáček specificò che Elina doveva essere un “soprano drammatico”. Anche per questo probabilmente la scelta era caduta sulla Gentner.
Eppure nei successivi ottant’anni furono pochi i soprani drammatici che si distinsero nel personaggio. La ragione deve ricercarsi in questioni di natura tecnica e psicologica.
Il declamato degli “Hochdramatische” (a blocchi sillabici percussivi) può funzionare nei rari momenti di esaltazione del personaggio, ma non si concilia con la mobilità e leggerezza della scrittura, col suo adeguarsi alle mille sfumature del parlato.
Anche a livello psicologico le Brünnhildi si trovano a disagio: la tendenza ad esacerbare le reazioni – come in Elektra o Ortrud – contrasta con il tombale “tedium vitae” di Elina, la sua arida, superiore consapevolezza, il suo naturalismo asciutto e ironico.
C’è poi la questione dell’irresistibile carica sessuale dell’eroina, che i soprani drammatici – dati i personaggi solitamente affrontati – non sono usi esprimere con disinvoltura.
Ciò spiega perché dovettero trascorrere decenni prima che un nuovo “hocdramatische” si cimentasse col ruolo: nemmeno le immense tragédiennes degli anni ’50 (Mödl, Varnay, Borkh, Goltz, Nilsson) ne furono attratte.
Non contando l’episodico approccio a Graz della giovane Roberta Knie (nel 1970), l’unica Elina-Brünnhilde del XX secolo fu Hildegard Behrens (nata nel 1937 e recentemente scomparsa), che affrontò la parte a Monaco nel 1988 quando era già divenutail riferimento mondiale dei pesi massimi wagner-straussiani.
L’avventura – mai più ritentata – le garantì un prevedibile successo senza tuttavia incidere sulla storia interpretativa del personaggio, né sulla sua carriera. Se l’incontro con Elina fosse caduto dieci anni prima, quando ancora la sua voce aleggiava fra le trasparenze liberty delle sue prime Salome e Kaiserin, forse la Behrens sarebbe risultata più incisiva.
L’unica Elina-Brünnhilde successiva alla Behrens è dei giorni nostri: Gabriele Schnaut (classe 1951), che si cimentò col ruolo nel 2006 all’Opernhaus di Zurigo. Anche senza contare la modestia dell’attrice e l’aspetto fisico ben poco coerente, è soprattutto il canto duro a affannato (stranamente gradito - anche in Italia - nei personaggi estremi del repertorio tedesco) a determinare un esito di totale fallimento.
LE ELINE-SIEGLINDE
Maria Hussa-Greve (1938)
Hildegard Hillebrecht (1957)
Più interessante - ma ugualmente sparuta - si è rivelata la seconda categoria di Eline tedesche, appartenenti alla famiglia dei grandi soprani lirici: i cosidetti “Jugendlich-dramatische” (le Crisotemidi e Sieglindi, per intenderci).
Le loro Eline deposero il vigore tragico e gli affondi rabbiosi per sostituirli con velluti sensuali e rigogliosi, con l’aggiunta del tocco “chic” che derivava loro dalla frequentazione della Marescialla.
A inaugurare il filone fu Maria Hussa-Greve (nata nel 1897), che fu appunto una delle Marescialle “simbolo” della Vienna degli anni ’20-’30, nota ai più per aver creato il “Miracolo di Heliane” di Korngold e per la fine atroce che le toccò a più di ottant’anni, in una metropolitana di Chicago.
Donna di fascino signorile e timbro melodioso, la Hussa ebbe l’onore di creare il Makropulos proprio a Vienna, ma non alla Staatsoper, bensì all’An der Wien. Ciò accadeva nel 1938, pochi giorni dopo l’Anschluss che determinò la sua eclissi artistica.
Dopo le recite di Vienna non si ebbero più rappresentazioni del Makropulos in Occidente fino al 1957, quando a Düsseldorf ebbe luogo il rilancio. In quell’occasione la scelta cadde su Hildegard Hillebrecht (nata nel 1927), nello splendore dei suoi trent’anni.
Dotata di timbro sontuoso e acuti un po’ tirati, vibrante di sensualità e fascino, la Hillebrecht fu una delle più efficaci declamatrici liriche dei suoi anni. Anche se la sua carriera internazionale fu un po’ oscurata dal gran numero di colleghe impegnate nello stesso repertorio (Kupper, Rysanek, Jurinac, Crespin), ella seppe comunque distinguersi negli Strauss più maestosi (Ariadne, Crisotemide, Marescialla), nell’ultimo Verdi (Amelia, Leonora di Vargas, Desdemona) e tanto nei Wagner “biondi” quanto in quelli “castani” (Senta, Sieglinde, fino a Isolde, di cui costituì una variante – per così dire – “cosimaniana” molto rara all’epoca).
In Janáček colse successi sia come Kat’a, sia come Jenůfa, ruolo in cui la si può ammirare, contrapposta alla Varnay, in un celebre video da Monaco del 1970.
Nonostante i successi della Hillebrecht, la variante “Jugendlich-dramatische” non ebbe fortuna in Germania. Tranne Hannelore Backrass (a Wiesbaden nel 1961), nessuno dei grandi soprani lirici di quegli anni si interessò al personaggio, nemmeno la Rysanek, nemmeno la Jurinac che pure aveva trionfato a Vienna come Jenůfa.
Credo che la ragione vada cercata nel taglio intellettualistico che l’opera andò assumendo in Germania a partire dagli anni ’60; non è un caso che – pochi anni dopo – gli stessi tedeschi cominciarono a reclutare per il personaggio una nuova tipologia di interpreti, destinata questa volta a grandiose fortune: l’Elina-Lulu.
LE ELINE BRITANNICHE
Maria Collier (1964)
Joesphine Barstow (1971)
Cheryl Barker (2006)
Se non in Germania, i frutti di quanto la Hussa e la Hillebrecht avevano seminato venneroraccolti in Inghilterra. Infatti quando Charles Mackerras (il massimo divulgatore del Makropulos in Occidente) diresse l’opera alla Sadler’s Welles di Londra (1964), la cantante che scritturò fu proprio una Sieglinde, ossia un grande soprano lirico sia pure anglosassone.
L’australiana Marie Collier (nata nel 1927) fu non solo la più straordinaria Elina della sua generazione, ma anche la prima a imporre il ruolo a livello internazionale.
Dal 1964 al 1971 lo cantò a Londra, Parigi, Zagabria (sempre in inglese) e soprattutto a San Francisco, per la creazione americana.
Fu con lei che fiorì la suggestiva pianta delle Eline britanniche.
Già prima della seconda Guerra, l’Inghilterra aveva cominciato a mettere in campo i suoi “declamatori”, ispirati al modello di quelli tedeschi ma meno monolitici per suono e personalità; li caratterizzava un variegato uso dei “colori” e una maggiore mobilità dialettica.
Di questa scuola Marie Collier rappresentò il prototipo sopranile.
Altera, moderna, risoluta, faceva correre nei suoni – specie al centro – i colori battaglieri di una vitalità inquieta: la sua instabilità umana si rifletteva in ardimento canoro, in irruenza del suono che conquistava il pubblico. Persino Tito Gobbi - che nella sua autobiografia non è sempre generoso coi colleghi - dedica parole toccanti a questa singolare artista, morta suicida a soli quarantacinque anni.
Nel suo sperimentalismo istintivo la Collier colse la continuità fra Puccini (Tosca, Minnie, Musetta e Manon Lescaut) e le eroine del 900 “difficile” (Katerina Ismailowa, Ecuba di Tippett, Marie del Wozzeck, Kat’a Kabanová) che interpretava con la stessa naturalezza di slanci.
Come la Hillebrecht, anche lei difendeva la femminilità di Elina (l’accostamento a Jenůfa invece che a Kostelnicka, a Sieglinde invece che a Brünnhilde), ma sostituendo l’austerità propria dei tedeschi con l’energia, la disperazione e la combattività. Per laforza e l’umanità con cui è imposta, la sua Elina Makropulos resta una pietra miliare nella storia del personaggio.
Quando la Collier morì, erano programmate alcune recite del Makropulos al Coliseum.
Mackerras ebbe buon fiuto nell’individuare una possibile sostituta nell’allora giovanissima Josephine Barstow (classe 1940).
Da poco impostasi come Violetta sui maggiori palcoscenici inglesi, la Barstow era da molti punti di vista (il carisma, il temperamento, l’intelligenza) l’erede ideale della Collier.
Di quest’ultima però le mancava la risolutezza sbrigativa, il suono diretto e l’umanità penetrante. Manierata, involuta, dalle sonorità strane e innaturali e dall’espressione sovraccarica, la Barstow finì per comporre un personaggio radicalmente diverso, meno radioso e graffiante, ma ricco di ombre e deformità. La sua Elina si impose nel mondo (anche da noi in Italia) per un paio di decenni e va annoverata fra le più incisive del ‘900.
La discografia ufficiale (DECCA 1989) ha conservato la sua impressionante scena finale (trilli e filature comprese) in cui la vocazione al bizzarro e il colorismo cangiante si alterna a squarci di introspezione struggente.
Tra le Eline britanniche vanno ricordate anche Lorna Haywood (a sua volta con Mackerras nel 1975) e soprattutto il sottogruppo delle Australiane: Elizabeth Whitehouse (1993 Norimberga), Marilyn Richardson (1996 Sidney) e la recentissima Cheryl Barker, immortalata nella più recente delle edizioni discografiche (CHANDOS).
Trionfatrice a Londra (con l’immancabile Mackerras), Sidney e finalmente Amsterdam, la Barker (classe 1954) trae partito dalla sua voce sana, eloquente e colorata, per comporre un ritratto di vivace intensità. Come le altre Eline australiane, anche lei difende con orgoglio la continuità diretta rispetto al modello indimenticabile, ma ormai lontano nel tempo, di Marie Collier.
È forse questo a rappresentare oggi il suo limite:come vedremo, l’evoluzione che il personaggio ha subito - passando attraverso le interpretazioni di Silja, Malfitano, Denoke - non permette più che ci si volga indietro.
LE ELINE SCANDINAVE
Elisabeth Söderström (1965)
Lisbeth Balslev (1995)
Negli stessi anni ‘60 in cui la Collier divulgava nel mondo la propria Elina “britannica”, l’Opera Reale di Stoccolma avanzò un’alternativa stravagante.
Fino ad allora si erano cimentate col ruolo solo voci più o meno perentorie (sia pure nella variante “lirica” della Hillebrecht e della Collier); anche in Cecoslovacchia le interpreti del ruolo avevano in repertorio Aida e Sieglinde, se non addirittura Salome e Turandot.
Tutti questi personaggi erano – per tonnellaggio vocale – al di fuori delle possibilità della trentottenne Elisabeth Söderström (classe 1927), che all’epoca cantava Susanna e Melisande: la sua era una voce piccola e luminosa, del tutto refrattaria ai grandi sfoghi drammatici.
Nondimeno l’intuizione del teatro svedese fu sensazionale: la Söderström risultò una delle più complesse Eline del ‘900.
Oltre a tenere l’opera in repertorio per tre lustri e in quattro lingue, fu anche la prima occidentale a portarla in sala di incisione (nell’ambito del ciclo Janáček della DECCA, con i Wiener Philharmoniker e la direzione – manco a dirlo – di Mackerras).
Tecnicamente parlando, il modello a cui la Söderström si ispirava era quello del “Mozart Viennese” degli anni ’50 e precisamente il suono diafano, etereo e cristallino di Lisa Della Casa, Irmgard Seefried, Teresa Stich-Randall e soprattutto Elisabeth Schwarzkopf.
Tutte costoro, nonostante i suoni delicati e miniaturistici, erano state celeberrime interpreti di Richard Strauss, che pure reclamerebbe volumi sonori ben maggiori. Senza alterare le loro emissioni delicate e senza farsi intimidire dalle orchestrazioni, esse si erano impadronite di Ariadne,Marie-Therese, Madeleine, Oktavian, Componist, persino Salome e Crisotemide.
Il mondo intero era stata conquistato dal loro canto fragile e prezioso come cristalleria, che scioglieva il declamato straussiano in ricami iridescenti e aliti di luce.
Perché dunque non provarci anche in Janáček?
A giudicare dai risultati a cui pervenne la Söderström, viene persino da rimpiangere che la stessa Schwarzkopf non abbia tentato a sua volta la sfida: è infatti proprio la tecnica miniaturistica ereditata dalle Viennesi a consentire alla Söderström un’incarnazione originalissima, dai suoni liquidi ed evanescenti. Efficacissima, poi, è la scena finale, trascinata in snervate dissolvenze, come se il suono non possa mai sfogarsi in pienezza e continuità, ma sia condannato a galleggiare incorporeo, fino a disperdersi nella morte con la leggerezza di un pensiero.
Ben due riprese video (purtroppo tuttora inedite) documentano anche il magnetismo fisico di questa straordinaria incarnazione: la nera profondità dello sguardo, l’inalterabile eleganza.
È incredibile che la Söderström non abbia avuto eredi in questo ruolo. Nessuna delle mozartiane “cameristiche” a lei posteriori (la Te Kanawa ad esempio) ne ha seguito i passi.
Ci consoleremo ricordando i contributi di altre due famose Eline di area scandinava, sia pure molto distanti dal “Caso Söderström”.
Ritva Auvinen (classe 1932) è una piccola gloria nazionale in Finlandia; il vasto repertorio e la versatilità espressiva ne hanno fatto una delle cantanti più rinomate in patria. L’approdo all’Affare Makropulos avvenne a Helsinki nel 1988.
Ben più nota a livello internazionale è la danese Lisbeth Balslev (nata nel 1945), che si confrontò a Elina a Toulouse nel 1995. Voce acre e perentoria, formidabile personalità d’interprete (come la grande Gré Brouwenstijn di cui può considerarsi erede), la Balslev non ricavò dal personaggio particolari titoli di gloria. Troppoaltera e severa, scarsamente femminile, si cimentò un po’ tardi col personaggio e soprattutto in anni in cui il terreno era occupato da personalità fortissime.
LE ELINE-LULU
Helga Pylarkzick (1965)
Anja Silja (1970)
Come si è detto, negli anni ’60 prevalse in Germania una nuova via per la definizione vocale e psicologica del personaggio. Stranamente la capostipite della nuova tendenza fu incoronata in Cecoslovacchia (solitamente ostile ad accogliere stranieri nel proprio repertorio).
Nel 1965 fu infatti prodotta a Praga una versione televisiva del Makropulos con la direzione di Neumann e la regia di Kaslik. In quell’occasione il ruolo di Elina fu affidato a Helga Pylarkzick (nata nel 1925), la prima delle Eline-Lulu.
Musa dell’avanguardia novecentesca (specialista di Berg e Schönberg, Busoni e Bartók), la Pylarczyck possedeva una voce esplosiva e penetrante (che le consentì di spingersi fino a Salome, Lady Macbeth e Turandot) ma anche chiara e metallica: il suono era spogliato fino alla secchezza, orgogliosamente depauperato di velluti e rotondità.
Intellettuale dai riflessi esistenzialistici, la Pylarczyck seppe elaborare uno stile declamatorio tra i più radicali e sconcertanti del suo tempo, con le vocali rivelate fino all’impudicizia. Anche sul versante espressivo la sua eloquenza appariva disadorna, di taglio epico e “oggettivistico”, ideale per le inquietudini del ‘900.
Forte di una tecnica e di una personalità tanto sofisticate, la Pylarkzick segnò il punto di svolta nella storia interpretativa del Makropulos. Con lei Elina si spinse sul baratro dell’alienazione tardo-novecentesca e iniziò a condividere con Lulu il ruolo di destabilizzatrice anarchica di una civiltà malata.
La svolta attecchì subito – ovviamente – in Germania, oltre ad anticipare, come vedremo, il taglio “contestatore” delle Eline americane (a loro volta della Lulu).
Le interpreti che discendonodalla Pylarkzick si riconoscono per l’alto tasso di disumanità, spregiudicatezza e intellettualismo. Al posto del calore sensuale e del fascino divistico delle precedenti, esse ostentano disprezzo per la società e malessere dell’anima; la loro “diversità” non è più tanto una condizione, quanto una scelta autodistruttiva.
Anche vocalmente il personaggio cambia: non più timbri scuri e fastosi, bensì voci sottili, aspre e balenanti, dal baricentro più acuto e i colori freddi e taglienti. Ne è un buon esempio Colette Lorand (nota per aver creato Regania, la “sorella cattiva”, nel Lear di Reimann) che fu Elina a Düsseldorf e Bale nei primi anni ’70.
Ma soprattutto è a questa tipologia che appartiene la più celebrata Elina di tutti i tempi: Anja Silja (classe 1940). Dal 1970 al 2005 (quindi per trentacinque lunghissimi, incredibili anni) il personaggio è rimasto nel suo repertorio, passando per decine di produzioni e inanellando trionfi ai quattro angoli del mondo, in Germania come in America, in Inghilterra come in Francia, in Spagna come in Olanda e in Belgio.
Rarissimo caso di identificazione personaggio-interprete, l’Elina di Anja Silja è considerata una delle creazioni artistiche più potenti del XX secolo, importantissima anche per il suo contributo alle fortune dell’opera presso il grande pubblico. In teatro produceva una fascinazione difficilmente descrivibile: avendola vista due volte dal vivo (a Vienna nel 1993 e a Aix nel 2000) posso testimoniare il brivido che attraversava la platea al suo semplice apparire in scena.
Molto più della Pylarkzyck, il soprano berlinese ha attratto Elina verso un’alienazione dai contorni metafisici; nessuna ha esasperato quanto lei l’inaccessibilità del personaggio, il disprezzo e la solitudine raccolti nell’azzurro glaciale dello sguardo.
L’Elina della Silja era senza identità, come se l’averne cambiate troppe le avesse fatto smarrire la propria. Androide di bellezza ipnotica,indecifrabile e spiazzante, si aggirava per la scena come un’extra-terrestre, lontanissima da tutto, studiando con distacco gli interlocutori, anticipandone le reazioni, volgendo su di loro occhi sarcastici e disperatamente asciutti.
La sensazione di una lontananza siderale, di una disumanità cibernetica era acuita dalle particolarità del suo declamato, uniforme nei colori (come un biancore fosforico) e grandiosamente propulsivo nell’articolazione delle sillabe, che fendevano lo spazio come lame.
A livello scenico la smaterializzazione dell’Io era ottenuta con un turbinoso carosello di trasformismi. Poteva presentarsi in tubino nero, grandi occhiali scuri e lunghi capelli rossi, come una signora dell’alta società, e immediatamente dopo androgina, in vesti maschili e capelli impomatati, come un dandy sofisticato. Poteva apparire abbagliante di lustrini e diademi, iperbolica diva da Holliwood-Babilonia, oppure volgarmente sexy, in pantaloni di pelle e camicetta di seta trasparente. L’unica costante dei travestimenti era il gelo innaturale, cadaverico steso su ogni maschera, la fissità dei gesti (quando si vendeva a Prus, non faceva altro che sdraiarsi a terra, senza il minimo mutamento d’espressione, e aprire le gambe).
Solo al termine dell’opera, nella scena della morte, tutto veniva rovesciato.
Era come se l’armatura si fosse spaccata. Sparivano parrucche, costumi e altri accessori delle metamorfosi e, davanti agli occhi del pubblico, si ricomponeva la definitiva identità, non solo del personaggio, ma addirittura dell’interprete.
Al centro di uno spazio svuotato, non restava che lei, Anja Silja, con la sua faccia, i capelli ingrigiti, l’antica bellezza sfiorita, l’incredibile passato umano e artistico, l’essenza di una verità totalmente svelata. Era l’interprete che torna reale sulle ceneri del personaggio; la donna che rinasce al morire della diva.
Avanzava allora verso la ribalta, ne superava le luci e sirivolgeva direttamente al pubblico con la pergamena stretta nel pugno e una forza nel canto che sembrava infinita.
Un finale allucinante a cui rispondevano, in ogni parte del mondo, cataclismi di ovazioni che, forse, nemmeno Janáček avrebbe mai previsto per un’opera tanto raffinata e difficile.
LE ELINE AMERICANE
Maralin Niska (1971)
Evelyn Lear (1976)
Stephanie Sundine (1989)
Karan Armstrong (1990)
Catherine Malfitano (1995)
Kristine Ciesinsky (2001)
Anche nei teatri d’opera statunitensi, a partire dagli anni ’50, si andò sviluppando una scuola di “canto declamato”, frutto della contaminazione fra gli sperimentalismi tedeschi (molto apprezzati in America) e il vastissimo serbatoio di suoni del canto non classico (Jazz e non solo).
Rispetto ai tedeschi, i declamatori americani erano sospinti da un’esigenza di divulgazione e persuasione che li rendeva più espliciti, specie nell’uso dei “colori”.
Ne uscì ad esempio una stirpe di Wagneriani “coloristi” dall’ampia dinamica e dalla tinta “yenkee” (Vickers, Hines, King, Stewart, Thomas) capaci di mietere trionfi nella stessa Bayreuth.
Nel repertorio italiano invece si approdò a un’originale sintesi fra colorismo e vocalismo (la Stevens, la Steber, Peerce, Warren, la Farrell, la stessa Price) da cui ci si sarebbe mossi per conquiste stilistiche rivoluzionarie (la Horne e i neobelcantisti).
È a questi “sincretisti” che appartenne la prima Elina americana, l’eclettica Maralin Niska, che raccolse nel 1971 un importante successo al New York City Opera.
Negli stessi anni si faceva largo negli USA anche una particolare scuola di “coloriste” dalle caratteristiche rivoluzionarie. Per indicare queste interpreti - figlie della Beat Generation e refrattarie alle abituali etichette vociologiche - io mi limito alla definizione di “espressioniste americane”.
Evelyn Lear e Teresa Stratasfurono le capostipiti; sulle loro orme si mossero Karan Armstrong, Maria Ewing, Catherine Malfitano, Carol Farley, Julia Migenes.
Quasi tutte iniziarono con Mozart (di cui mettevano in luce gli aspetti più scomodi, contro il serafico astrattismo viennese). Quasi tutte praticavano la canzone americana, il Musical, persino il Jazz, magari saturando questi repertori di densi vapori “noir”. Quasi tutte impararono a sfruttare per i personaggi operistici lo stridore graffiante e la sensualità roca che la musica “non classica” aveva consegnato loro.
Le loro voci non erano grandi, per di più intaccate da spigolosità e fratture che l’emissione volutamente “aperta” accentuava. Nel loro canto si alternavano stridori di acuti, filature disincarnate, gravi corrosi, il tutto mescolato a un senso del tragico estremamente spregiudicato, moderno, da Actor’s Studio.
Molti, anche tra i nostri critici, si opposero al “dripping” vocale di queste gatte selvatiche da cinema indipendente, ma ciò non impedì loro di farsi largo nel mondo, Italia compresa, e scrivere un capitolo determinante nella storia del canto operistico.
Con loro Elina Makropulos si adeguò al modello femminile uscito dalla Contestazione e dalla cinematografia coeva: la donna “media americana” che combatte da sola, con coraggio, ardore e dignità, contro un mondo che la osteggia e la teme per la sua indipendenza.
Il primo approccio fu tentato proprio dalla capostipite del gruppo: Evelyn Lear (classe 1927). Fin dalle sue prime apparizioni, questa magnifica artista aveva destato stupore: l’esuberanza dei colori era tale che il timbro ne risultava vetroso e striato di asperità. Eppure la sua novità sedusse non solo il pubblico americano, ma anche l’Europa. Un accademico come Böhm, abituato all’oreficeria viennese, la volle alla DG non solo come Marie e Lulu, ma anche come Pamina. André Cluytens – benché la Lear fosse un soprano lirico – le offrì Marina Mniszek nel suo rutilante Borisdiscografico. Persino un sublime nostalgico come Carlos Kleiber preferì la sua Marescialla moderna, dagli occhi di ghiaccio, a quella più rassicurante di Lucia Popp.
Purtroppo le occasioni per la Lear di incontrare il Makropulos furono poche. Circolazione maggiore ebbe la canadese Stephanie Sundine, dalla cui interpretazione a Toronto (1989) si ricavò il primo video ufficiale dell’opera. La Sundine, a cui Henze si ispirò per “Das Verratene Meer”, dominava tutte le specificità del declamato americano, compreso certo “swing” da diva di Broadway. Fu una valida Elina, anche se non tanto personale quanto ci si sarebbe aspettati da lei.
Un salto di qualità si ebbe con Karan Armostrong (nata nel 1941) che a Berlino e a Los Angeles nel 1990 realizzò una perfetta sintesi fra eloquenza americana e intellettualismo tedesco.
Attrice e musicista vulcanica, la Armstrong possedeva una dialettica espansiva ma lucidissima, fisicità disinibita, ironia e acuto istinto dell’effetto. Moglie di Götz Friedriech, regista-simbolo del Regietheater anni ’70-’80 nonché intendente della Deutsche Oper di Berlino, la cantante si accaparrò per lungo tempo i personaggi di Lulu, Salome, Marie del Wozzeck, Frau dell’Erwartung; il suo repertorio fu però vastissimo (da Minnie alla Marescialla, da Gilda a Mère Marie) e trovò un punto d’eccellenza in Kat’a Kabanová.
Il vertice dell’Elina “all’americana” fu però toccato da Catherine Malfitano (annata 1948) che affrontò per la prima volta l’opera a Chicago (1995, produzione di David Alden).
Come la Armstrong, anche la Malfitano aveva mosso i primi passi fra i ruoli lirici e di coloratura; quando negli anni ’90 si volse a Salome e al repertorio novecentesco, quell’eredità di proiezione alta e leggerezza anche asprigna si rivelò preziosa. Nella sua Elina, niente sonorità auliche e ingorgamenti da primadonna, bensì chiarezza di slancio, minimalismo d’espressione e decisi strappi di accento: insomma, il cantomeno “melodrammatico” che sia possibile immaginare.
Anche sul piano interpretativo ogni residuo di compiacimento divistico e di eccentricità sensualosa alla Jessica Rabbit venne spazzato via: rimase una donna del presente, dignitosa, fragile e indomabile come una Ellen Burstyn o una Susan Sarandon dell’Opera, che lotta per la vita in solitudine, senza nulla chiedere e nulla aspettarsi, ma anche senza cedere a compromessi.
Fra la Silja e la Denoke, la Malfitano va considerata come la più avvincente e straordinaria delle Eline occidentali.
Pur essendo molto diversa sia per voce sia per personalità, Katherine Ciesinsky (classe 1950) impresse ad Amsterdam (2001) un ulteriore impulso alla formula statunitense. Con un timbro che - a differenza della Armstrong e della Malfitano – vantava pienezze mezzosopranili, e sfoderando il fascino sofisticato di una donna in carriera che tenta di non farsi schiacciare in un mondo di uomini, anch’essa contribuì a calare il personaggio fra le maglie della società di oggi.
VOCALISTE ALLO SBARAGLIO
Raina Kabaivanska (1994)
Jessye Norman (1996)
Tutte le interpreti che abbiamo osservato finora (ma anche le boeme) sono declamatrici o coloriste: nessuna “vocalista” (almeno fino alla metà degli anni ’90) si è cimentata nel ruolo.
Le ragioni dell’esclusione vanno ricercate nell’inadeguatezza del canto tradizionale o “italiano” a questo tipo di scrittura, fondata sulla priorità della parola e sulla policromia.
A livello puramente teorico qualcuno potrebbe rimpiangere l’assenza – fra le Eline occidentali – di una Maria Callas o di una Magda Olivero, grandi primedonne e interpreti fastose. In realtà l’una e l’altra sarebbero state perfette in termini teatrali, ma probabilmente insoddisfacenti sul versante musicale, proprio a causa degli ancoraggi vocalistici della loro tecnica.
Nel caso della Olivero possiamo farci un’idea meno teorica, ascoltando laregistrazione della sua “Jenůfa” (Milano 1974). Il risultato è doloroso: incapace di tradurre l’espressione con le gradazioni timbriche proprie di una declamatrice, consapevole dell’inutilità – in questo caso – delle sue migliori prerogative tecniche, il soprano torinese è costretto a ripiegare nel “non canto”: urla, strappate, graffiate e “parlati” che sono l’esatta negazione di ciò che Janáček prescrive.
Eppure una sorta di “riscossa delle vocaliste” fu tentata – e in grande stile - a metà degli anni ’90.
Nel 1994 ci provò in Italia Raina Kabaivanska (nata nel 1934). L’idea era suggestiva, in quanto la cantante, oltre a un grande ascendente sul pubblico, ha sempre posseduto una forte personalità scenica - sia pure un poco “old style” - e una musicalità rigogliosa.
La produzione circolò a Torino, Bologna e infine Napoli; riscosse un buon successo di pubblico, ma il risultato artistico fu deludente. La regia di Luca Ronconi (ripresa recentemente alla Scala) era vuota e generica e il cast - nonostante la traduzione in Italiano – non fu in grado di maneggiare le complessità prosodiche e musicali dell’opera.
Quanto alla Kabaivanska, il solido impianto vocalistico della sua tecnica – che anche al termine di una lunga carriera le assicurava meritati consensi in Tosca e Adriana Lecouvreur – si rivelò un insormontabile impaccio a contatto con Janáček: al posto della “parola esaltata”, restava un mormorio inarticolato, greve sui ritmi, arido nelle sonorità, costretto a cercare scampoli di espressione nell’affettazione dell’accento. Solo al finale la cantante bulgara conobbe un certo riscatto nello slancio degli acuti e in certi preziosismi “déco” tipici della sua sensibilità d’altri tempi.
Due anni dopo, nel 1996, il Metropolitan mise in cantiere il suo primissimo Affare Makroupulos; l’avvenimento era atteso con frenesia anche per il debutto – nella parte di Elina – di Jessye Norman (USA 1935). La delusioneche la diva suscitò (e che segnò la fine della sua lunga collaborazione col Met) va ricondotta ancora una volta a questioni tecnico-vocali.
Anche la Norman infatti era una vocalista, benché sapesse “fingere” – con sapienza – di usare i colori. Il mondo dei suoni “non classici” (aperti, jazzistici, carnosi, apparentemente naturali) le era noto fin dall’inizio della carriera, grazie alla pratica con gli Spirituals e il Gospel. A ciò si aggiunse il lungo praticantato in Germania, nel “covo” dei declamatori, e la scoperta del Lied.
Queste esperienze le insegnarono a decorare con tocchi da “colorista” un canto che - nonostante tutto - restava vocalistico, incatenato al controllo ritmico-dinamico della linea, alla pienezza della cavata e alla strumentalità del fraseggio. In altri autori non-vocalistici (Wagner, Schönberg, lo stesso Gershwin) un tale sincretismo poteva anche persuadere; in Janáček non era possibile.
Fin dalle prime battute dell’opera, la Norman si ritrovò ingolfata fra le sfuggenti volute della scrittura, incapace di assecondare i contorni spezzati della frase, impacciata dalla sua stessa sontuosità, fino a ritrovarsi afona e senza acuti al terzo atto (proprio dove le vocaliste potrebbero anche farsi valere). E così la produzione del Met, già funestata dalla morte assurda del tenore Richard Vassalle, finì fra applausi circospetti e imbarazzo della stampa. Alla ripresa si fece ricorso alla Malfitano che vi colse com’era prevedibile un sensazionale trionfo.
LE ELINE DEL 2000
Angela Denoke (2006)
Al chiudersi del XX secolo, col contributo di quarant’anni di interpreti occidentali, il personaggio di Elina è approdato a evoluzioni radicali. Se all’inizio era dipinta coma una primadonna tipicamente operistica, con un tocco tra il “gotico” e il “fantascientifico” (la Hillebrecht, la Collier, la Soderstrom), negli anni ’60 si è rivestita di inquietudine esistenzialistica.
Le tedeschehanno visto in lei la sorella di Lulu: un Golem di a-socialità, ipostasi dell’Assurdo, prostituta e intellettuale che riflette, nel suo male interiore, quello universale. Da questa svolta avrebbero preso le mosse tanto Anja Silja, con la sua alienazione metafisica, quanto le espressioniste americane, con la loro rivincita post-femminista. Un cammino vivacissimo, insomma, che non si è ancora fermato e non si fermerà finché il personaggio (come Don Giovanni o Carmen) sarà in grado di assorbire le sollecitazioni del presente.
Fra i fantasmi che turbano l’oggi, uno dei più incombenti riguarda il ruolo che l’ “immagine” ha assunto nell’era della comunicazione globale. Elina Makropulos si presta benissimo a incamerare anche questo problema. Basta sostituire alla magica eternità del filtro la fissità dell’icona mediatica (eternata da major televisive, tabloid, spot, siti, blog) e il gioco è fatto: la tragedia di Elina diviene quella della “star” nella civiltà del virtuale.
Raccogliendo le eredità di una Greta Garbo, una Marilyn Monroe, una Maria Callas – vivide metafore della dissociazione divistica (imperiture in quanto “idoli”, fragili e tragiche in quanto persone) – Elina diviene ora l’individuo imprigionato nella propria raffigurazione.
Non è più dalla vita che fugge, dopo trecento anni di logorante giovinezza, ma dalla sua stessa proiezione (ben più “immortale” di lei) creata e alimentata dall’Entertainment planetario.
Tutti questi temi sono emersi nella magnifica produzione di Krzysztof Warlikowski a Parigi (2006 e ora Madrid), in cui ha mosso i primi passi l’Elina del 2000: Angela Denoke (1961).
Con prodigiosa naturalezza il soprano tedesco evolve negli spazi moderni, freddi, “high tech” concepiti per lei da Warlikowski (sale cinematografiche, vaste e pulitissime toilette, ambienti stilizzati e generici della contemporaneità), riempiendone ogni anfratto con la propria fisicità grandiosa ed effimera, vestendo ipanni di dive leggendarie dietro ai cui fantasmi si annulla.
Come già quello della Silja, anche quello della Denoke è un declamato atipico rispetto alla tradizione wagner-straussiana; vi si ritrovano le tinte fluorescenti e lunari, ma impreziosite nel suo caso da alleggerimenti trasognati. Sugli acuti le manca, è vero, la propulsione che rendeva apocalittico il finale della Silja; il medium in compenso diffonde velluti e fragranze di calorosa umanità oltre che di un vero magnetismo sessuale.
Il suo canto, strano, seducente e irregolare, pare fatto apposta per valorizzare questa scrittura; ogni parola si accende di allusioni, contraddizioni e presagi. Tanto l’espressione, quanto l’accento comunicano una costernazione silenziosa e rinunciataria, senza sarcasmi o rivolte, in cui – nonostante la forza tragica e l’erotismo esplosivo – prevale un’inflessione irrimediabilmente vinta, disarmata, sopraffatta dall’inutilità della lotta.
Il fragoroso successo di Angela Denoke segna uno step da cui non è possibile tornare indietro; alla nuova fisionomia del personaggio si dovranno attenere le prossime scritture.
È tramontata l’era delle primedonne fastose, dispotiche e “âgées”: e infatti le interpreti di oggi hanno i corpi atletici, le voci roche e sensuali, il maquillage aggressivo di Nina Warren (l’ultima delle americane), di Anna-Katharina Behnke e Gun-Brit Barkmin (i più recenti fiori della serra tedesca) o ancora di Morenike Fadayomi, flessuosa pantera inglese-nigeriana, che pare uscita da uno spy-movie tecnologico.
Da chi si attende la prossima rivelazione? Dalla Herlitzius? Dalla Delunsch (che sarebbe la prima francese dai tempi di Suzanne Sarroca)? Dalla Nagelstad?
O addirittura da quella meravigliosa “Maggie Smith della lirica” che è Dame Felicity Lott (che rinverdirebbe il capitolo “inglese” fondendolo all’eredità Söderström)?
Personalmente è da Nadja Michael che mi aspetto la prossima sterzata di questopersonaggio splendido, a cui le artiste che abbiamo ricordato hanno contribuito a insufflare, meglio di qualsiasi elisir, un piccolo supplemento di eternità.
Matteo Marazzi