Backstage: Tendenze e manierismi: Hansel e Gretel al Covent Garden
Aggiunto il 23 Dicembre, 2008
Un tema spesso affrontato nel nostro sito è quello del “provincialismo” delle programmazioni teatrali, provincialismo che - ben più e ben prima dei tagli al FUS - ha posto l'Italia fuori dei grandi circuiti dell'interpretazione operistica.
Mi piacerebbe tornare sulla questione per tentare di definirla meglio e anche per sgombrare il campo dal malinteso - alimentato polemicamente da alcuni accaniti lettori di Operadisc - che le nostre critiche al provincialismo italiano siano dovute a snobismo ed esterofilia.
L’espressione “provincia” non va intesa – è abbastanza ovvio – in senso geografico o economico e tantomeno con stupideria "esterofoba".
La storia dell'Opera dimostra che si può essere in mezzo al deserto, disporre di sovvenzioni limitate e nondimeno divenire epicentro delle tendenze più originali e vincenti. Il Festival di Aix-en-Provence, ad esempio, nacque fra le macerie post-belliche nella più decentrata periferia francese, appoggiandosi economicamente al Casinò della città; eppure, al confronto delle sue avanzatissime programmazioni, era l'Opéra di Parigi di allora a essere provincia.
Proprio la Parigi pre-Liebermann dimostra che - al contrario - vi sono teatri di antica storia, siti in megalopoli ricchissime e nondimeno finiti ai margini del mondo operistico; questi teatri sono "provinciali" perché non lanciano tendenze, non contribuiscono ad arricchire la storia dell’opera, ma si limitano a gravare - sclerotizzandole - sulle tradizioni consolidate, senza troppi rischi e senza troppa fatica.
Le tradizioni, intendiamoci, sono una gran cosa: senza di loro - che ci tramandano conquiste accumulate nei secoli - non ci sarebbe la nostra civiltà.
È tale la loro autorevolezza che gli animi semplici ne sono atterriti: vorrebbero assumerle come definitive e armarsi come dei Don Quichotte contro ogni blasfemo impulso di cambiamento. Paradossalmente è proprio a causa di questi sedicenti “difensori” che letradizioni declinano: esse infatti non sono divenute tali per investitura divina, ma per l’ininterrotta opera di aggiornamento, sviluppo ed evoluzione cui sono state sottoposte, generazione dopo generazione, secolo dopo secolo, società dopo società.
Se non è continuamente alimentata dall’ossigeno di nuove idee e tendenze, se non è continuamente “potata” di quei rami che col tempo si sono seccati (non importa quanto gloriosi siano stati in passato), la tradizione si spegne.
Anche le tradizioni operistiche sono in continua evoluzione (è per questo che sopravvivono) e ciò si deve a quei teatri "non provinciali" che sanno accogliere, sperimentare e promuovere le nuove tendenze dell'interpretazione.
Essendo il mondo dell'opera una "rete", le nuove idee tenderanno a diffondersi; dapprima raggiungeranno i centri più avanzati e brillanti, infine – stagione dopo stagione – si spingeranno fino alla "provincia".
Ci possono volere lustri perché il cammino si compia (anche decenni nel caso dell'Italia) e non sarà un cammino indolore. E' infatti noto che ogni nuova tendenza esaurisce in fretta l'impulso iniziale.
La divulgazione (stampa, riviste, canali satellitari, cd e dvd) ne compromette la capacità di sorprendere. Il grande pubblico, nell'accettarla, finisce per omologarla alle proprio consuetudini. Poi naturalmente c'è l'azione del tempo: col mutare delle condizioni storiche, le idee che erano alla base di una tendenza svaporano, lasciando solo la carcassa.
Gli stessi interpreti contribuiscono molto efficacemente alla sclerotizzazione delle novità; non appena una tendenza avrà raggunto il successo, essi cominceranno a emularne gli effetti, cristallizzandoli in “stilemi", replicandoli meccanicamente - nei piccoli e grandi teatri della "provincia" - fino alla completa consunzione.
Ne consegue che solo il pubblico dei primi "snodi" può apprezzare davvero una novità interpretativa, non quello che - per il provincialismo delleprogrammazioni - ci arriverà con un ritardo di dieci o quindici anni, quando la tendenza si è già trasformata in "maniera".
Il "non provincialismo" di un teatro si vede dunque non solo dal saper cogliere una tendenza vincente proprio nel momento in cui nasce, ma anche dal sapervi rinunciare, nonostante il successo, quando ha esaurito la sua forza vitale.
L’esempio che vorrei sottoporvi è freschissimo. Si tratta di una corrente interpretativa nata in Inghilterra e riguardante un’opera ben precisa: l’Hansel und Gretel (1893) favola musicale che Engelbert Humperdinck trasse dai fratelli Grimm, appoggiandosi alle rivoluzioni linguistiche di Wagner.
Da tradizione quest'opera molto famosa viene allestita (giustamente) come favola; ancora oggi in molti teatri tedeschi capita di vederla a Natale rivolta alle famiglie e realizzata con linguaggio per bambini, costumi e scenografie naif, comicità semplice, ariosa ed edificante. Forse è proprio a causa della destinazione al pubblico dei più piccoli che il capolavoro di Humperdinck non è praticato dall’appassionato d’opera quanto la sua fama lascerebbe credere.
Una ventina di anni fa all'English National Opera di Londra il regista David Pountney ne firmò un importante allestimento; il taglio era sempre per bambini ma l’esposizione e i simboli presentavano una lucidità diversa, più aggressiva.
Fu Pountney ad approntare, in quell’occasione, una traduzione inglese del libretto (come è prassi all'ENO) che qualcuno giudicò fin troppo aspra.
Quella produzione fu il "prolegomenon" della tendenza di cui ci occupiamo, tendenza che sarebbe esplosa diversi anni dopo, quando la Welsh National Opera affidò un nuovo Hansel e Gretel al grande regista Richard Jones (1998).
Lo spirito di Pountney aleggiava sulla produzione, tanto che fu usata la sua stessa traduzione; e tuttavia Jones si spinse molto più in là nell’emancipazione dell’opera dai modi della favola. Non solo esasperòle drammatiche radici della vicenda (la fame, la paura, la solitudine), non solo ne aggiornò il contesto, ma soprattutto – qui sta la novità - vi scatenò un umorismo "noir", acre e dissacratorio, con ammiccamenti al linguaggio dell'horror e uno stile più da fratelli Coen che da fratelli Grimm.
La stampa inglese è impazzita, le presenze a teatro sono state da record, decine di repliche e revivals si sono susseguiti stagione dopo stagione.
La favola in chiave “noir” di Richard Jones, corrosiva e dissacrante, rivolta più agli adulti che ai bambini, si è rivelata un successo talmente clamoroso da inaugurare una nuova “tendenza”; la produzione del WNO è immediatamente approdata negli USA (Lyric Opera di Chicago e Metropolitan); le televisioni inglesi e americane l'hanno divulgata via etere; di quest'anno, infine, è la pubblicazione in DVD della ripresa al Met, serata magica a cui ho assistito dal vivo.
La prima fase di una tendenza è, come si diceva, la più vitale: tutto è ancora fluido ed entusiastico; il pubblico è al massimo della curiosità e gli artisti hanno ancora modo di contribuirvi liberamente, dando fondo alla propria creatività
Ed è così che l’estate scorsa il Festival di Glyndebourne ha annunciato la sua nuova produzione di Hansel e Gretel (opera che non mai stata presentata in quel teatro: potere di una tendenza).
Al timone dell’allestimento è stato chiamato il celebre Laurent Pelly, il più accreditato e salace narratore di commedie operistiche del panorama attuale, e così l'elemento identificativo della tendenza (l'umorismo "noir" della regia, la contestualizzazione moderna) è stato rispettato: le riviste di tutto il mondo hanno divulgato le immagini di una casetta di Marzapane ricollocata in un supermercato, rigurgitante di scatolette e signoreggiato da un’enorme e volgare strega-cassiera.
Nel frattempo anche il Covent Garden (dove l’Hansel non era più rappresentato dal 1937) è sceso in campo, forte dellasua autorità, mettendo in cantiere una nuova produzione dell’opera, presentata con squilli di tromba come il fiore all'occhiello della stagione invernale (e proiettata in diretta nei cinema di mezzo mondo).
Inutile dire che al centro dell’operazione sono stati posti due registi considerati "scomodi", amanti della provocazione, come Moshe Leiser e Patrice Caurier, proprio per questo ideali (in teoria) a raccogliere il testimone di Pountney, Jones e Pelly.
Le trombe pubblicistiche del Covent Garden dimostrano che la tendenza è ormai arrivata al vertice del successo: nei prossimi anni sarà impossibile vedere un'Hansel e Gretel che ad essa non si ispiri più o meno direttamente; e tuttavia proprio quest’ultima attesissima produzione lascia filtrare i primi allarmanti segni di sclerotizzazione.
Il primo errore della Royal Opera è stato quello di affidare la parte musicale a Sir Colin Davis, che – intendiamoci – è un grandissimo interprete, ma che non c’entra nulla con le ragioni della produzione e della tendenza a cui aderisce. Ci sarebbe voluta una personalità più giovane e disincantata come Jurowski al WNO e al Met, come e Ono a Glyndebourne. Ci sarebbe voluto un Minkowski, un Salonen, magari un Rattle, insomma qualcuno che possa condividere l'umorismo e la novità della tendenza.
Per Davis quest'opera non sarà mai altro che una favola tutta tenerezze crepuscolari e incantesimi di boschi. La sua forbitezza nel gestire equilibri timbrici e architettonici, la grazia "domestica" del suo modo di narrare, la tipica riservatezza emotiva... tutto questo lo mette in contrasto alle ragioni della tendenza.
E non c'è idea operistica che possa funzionare senza la ferrea complicità tra fossa e palcoscenico.
Il secondo errore della Royal Opera (questa volta non concettuale, ma pratico) è stato proprio quello di affidarsi a Leiser e Caurier.
Come stile – l’abbiamo detto – vanno bene. Come statura artistica no.
Sonovalidi professionisti, che portano a casa le serate, ma mancano dell'autorità di un capo-fila e dell'intuito di un pioniere.
E quando una tendenza - come questa - è ancora così fresca, c'è bisogno di personalità infinitamente più incisive.
Spinti dalla loro stessa inadeguatezza, non hanno trovato di meglio che annullarsi di fronte alla lezione di Jones.
Fin dall'apertura del sipario, nelle ultime note dell'ouverture, ci appare la stanzetta di Hansel e Gretel più piccola del boccascena, incassata in esso: stessa cosa nello spettacolo di Jones.
Durante il duetto – quando i bambini giocano ballando - la Damrau e la Kirchschlager si scatenano in passi da discoteca: effetto delizioso, peccato che la stessa cosa avesse fatto Jones.
La foresta al Covent Garden è una camera prospettica sulle cui pareti sono dipinte immagini di un bosco; proprio come nel salone della villa immaginata da Jones, con le carte da parati che raffiguravano fogliame e piante.
Al postludio del secondo la scena dovrebbe descrivere il sonno dei bambini sperduti nel bosco, vegliati da fate e altre creature magiche.
Richard Jones aveva risolto il tutto inventandosi un sogno “mangereccio” in cui i bambini, lacerati dalla fame, si immaginavano cuochi enormi intenti a imbandire per loro una tavola ricolma di leccornie.
Pur con l’aggiunta di una scontata noticina “natalizia”, Caurier e Leiser fanno esattamente la stessa cosa: Hansel e Gretel sognano il salotto di casa, con mamma e papà che regalano loro un succulento tramezzino. Per inciso, sono vegliati da uomini in frac bianco con la testa di scoiattolo!
Con Jones erano in frac nero e avevano la testa di pesce.
Insomma, lo spettacolo di Caurier e Leiser si risolve in un ricalco, peraltro molto inferiore anche tecnicamente all'originale.
Non resta che aspettare il finale dell'opera, a cui Jones aveva riservato l'effetto-choc più eclatante e spaventoso: nella casettadi Marzapane – una cucina dal grande tavolone centrale e i forni industriali che ritroveremo pari pari a Londra – la fine della storia consisteva nell'esumazione del cadavere della strega – cotto a puntino e fumante – sul quale si avventano i bambini per mangiarselo.
Volete scommettere? Avete vinto!
Stesso identico finale nella regia di Caurier e Leiser.
Ora, io capisco che chi non ha visto Richard Jones possa trovare l'allestimento di Londra forte e persuasivo. Gli stessi Caurier e Leiser, con le loro dichiarazioni alla stampa, si erano dati le arie da coraggiosissimi liberi pensatori (“noi non aggiungeremo zucchero alla zucchero”, “il teatro non è luogo per le favole rassicuranti”); la stessa Royal Opera aveva rincarato la dose sconsigliando l'ingresso a bimbi troppo piccoli. E invece, alla faccia di simili premesse, ci è toccato un compitino scopiazzato, compitino a cui, per essere onesti, non mancava una certa coerenza, una certa godibilità, un buon dominio tecnico. Alcune scene meritano persino di essere ricordate, come il bosco in movimento e lo spassoso effetto “splatter” (in stile “Non aprite quella porta”) dell’armadio della strega contenente i cadaveri penzoloni dei bambini già sacrificati. In un altro contesto avrei detto che era una buona regia, efficiente se non originale; ma in questa fase – a tendenza appena partita – è un’imperdonabile battuta d’arresto, l'inizio della "provincializzazione".
Stesso discorso sul trattamento dei personaggi, nel quale tuttavia si è colta una maggiore libertà rispetto al modello.
Se per Jones e Pelly la definizione anche sociale (e vagamente parodistica) dei personaggi è uno strumento necessario alla ricontestualizzazione, per Caurier e Leiser è solo un modo per fare “gags”. E nulla è più "manieristico" di risolvere i personaggi in caricature.
Prendiamo il caso di Gertude e Peter, i genitori.
In teoria lei sarebbe una tipica mamma delle favole, intimamente dolce,severa per disperazione; lui invece è il buon padre di famiglia da villaggio tedesco, semplice di valori, buono di cuore, dagli affetti elementari e sani.
Oggi tali personaggi possono apparire troppo ingenui ed è quindi normale che i registi della tendenza "noir" li mettano un poco alla berlina.
E tuttavia se ci si limita a trasformarli in macchiette (alle quali per definizione non si crede) tutta la narrazione ne risulterà indebolita.
Ma Caurier e Leiser – da bravi manieristi – si interessano più all’effetto momentaneo che al risultato.
E così Gertrude diventa una trasandata casalinga da piccolo proletariato, grassa e dimessa, nevrastenica nell'aggredire i figli, pronta – nonostante l'assoluta mancanza di appeal – a far sesso col marito ...sul lettino di Gretel!
Peter invece è un perdente suburbano di mezza età, pessimo padre e pessimo marito, ubriacone, millantatore, forse nemmeno consapevole della propria grottesca inettitudine.
Fortunatamente sul palco vi sono due delle maggiori personalità della scena britannica, Elisabeth Connell e Thomas Allen.
Lui - un poco indurito vocalmente ma eloquentissimo per accenti e sfumature - scova nel canto e nello sguardo quella tenerezza docile e disarmata che era stata del suo Billy Budd; lei è ancora capace di alternare i sussurri lamentosi a bordate all'acuto che ci ricordano l' Elektra che è stata.
Un po' alla volta il pubblico dimentica la banalizzazione registica e finisce per credere a questi due malinconici vecchi, ai loro sguardi ancora da ragazzi e alla mano che si tendono sopra la comune desolazione.
Purtroppo non va altrettanto bene col personaggio della strega, a cui Caurier e Leiser hanno riservato la caricaturizzazione più radicale. Per loro non è altro che una repellente vecchiaccia da geriatria, una ex-Barbie che l'età non ha convinto a dismettere trucchi, calze colorate e collane ciondolanti sull'impietosa scollatura. Disprezzata dalmondo e da se stessa, questa ridicola carcassa si trasforma in “serial killer" di adolescenti, dopo aver inutilmente cercato di sedurli (ci proverà anche con Hansel).
L'idea non è male, a patto di non limitarsi a una sequela di buffonerie sgangherate. E a patto di disporre di un'interprete adatta alle caricature.
Ora, se qualcosa non appartiene ad Anja Silja - il cui debutto nel ruolo era l'avvenimento della produzione - è proprio il gusto del grottesco; se qualcosa non rientra nel suo bagaglio d’artista è la capacità di connotare, in tre zampate, un ruolo di carattere.
Ne avevo avuto sentore con la sua Herodias (uno dei pochissimi personaggi in cui la Silja abbia tentato la carta della caratterista); ne ho la conferma oggi dopo questa non indimenticabile strega.
La grandezza della Silja della “seconda carriera” (e lo sa bene chi come me correva negli anni '90 fra Bruxelles, Zurigo e Parigi per ascoltarne i miracoli) sta nella dignità, sobrietà e compostezza che ha imposto alle donne mature del repertorio novecentesco, cambiandone il volto per sempre.
Fu lei a sottrarle alle tradizionali "caratteriste", le antiche primedonne dal "fare grande" e dalle zampate fastose, da cui il pubblico si aspettava le più enfatiche e clamorose esternazioni (la Moedl, la Olivero, la Varnay).
Fu lei a ricondurre queste madri, nutrici, maghe e dive senza età al respiro di personaggi profondamente umani e interiorizzati; fu sempre lei a bandire le tradizionali “zampate” sostituendole con una gestualità misuratissima, un declamato sottile e uno sguardo freddo, altero, dall’azzurro glaciale.
Come può ora, la stessa Silja trasformarsi a sua volta in una caricatura?
Appena entra in scena si resta ammirati dal suo trasformismo: lei alta, magra, dalla postura regale (un tempo nota per la sua bellezza), si mostra qui grassa, ingobbita e zoppicante, appoggiata a un deambulatore, truccata con volgarità, con i capelli ossigenati “incasa” (come dimostra l’improvvida strisciata rossa dietro la nuca), infagottata in un maglione azzurro da cui prorompono le sagome di seni enormi.
L'impatto è notevole; ma il problema degli "impatti" è che durano poco. Poi ci si aspetta che il personaggio decolli...
Ci sono stati, è vero, momenti di grande efficacia, come quando la strega recita i suoi rituali (“hocus pocus”) ad occhi sbarrati, illuminata da una luce rossa, con una smorfia spaventosa; o durante la ballata, quando vortica per il palco come un uragano, saettando acuti e risate diaboliche.
Ma in generale si resta con la propria fame e la sensazione, più che di un personaggio, di una vignetta da Settimana Enigmistica.
C'è poi la questione vocale.
Ancora una volta sono costretto a rimarcare la grave inadeguatezza della cantante, non imputabile – come per la Contessa a Vienna – a problemi di tessitura, bensì ad incompatibilità tecnica.
Benché talora affidata a espressioniste e wagneriane, la Knusperhexe è pane per vocaliste, non per declamatrici: all'inizio è un susseguirsi di frasi cantabili, svolazzi melismatici e agilità; successivamente è una girandola di sillabati, ritmi vorticosi e salti all'acuto degni di una cabaletta.
Nella sua vocalità si coglie l'ironia del wagneriano Humperdinck, che affidò un ruolo da strega a un soprano virtuoso da melodramma italiano.
Bene. Se c'è qualcosa che la tecnica della Silja non ha mai contemplato (nemmeno quando giovanissima cantava Violetta e Kostanze) è il vocalismo.
La sua è sempre stata un'emissione declamatoria, straordinaria nelle proiezioni sillabiche e nell'esaltazione della parola, ma limitata nella dinamica e ribelle alla linearità del fraseggio. Oggi per di più la voce è intaccata da un'oscillazione ingovernabile e il registro centrale si è irrimediabilmente offuscato.
E' auspicabile che per il suo ritiro dalle scene – a cui non dovrebbe mancare molto – la grande Silja scelga isuoi ruoli con maggiore oculatezza.
Resta da parlare delle due protagoniste, molto più interessanti vocalmente che drammaturgicamente. Ciò è dovuto anche al fatto che Caurier e Leiser, non essendo riusciti a caricaturizzare anche i loro personaggi, le hanno abbandonate al consueto repertorio di gesti puerili, saltelli sciocchi ed espressioni imbambolate.
Ciò deve aver rincuorato Colin Davis che infatti ha dedicato ai loro duetti il meglio della sua direzione: impalpabili morbidezze d'archi, ritmi lenti e cullanti, un fraseggiare arioso e nostaglico con punte di vera elegia al secondo atto.
Diana Damrau si conferma una delle voci più belle dell'attualità.
Il timbro al centro non è potente, ma liquido e suadente; in alto poi trova vibrazioni argentee. È inoltre un grande vocalista, generosa dispensatrice di filature e fraseggi dalla linea violinistica.
Resta il sospetto, tuttavia, che non abbia ancora compiuto il salto che separa l'eccellente esecutore dal vero interprete.
Angelica Kirchschlager dovrebbe risultare più varia e stimolante in teoria; in pratica Hansel è un personaggio scomodo anche per lei.
Per ravvivarlo non basta essere esperti di eroi “en travesti”, dal momento che Hansel non è un giovane uomo come Oktavian o Idamante, nè un angelo-confidente come Niklausse; è solo un ragazzino in bilico fra i capricci dell'infanzia e i calori dell'adolescenza, risolto per giunta con convenzionalità e distacco dallo stesso Humperdinck. Che la Kirchschlager sia brava non ci piove, che canti e reciti con proprietà e calore è indubbio; ma se l'obbiettivo è quello di far credere al personaggio, allora la meta è lontana: davanti a noi c'è la solita bella cantante con uno strano vestito da maschietto.
Matteo Marazzi