Backstage: La Turandot di Robert Carsen
Aggiunto il 08 Ottobre, 2008
Anversa, Vlaamse Opera, 17 settembre 2008
Sono passati sedici anni da quando Carsen allestì all’Opera delle Fiandre la sua Turandot.
Al regista canadese la Vlaamse Opera aveva affidato due cicli, uno su Puccini (Manon Lescaut 1991, Turandot 1992, Madama Butterfly 2000, Bohème 2001, Fanciulla del West 2002, Tosca 2004) e uno su Janacek (Jenufa 1999, Piccola Volpe Astuta 2001, Kata Kabanowa 2004)
Alcune di queste produzioni hanno fatto il giro d’Europa; altre sono rimaste lì, nella piovosa Gent o ad Anversa, sulle rive della Schelda, come fiori da ammirare solo nell’ habitat originale.
Turandot è fra questi: dalla sua creazione è stata eseguita – oltre che nelle Fiandre – solo a Mannheim. Per vederla siamo dunque andati, col Wanderer, fino ad Anversa.
Ed è questa la ragione per cui nel presente ricordo non parlerò del cast (un’imperiosa Elisabete Matos come protagonista, il Calaf di Todorovich musicale ed espressivo ma totalmente privo di acuti, una vellutata e persuasiva Kekyte come Liù), né della brillante e curata direzione d’orchestra (Patrick Fournillier). Non è per loro che siamo andati ad Anversa; e non è per loro che – chi vorrà – leggerà queste mie note.
Turandot rientra fa quelle opere ciclopiche che Carsen si divertito a far implodere.
La ricetta è semplice: si prende un classico di drammaturgia fastosa, dagli orizzonti dilatati ed esotici e dalle proporzioni importanti; quindi lo si comprime fino a ridurlo all’intimo di tensioni domestiche che ogni uomo e ogni donna affrontano quotidianamente.
Ricondotto all’infinitamente grande e infinitamente piccolo di una camera da letto, tutto l’armamentario di sfarzo scenotecnico e melodrammatico insito in questi testi si carica di vita, di leggerezza, sentimento e ironia.
La Rusalka di Carsen era così: la favola di ogni ragazza che diviene donna; era così la Donna senz’ombra a Vienna, era così il Sogno di Britten a Aix.
Lacamera da letto è luogo di sintesi e di scontri ben più distruttivi, per Carsen, dei campi di battaglia dell’Epica. Le guerre degli eroi sono infatti riferite a momenti storci precisi; al contrario in una camera dal tetto si consuma una lotta ultramillenaria, in cui le forze in campo condividono dall’alba dei tempi ostilità e attrazione, istinto di sopraffazione e necessità l’una dell’altra.
Ed è per questo che il Mandarino, all’inizio della rappresentazione, nell’elencare le “regole del gioco” della guerra a cui stiamo per assistere, indica i mobili di una camera da letto, presentati in scena come fossero i personaggi: un armadio, una sedia, un letto, tutti di legno lucido e nero.
Loro tre (l'armadio, la sedia, il letto) saranno i protagonisti della rappresentazione.
“La legge è questa”
La prima parte della vicenda si consuma all’ombra dell’armadio, un armadio spropositato, gigantesco, un totem spaventoso che si staglia sullo sfondo, nero e carico di mistero. Misterioso è ciò che racchiude, misterioso è il destino di chi vi verrà rinchiuso.
Siamo nel regno della sessualità, nero e attirante, dominato da Turandot.
Non ci sono teste che cadono o servi del boia, ma solo uomini e donne in abiti notturni, rigorosamente neri (sottoveste per le donne, canottiere per gli uomini); gli uomini disarmati e sovrastati, le donne dominatrici, padrone di sé, nel loro territorio, rese più forti dalla presenza incombente del loro simbolo (l’armadio) che come loro accoglie, chiude e nasconde.
Tutti gli uomini sono uguali, sono la copia dello stesso uomo; tutte le donne sono uguali, la copia della stessa donna.
Ed è questo il vecchio stilema registico che definii di “moltiplicazione dell’individuo” (vecchio oggi, un po’ meno nel ’92). Il personaggio descritto dal coro è uno solo, riprodotto all’infinito, in un’infinita serie di corpi che fanno gli stessi gesti, sono la stessa cosa, come in un dialogo di specchi.
Tutte le donne sono una donna: la donna.
Quando il coro invoca Turandot (“la grazia! principessa!”), le coriste strette al centro della scena si allontanano le une dalle altre, e dal mezzo del loro gruppo appare Turandot, vestita come le altre, in sottoveste nera.
La stessa cosa era avvenuta pochi minuti prima, quando il coro maschile, raggruppato al centro, si era aperto, lasciando apparire, completamente nudo, il principe di Persia.
Nessuna grazia per lui: la principessa crudele lo prenderà per mano e lo condurrà con sé dentro l’armadio; sul loro amplesso si chiudono le ante gigantesche.
Gli uomini e le donne del coro (cioè l’uomo e la donna della nostra storia) lottano per tutto l’atto, in un incredibile, travolgente contorcersi di corpi sincronizzati. E’ una coreografia diabolica, che trasforma gli inni tribali a Pu-tin-Pao in una guerra fra i sessi e i sussurri alla luna in un rito sacrificale: le coriste, disposte in fila, si passano un coltello una per una; l’ultima lo conficcherà nell’armadio (la ragione la scopriremo all’ultimo atto).
Non tutti i personaggi partecipano all’incastro di corpi e istinti selvaggi: Calaf, Timur e Liù hanno abiti e soprabiti normali (non biancheria intima) con la differenza che in essi il nero è mescolato al grigio e al bianco.
Si aggirano sgomenti in questa realtà di sesso e animalità. La osservano con l’orrore di persone socialmente integrate. Vorrebbero starne fuori.
Solo Calaf è rapito: assiste al sacrificio del principe di Persia, immolato alla sessualità di Turandot, inghiottito nell’oscurità dell’armadio, e fa la sua scelta.
Rinuncia alla donna sobria, civile e sobriamente vestita, quella con cui andare alle cene, da presentare agli amici.
E’ toccante l’effetto di Calaf e Timur che si allontanano, dando le spalle a Liù proprio mentre questa, inascoltata, rivolge a se stessa il si bemolle filato: “perché un dì nella reggia mi hai sorriso”.
Ad attrarlo è ora la stregona degli istinti oscuri, la regina dell’armadio, la donna in sottoveste nera.
Calaf raccoglie dunque la sfida: i tre colpi di gong risuonano mentre lui bussa per tre volte sul titanico armadio; l’orchestra intona il tema di Turandot e le ante del mobile si aprono lentamente, rovesciando sul pubblico la luce accecante di una fiamma che arde all’interno.
La sfida fra Calaf e Turandot sarà combattuta a un altro livello, un livello in cui l’uomo appare più a suo agio della donna. Non più il mondo nero, intimo, di suggestioni inconfessabili dell’armadio (la sessualità), ma quello delle istituzioni, delle convenzioni, della Società.
L’uomo tenta di imbrigliare il possente ascendente sessuale della donna in una formula legalizzata, istituzionalizzata, codificata, socialmente accettata: il matrimonio.
La donna si presenta in abito bianco da sposa (non solo Turandot, ma tutte le coriste); l’uomo a sua volta elegantissimo, da sposo (non solo Calaf, ma tutti i coristi).
Al centro della scena non c’è più l’armadio: ora si staglia sulla scena una seggiola nera, enorme e altera, il secondo simbolo-mobile.
A differenza dell’armadio, essa è sicura e riposante, nulla nasconde, nulla comprende; su di essa si può salire in piedi e rendersi ancora più visibili; o ci si può sedere come su un trono; o ci si possono appoggiare cose, alla vista di tutti.
Se l’armadio – caro a Turandot – chiudeva e occultava, la sedia – gradita a Calaf – esibisce e sostiene. E’ lei che ora il coro idolatra. È lei, l’immane sedia, l’Imperatore Altoum.
La voce dell’imperatore non è più affidata a un tenore, ma a vari e invisibili tenori del coro (prima uno, poi tre, poi sette).
Attorno alla sedia, in due file concentriche, si dispongono gli uomini e le donne del coro, tutti ovviamente seduti su altrettante piccole sedie nere, e ascoltano il monologo di Turandot, la bianchissima sposa, con la stessainespressiva compunzione con cui ascolterebbero l’omelia del sacerdote che sta celebrando le loro nozze.
Calaf, come è noto, vince la mano ma Turandot rilancia; si strappa di dosso il vestito da sposa, restando ancora una volta in sottoveste nera.
Una nuova sfida è lanciata e i cori festanti esplodono mentre Calaf, ormai solo in scena, si arrampica sulla sedia, e da lì si erge con la stessa forza che aveva avuto Turandot dentro il suo armadio.
I due universi (sessualità e socialità) non sono ancora in pace. Armadio e sedia sono opposti ed equivalenti; occorrerà metterli da parte entrambi e spostarsi su un terreno neutro, fatto per la mediazione e i compromessi, dove i due avversarsi possono affrontarsi ad armi pari.
Ed è così che nell’ultimo atto entra in scena l’atteso e immancabile letto matrimoniale. Esso mescola il nero del legno col bianco delle lenzuola: è l’ambito in cui è possibile il confronto.
E tuttavia il gigantesco letto che appare al terzo atto non lascia ancora presagire nulla di buono: è storto, in precario equilibrio, sembra stia per cadere. Prima che Calaf ci spieghi che quel letto è lì perché nessuno vi dorma (e non avevamo dubbi), alcune coriste sussurrano “così comanda Turandot” gettate in terra, di lato: in parte con la sottoveste nera, in parte vestite da sposa.
Ci vuole il sacrificio di Liù perché il nodo di sciolga: è Liù a rivelare a Turandot la via della sintesi.
Anche la “schiava” ora è in sottoveste come la principessa, ma la sua è una sottoveste bianca.
Speculari e simili (ma una bianca e l’altra nera), la donna “sociale” e quella “sessuale” si osservano dai lati opposti della scena. La linea ideale che le unisce è sottolineata da una fila di coriste; lentamente, cantando la sua aria, Liù avanza verso la principessa; nel frattempo le coriste si passano lentamente lo stesso coltello del primo atto. Quando Liù è a un passo da Turandot, l’ultima corista consegna ilcoltello alla principessa. La schiava allora prende le mani di lei e si conficca l’arma in petto.
La scena è di una bellezza visiva struggente, come è giusto: essendo quel sacrificio necessario alla risoluzione del problema, va enfatizzato. La donna “sociale” ha dimostrato all’alter-ego che la sintesi è possibile, purché se ne accetti il sacrificio, la rinuncia a una parte di sé.
Cala il sipario, cambia la scena e parte il finale (quello vero di Alfano, non quello a noi più familiare che Toscanini ha martoriato e Ricordi divulgato).
Ora usciamo dalle metafore e ritorniamo alla realtà: una normalissima camera da letto, con un letto nero, un armadio nero, una sedia nera appoggiata di lato, non più giganteschi e intimidatori ma a grandezza naturale. Ci sono un uomo e una donna (soli e non più circondati da mille replicanti) che sono lì per amarsi; ma la donna sta combattendo una lotta interiore, comune a tante donne come lei; ha paura di darsi, di uscire dalle confortevoli strategie del gioco sessuale, di ammettere ufficialmente il suo sentimento, perché sente che questo passo la costringerà a sacrificare una parte di sé, a ridimensionare la portata del suo ancestrale ascendente sull’uomo.
Si ribella, si ostina, vorrebbe allontanarsi… ma alla fine cede, capisce, conosce il “nome dello straniero”. La sintesi è raggiunta.
C’è voluta una dura lotta per arrivarci, ma cosa succede se ad essa ci si sottrae?
Ping, Pong, Pang ad esempio ritengono che la lotta sia evitabile: basta rinunciare alla coppia.
Lungo i tre atti, intervengono solo per tentare di convincere i protagonisti a scansare lo scontro.
Si può trovare l’equilibrio anche da soli, sembrano dire, e lo dimostrano; vestono un completo grigio – socialmente corretto – da cui però emergono (sopra la camicia e i pantaloni) la canottiera e le mutande. L’equilibrio di coppia (sessualità e socialità) se lo sono fatti in casa, da soli.
Laloro cameretta (letto, sedia, armadio) è a posto, in ordine; non è lacerata e scomposta da guerre intestine fra i vari mobili (ovviamente è una cameretta moltiplicata per tre: tre stanze uguali, una a fianco dell’altra).
E tuttavia il loro letto è a una sola, malinconica piazza.
E i loro armadi non contengono le selvagge pulsioni dell’istinto, ma raccoglitori da ufficio e Corn Flakes.
A loro, che hanno compiuto la scelta della solitudine, non resta che riordinare la ventiquattrore, spegnere il pc e affidarsi al conforto …dell’Honan.
Il loro esempio in negativo esalta ancora di più la positività della lotta a cui abbiamo assistito e che ogni coppia deve affrontare, per Carsen e Burton, al fine di trovare l’equilibrio fra la natura pre-razionale, pre-civile del desiderio e l'ufficialità anche sociale del sentimento.
Lo so anche io. E’ una storia semplice, ingenua direi, per tutti; è lontanissima dalle speculazioni concettose e impiastrate di ideologia dei registi impegnati della vecchia guardia.
Il bello di questa storia è tutto nella sapienza con cui ci viene porta, nella fantasia da pifferaio magico con cui Robert Carsen la sa raccontare.
Al finale dell’opera, non solo Turandot (ora in uno sgargiante costume rosso), ma persino il coro si leva finalmente quei vestiti tutti bianchi e neri; ognuno viene ora alla ribalta con abiti colorati, casual, tutti diversi. La ritrovata armonia fra i due lati dell’amore diviene, agli occhi di Carsen e ai nostri, una ricomposizione di tutti gli equilibri del mondo.
Matteo Marazzi