Backstage: Frau ohne Schatten at De Nederlandse Opera
Aggiunto il 26 Settembre, 2008
De Nederlandse Opera
Muziektheater Amsterdam
1 - 5 – 9 – 12 - 16 - 20 – 23 – 28 settembre 2008
Richard Strauss
Die Frau ohne schatten
Libretto: Hugo von Hoffmanstahl
L’Imperatore – Klaus Florian Vogt
L’Imperatrice – Gabriel Fontana
La nutrice – Doris Soffel
Il messaggero degli spiriti – Peteris Eglitis
Barak, il tintore – Terje Stensvold
Sua Moglie – Evelyn Herlitzius
Scene e costumi
Marc Albrecht
Regia
Andreas Homoki
Nederland Philharmonisch Orkest
Direttore
Marc Albrecht
Non c’è dubbio. Frau ohne Schatten è un’opera complicata. Non solo il narrare per simboli è una costante di tutto il teatro di Hoffmanstahl, ma nella Frau –dichiaratamente una sintesi di idee elaborate per tutta una vita- questa pratica viene radicalizzata. Non abbiamo quindi una storia che, volendo, può anche essere letta in chiave simbolica (tipo Il Ring o Pelléas o Turandot); al contrario abbiamo una serie di “simboli” che, combinati tra loro, “fanno” la storia. La comprensione del “simbolo” diventa quindi una condizione necessaria per dare plausibilità a una vicenda che altrimenti può anche apparire priva di logica narrativa e teatrale.
Per un regista si tratta di una sfida stimolante ma pericolosa. E’ molto facile abbandonarsi alle mille affascinanti derive che un tale testo suggerisce. E’ anche molto facile (come è successo ad esempio a Kupfer sempre ad Amsterdam) intricare ulteriormente una matassa di per sé sufficientemente complessa. Con opere del genere, nel tentativo di voler dir troppo si corre il rischio di non dire niente.
Andreas Omoki (classe 1960, direttore della Komische Opera di Berlino e dal 2012 Sovrintendent di Zurigo) ha scelto la strada della chiarezza e della semplicità. Questo spiega il successo di un allestimento nato nel lontano 1992 a Ginevra con la direzione di Horst Stein e che da allora ha praticamente fatto ilgiro dell’Europa.
Omoki opta per un’ambientazione astratta e, complici le meravigliose scenografie di Gussmann, sceglie cinque colori ricorrenti per definire i personaggi e gli ambienti.
Il palcoscenico è vuoto. Vediamo solo due fiancate convergenti il cui vertice si perde in una misteriosa oscurità: un buco nero, un niente, un’antimateria dove tutto comincia e tutto finisce. Queste pareti sono bianche con misteriosi geroglifici neri; è il segno visivo del regno di Keikobad e dei suoi sudditi. Nello spazio circoscritto da queste pareti tutto è luminoso e trasparente; nessun personaggio proietta ombre. Keikobad non ha corpo; è solo una gigantesca sfera ricoperta degli stessi geroglifici che intarsiano le pareti. Nel terzo atto, quando l’Imperatrice è alla presenza del padre, il lento ondeggiare della sfera sulle struggenti note del violino solista trasmettono un senso di tenerezza esausta, di candore e di dolcezza assolutamente indimenticabili.
Il blu e il rosso rappresentano invece il mondo dell’Imperatore. Il rosso è il colore del sangue del Falco e della carnalità che trascina verso la terra la coppia reale. Durante il monologo dell’Imperatore al secondo atto la scena è ingombra da gigantesche frecce rosse, con la punta rivolta verso il basso, che sembrano chiudere il personaggio in una gabbia.
Il giallo è riservato invece al mondo terreno in cui vivono Barak, la Moglie e l’annessa corte dei miracoli. E’ un giallo carico, violento, anche un po’ sporco e volgare: è il mondo del sudore, della fatica, del quotidiano.
Tutta la regia è praticamente costruita su questa idea, diciamo così, grafica e sulle interazioni coloristiche dei personaggi con la scenografia. Non nego che un’impostazione del genere, nel suo schematismo, possa anche apparire riduttiva. Devo però ammettere che la semplicità espositiva di Omoki, il narrare senza fronzoli, il giocare con i colori in sorprendente e rigorosa sintonia con la mutevole orchestrazionestraussiana hanno un fascino singolare e convincente.
Per quanto riguarda la parte musicale mi preme sottolineare la splendida direzione di Albrecht, qui al suo debutto all’Opera di Amsterdam. Alla testa di una sbalorditiva Nederlands Philharmonisch (le prime parti sono strepitose), il direttore olandese ha evitato tutte le trappole zarathustriane di quest’opera monstre offrendo una lettura priva di retorica, curata nei dettagli e equilibrata nei rapporti con il palcoscenico. La sintonia con quanto si vede in scena è pressoché perfetta. Le abbaglianti scelte cromatiche di Omoki-Gussmann trovano un contraltare dialettico ideale sia nei giganteschi climax orchestrali che Albrecht gestisce con ammirevole controllo sia nei frequenti passaggi cameristici, distillati con una chiarezza e una puntigliosità in grado di stare alla pari con quella raggiunta da Sinopoli con Dresda.
Strepitosa sia come attrice che come cantante, la Herlitzius entra in scena tutta chiusa in un abito dimesso (ovviamente giallo) con scarponcini massicci da ragazzina di liceo. Omoki la vuole donnino minuscolo, apparentemente fragile, oggetto delle attenzioni lascive dei fratelli di Barak. Man mano che l’azione procede il personaggio si trasforma e tutto l’ampio ventaglio espressivo della parte, dal dolore alla rabbia, dalla fragilità al rancore, dalla tenerezza al disinganno sono espresse senza mai ledere una linea vocale che si mantiene ferma, luminosa, abbagliante. L’Herlitzius si muove in questo allestimento con una disinvoltura, un senso dello spazio scenico, una consapevolezza nei gesti, una misura negli atteggiamenti tale da far quasi credere che tutta la produzione sia stata montata per lei. Non ho dubbi; questa grandissima artista è stata la più convincente moglie di Barak che io abbia incontrato nel mio cammino di appassionato. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
Meno bene Gabriele Fontana; cantante onnivora sullo stile della Studer, mostra notevoli difficoltànel sostenere le grandi arcate vocali dell’Imperatrice. Non mi riferisco solo ai pestiferi sovracuti che in fin dei conti sono solo note, bensì a un diffuso senso di disagio derivante da un continuo patteggiamento con le difficoltà della parte. Questo, purtroppo, le preclude una reale e convincente costruzione del personaggio. Nel terzo atto tira fuori un po’ di artigli e tutto sommato imbrocca con discreto piglio il solenne “Aus unsern Taten”. Però quando la linea melodica si apre al “Mit welchem Preis” le difficoltà nella respirazione appaiono evidenti e il senso di sforzo che si percepisce mortifica l’impeto liberatorio di questo straordinario momento musicale.
Vogt mi ha convinto solo parzialmente. Senza dubbio si tratta di un ottimo cantante: il timbro è luminoso, gli acuti sono facili e la musicalità di alto livello. Questo però non basta per sostenere una parte tanto breve quanto faticosa. Se nel finale III la scintillante voce di Vogt s’incastona perfettamente nell’orchestrazione fredda e luminosa di Strauss, nell’arioso di sortita del primo atto e, ancora peggio, nella seconda parte del monologo del Falco, Vogt mi è apparso come galleggiare in un parte troppo “ampia” per lui. E’ comunque una bella esperienza ascoltare questo ruolo, di solito liquidato sbrigativamente in chiave heldentenorile, in gola a un tenore lirico; il risultato è un Imperatore giovanile e vitale, forse un po’ asessuato, ma fin dalla prima scena, sorprendente.
La Soffel ha dalla sua un mestieraccio da declamatrice di forza e un discreto volume, ma la visione che offre della nutrice è la solita: stregonesca e grifagna, con tutto il campionario di effetti vocali (dal grido al rantolo) messi in bella mostra al fine di esprimere una terribilità spaventosa che invece si rivela solo di cartapesta. Nel terz’atto è completamente a disagio. Anche se aiutata dai tagli di tradizione che in pratica le dimezzano la parte, la Soffel si barcamena tra le mille infidie di uno dei ruolipiù difficili di tutto il repertorio lirico cercando di rimanere a galla. Sinceramente è stata la più deludente e incolore del cast.
Buono il Barak di Stensvold, seppure in più punti messo a margine, diresti quasi vampirizzato, dalla travolgente prova della Herlitzius.
Discrete le parti di fianco. Successo calorosissimo.
Maugham