Lunedì, 25 Novembre 2024

Backstage: Giuseppe Di Stefano

Aggiunto il 08 Marzo, 2008

Approfittando di uno di quei (sempre più rari) momenti di tranquillità mi sto ascoltando la storica registrazione della pucciniana Bohème dal Met del 1951. Accanto alla stella locale Bidù Sayao, a Giuseppe Valdengo e Cesarone Siepi canta, nei panni del tenore protagonista, l’immenso Giuseppe Di Stefano. Per capire cosa sia la prestazione di questo grandissimo protagonista, basta ascoltare la celestiale smorzatura di “…o giorni belli” in “Oh Mimì tu più non torni?” del IV quadro, col che si mettono automaticamente a tacere tutti i tenori passati, presenti e futuri. Nessuno escluso.
Certo, non è tutt’oro quello che luccica: la “Gelida manina”, per esempio, è cantata a squarciagola senza nemmeno un po’ di quel canto intimo che dovrebbe essere la cifra interpretativa più giusta di quest’opera. È vero che, all’epoca, il registro acuto di Pippo era ancora sostanzialmente integro per cui tutto passava abbastanza in secondo piano: ma le aperture voluttuose, nefandezza estrema per i puristi ancien régime, quelle erano già ampiamente presenti, e se già c’erano nel 1951 vuol dire che questa non era una necessità contingente, ma un disegno programmatico.
Ma che meraviglia di fraseggio! Che splendore in quel sorriso melanconico e soffuso sempre presente in frasi come “Dammi il braccio o mia piccina” e “Che m’ami, dì” (cui peraltro la Sayao risponde con buon gusto)! Quale appropriatezza di colori in ogni frase, al punto da far pensare a una totale simbiosi fra il cantante e il personaggio. È la stessa cosa che avevo riscontrato in un altro ruolo solo sfiorato da Di Stefano, Andrea Chènier, in una (per il vero) pessima recita fiorentina degli Anni Sessanta con Onelia Fineschi e Ugo Savarese, ma nella quale – pure – alcuni incisi dimostravano che qualche anno prima e con la voce integra sarebbe stato probabilmente lo Chènier di riferimento. Ma l’opera non si fa solo con intenzioni ed incisi: ci vuole anche la voce, e a quel punto Pippo non ne aveva più, oppure non asufficienza per venir fuori da un ruolo come questo.

Se ne sono dette di tutti i colori su questo grande cantante che ci ha lasciati qualche giorno fa.
L’accusa principale, ovviamente, è quella solita di avere avuto una carriera troppo breve per la scarsa ortodossia vocale.
Naturalmente qui farebbe gioco spiegare all’ignaro passante cosa si intende per ortodossia vocale: dovrebbe trattarsi di quella tecnica che permette al cantante di vocalizzare orgogliosamente sul fiato, con l’emissione perfettamente immascherata, in modo tale da soddisfare Garcia, il suo manuale e tutti gli eredi che non l’hanno letto, ma che hanno letto i manuali dei suoi interpreti.
Del fiato e della maschera, Di Stefano se n’è trionfalmente sbattuto, cercando invece il contatto col pubblico del quale ha sempre saputo percepire umori e,soprattutto, necessità.
Questa è la storia di un cantante eccezionale in tutto, eccessivo, che sapeva imporsi con la bellezza di una voce fra le più intrinsecamente “belle” della storia del teatro d’opera, e con un talento di interprete che lo rendeva padrone del palcoscenico e del pubblico.
Sono andato a rileggere le cose che avevamo scritto nel profilo a lui dedicato nella pagina dei cantanti storici, una di quelle iniziative di questo sito che sarà bene prima o poi riprendere. Oltre al bel profilo tracciato da Valerio Sirotti, c’è anche una frase che mi ero sentito di interpolare e che riporto perché (perdonate l’autocitazione) mi sembra che chiarisca al meglio le caratteristiche di questo cantante:

“L'impasto vocale, chiaro, limpido, smaltato, particolarmente evidente nelle primissime registrazioni HMV, richiama quello degli antichi tenori di grazia come Anselmi, rispetto ai quali vanta una maggior percussività che gli ha permesso le evoluzioni che sono state la cifra essenziale di una carriera ricca di contraddizioni. Già a partire dal celeberrimo Faust del Met (segnalato sopra nelladiscografia), accanto alle celestiali smorzature come quella del Do di "Salut, demeure" inizieranno a slatentizzarsi nel canto di Di Stefano anche alcune tensioni che non troveranno una giusta incanalatura nei canoni tradizionali, rendendo conto sia dell'eccezionalità di una carriera così particolare, sia delle accuse che sono state mosse al grande cantante. Rispetto a Gigli, dal cui ramo la vocalità di Di Stefano sembra discendere, vanta una maggior urgenza espressiva e una più evidente attualità interpretativa; per contro, è parimenti evidente una diversa tecnica fonatoria che ha portato a risultati affatto originali, del tutto inquadrabili nelle tendenze espressioniste proprie dell'epoca in cui il grande tenore ha dato il meglio di sé”

Ad onor del vero, oggi non mi sentirei più di sottoscrivere quella ipotetica “discendenza” di Pippo da Beniamino Gigli. Il gusto del tenore di Recanati era già vecchio negli Anni Venti, quelli in cui veniva definita la sua carriera: non ci può essere niente di più lontano da uno sperimentatore come Di Stefano. Oggi mi sentirei piuttosto di cercare nel gusto maramaldo e guascone di Caruso l’autorizzazione per Di Stefano ad osare quelle sperimentazioni che l’avrebbero portato ad essere il contraltare degli heldentenorismi di Del Monaco e Corelli, o della seriosità ben poco parmigiana di Bergonzi.
La solare espansione delle campate del tenore siciliano portavano finalmente il canto tenorile in un ambito che sarebbe dovuto essere suo di diritto: quello dell’eroe sorridente, del vero Principe Azzurro eroe senza macchia e senza paura, quel modello cioè che già dal decennio precedente, nel cinema, era veicolato da Cary Grant: virile, sorridente, ironico e anche un filino sprezzante.
A fronte di questo modello così incredibilmente bello (e tale era anche nell’aspetto fisico e nella presenza teatrale: ricordo che qualcuno mi raccontò che gli bastava togliersi un guanto sul palcoscenico per avere tutta l’albagiasorridente e predatoria del Duca di Mantova) ci stavano, almeno in Italia, il complessato Corelli, l’ipertrofico e muscolare Del Monaco e, un po’ più tardi, il placido e pacioso Bergonzi.
La gente – il pubblico, ovviamente – accettò di stare al gioco fregandosene altamente di tutte quelle seghe mentali che già si facevano i critici dell’epoca, i quali non si capacitavano del fatto che si potesse generare un fenomeno di queste proporzioni così avulso dalle regole del gioco. Questo sottile disgusto che sempre anima gli invidiosi di qualunque epoca che non accettano di derogare dai propri schemi prefissati per cercare di capire i fenomeni di massa, fa sì che tuttora i critici (italiani, ça va sans dire) e i loro epigoni di vario ordine e grado rifiutino appunto “in massa” il fenomeno, preferendo puntare il dito contro le mende vocali che, come noto, nelle loro teste costituiscono l’ubi consistam di ogni performance artistica in campo operistico.
Naturalmente, un modo di cantare così moderno, che faceva piazza pulita delle regole sino a quel momento acquisite e che guardava (non saprei dire quanto consapevolmente) a modelli esteri, principalmente francesi (Muratore e Vanzo), tedeschi e almeno un irlandese, un gigante che ancora oggi dovrebbe essere guardato con sacro rispetto come John McCormack, automaticamente configurava uno slittamento verso un espressionismo che sfruttava l’emissione aperta per quello che, a tutti gli effetti, dobbiamo considerare il primo vero esempio di espressionismo moderno esteso a tutti gli ambiti classici del repertorio tenorile italiano.
Ed ecco quindi un Edgardo di Ravenswood che abbandonava i languori troppo spesso scambiati per compostezza araldica, per riportare il personaggio nell’alveo originario del romanticismo da cui proveniva. Ma non era da meno il suo Arturo che, certo, mancava del fa4, ma in compenso dimostrava una nobiltà espressiva non disgiunta da un’emissione che, nei primi Anni Cinquanta, non eraancora così periclitante; e, a tutt’oggi, è ancora l’Arturo che ascolto più volentieri. Il suo Manrico avrebbe avuto assolutamente tutto per trasmettere quella gioventù febbricitante che ben pochi interpreti, successivamente, sono stati capaci di far percepire; e comunque, di sicuro non Corelli o Bergonzi. Cavaradossi, altro personaggio frequentato con molta pertinenza anche in sala di registrazione (e con mostri sacri come De Sabata e Karajan), acquisiva in bocca a lui risonanze suadenti e ricche – si sarebbe detto – di una compassione superiore per i dubbi e le angosce di Tosca. Il suo Canio perdeva la bava alla bocca di tanti interpreti (?) che pensavano solo alla logica verista, guadagnando invece un’amarezza disperata priva di ogni ampleur fastidiosamente ricercata; mentre il meglio del suo Turiddu deve essere ricercato nelle registrazioni live, in particolare quella scaligera con Giulietta Simionato.
Si potrebbe continuare a lungo nella disamina dei ruoli affrontati dal grande tenore siciliano, ma dopotutto forse non ne vale la pena, anche perché è uno di quei classici argomenti in cui, inevitabilmente, ognuno rimane del proprio parere. Io, peraltro, non ho nemmeno nessuna esigenza di far cambiare idea a chicchessia.
Per quanto mi riguarda, io tuttora mi metto in ginocchio di fronte a prodigi meravigliosi come quella smorzatura del do nel “Salut demeure chaste et pure” del Faust, quella che Rudolf Bing definì la nota più bella che avesse mai sentita. La semplicità straordinaria con cui viene emessa (Pippo ripetè il prodigio anche in un successivo recital a San Francisco) – secondo me – ci spiega ancora oggi, al di là di ogni polemica e alla faccia di chi si riempie la bocca di quella tecnica che dovrebbe essere il coperchio per tutte le pentole, la ragione per cui la voce di tenore è ancora forse il motivo principale per cui si discute di opera lirica.
Pietro Bagnoli

Categoria: Backstage

 

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