Backstage: Le due carriere di Régine Crespin
Aggiunto il 15 Luglio, 2007
La notizia della scomparsa di Regine Crespin mi riporta alla mente le pagine che, più di vent’anni fa, aveva dedicato alla paura della morte nella sua autobiografia (La vie et l’amour d’une femme). Nella seconda metà degli anni ’70, infatti, il soprano aveva dovuto affrontare lo spettro del male oscuro. Lei stessa racconta di aver trasferito le emozioni, le angosce, le solitudini provate in quell’occasione in uno dei suoi ultimi grandi personaggi: Madame de Croissy, prima priora dei Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc. A quel punto la Crespin era già nel pieno della sua “seconda” carriera, forse meno nota al pubblico italiano, ma altrettanto importante della precedente, e forse anche di più per certi versi.
Fra il debutto (1950) e la fine degli anni ’60, ritengo che la Crespin non abbia esplorato che una parte di sé, lasciando l’altra all’ombra della “diva” tradizionale che – straordinariamente, è vero – incarnò nei maggiori teatri del mondo.
Era approdata trentenne all’Opéra di Parigi dopo una lunga e trionfale gavetta nella provincia francese. Da Parigi fu proiettata alla gloria internazionale grazie a Bayreuth e Glyndebourne dove interpretò rispettivamente Kundry e la Marescialla.
Per tutti gli anni ‘60 la Crespin fu una delle voci più autorevoli e rappresentative del mondo dell’opera, contesa dalle maggiori case discografiche e dai teatri che contano (New York, dove fu adorata, Londra, Vienna, San Francisco, Buenos Aires, Milano) .
Da lei erompeva una sensualità maestosa, un calore eccitante ma aristocratico.
Il suo repertorio era quello tipico delle grandi “tragédiennes” da cui discendeva: la Caron, la Litvinne, la Hoerner e la Lubin. E’ ovvio che venisse scritturata in ruoli francesi, per i quali alla sua epoca non aveva rivali. Semmai c’è da lamentarsi che non ne cantò abbastanza.
Didone dei Troyens di Berlioz (presto affiancata da Cassandre) fu l’eroina prediletta. Tutti i pregi della cantante vi siesprimevano: l’eleganza classica, l’istintiva regalità, la vocazione al sospiro tragico e anche quel profumo di olivi e di brezze mediterranee che rende unico il suo timbro.
Altro ruolo determinante fu Iphigénie en Tauride, talmente esemplare nell’equilibrio fra distinzione stilistica ed emozione da far rimpiangere una maggiore assiduità col Gluck francese (almeno Armide e Alceste).
Il disco testimonia, in parte o in tutto, la grandezza della sua Penelope di Fauré (altra regina classica e mediterranea) e della sua Marguerite di Berlioz.
E’ lecito però chiedersi perché non sia approdata a Meyerbeer (Selika e Valentine), al Cid di Massenet o all’Ariane di Dukas, e come mai abbia appena sfiorato ruoli come Béatrice et Benedict di Berlioz, l’Herodiade e il Werther di Massenet o il Sigurd di Reyer.
Era troppo impegnata, forse, a cantare il repertorio tedesco e italiano (dove doveva competere con la Rysanek, la Nilsson e la Price, e col ricordo della Callas e della Schwarzkopf).
Di Wagner cantò assiduamente i personaggi da “juglendische dramatische”: Sieglinde (il suo rôle fétiche), Elisabetta, Elsa (che non amava) e Senta.
Per Karajan (e solo per lui) accettò di eseguire Brünnhilde della Valchiria in apertura del Festival di Pasqua. Fu probabilmente un errore, in considerazione dell’elevata tessitura del ruolo, mentre trionfale fu il suo incontro con Kundry.
Lei stessa racconta di essersi presentata davanti a Wieland Wagner per un’audizione. Con incredibile faccia tosta si esibì in arie wagneriane in traduzione francese; nonostante questo, il regista vide chiaro nella giovane francese e, con uno dei suoi colpi di genio destinati a dar scandalo, le offrì Kundry. Evidentemente nel ‘58 stava proprio cercando un’alternativa bionda, sensuale, giovanile alle durezze barbariche di Martha Modl e Astrid Varnay.
La Crespin sul momento rifiutò, poi (superba e incosciente) accettò; fu un trionfo decisivo per la suacarriera, tanto che il ruolo restò nel suo repertorio per altri quindici anni.
Anche la Marescialla fu un approdo fondamentale: ancora una volta si trattò di un successo “contro” la tradizione precedente, che in questo caso si chiama Elisabeth Schwarzkopf.
Anche il disco (Decca contro Emi) contribuì a contrapporre le due marescialle. La maestosità anche vocale della Crespin, il suo porsi più istintivo e meno intellettuale si collocava all’opposto del gioco di specchi della collega tedesca e approdava a una fisicità dagli abbandoni tutti latini.
Eppure di Strauss la Crespin non fece molto altro: solo qualche Ariadne.
Naturalmente cantò Verdi (compatibilmente con i limiti del suo registro acuto): la sua Desdemona e la sua Amelia furono effettivamente esaltanti. Curiosamente non volle saperne di Elisabetta del Don Carlos, nonostante le pressanti richieste di Karajan.
Di Puccini ebbe in repertorio solo Tosca, che cantò assiduamente, fin troppo, in tutto il mondo.
Non altrettanto famosa, ma più interessante, fu la sua Gioconda di Ponchielli.
Un vero miracolo fu poi la Fedra di Pizzetti (alla Scala di Milano); come in Kundry, gli orrori più inconfessabili filtrano fra le lusinghe di un canto sontuoso, debordante di femminilità.
Altri personaggi rilevanti della “prima” Crespin furono Marina del Boris (che avrebbe dovuto cantare più spesso e in russo), Rezia dell’Oberon e la Vestale di Spontini, eseguita solo a Lyon nell’originale francese.
Come per molte artiste della sua generazione, gli anni ’70 rappresentarono un punto di svolta drammatico. Nate e forgiate in un’epoca, le cantanti della sua età si ritrovarono sbalzate in un’altra, culturalmente ed esteticamente diversa, nella quale, per sopravvivere, dovettero reinventarsi.
Nel caso della Crespin – la cui voce era già grave per natura – il passaggio coincise con difficoltà vocali sempre maggiori di fronte alle tessiture dei ruoliprincipali del suo repertorio.
Dalla crisi umana e vocale la Crespin seppe uscire esplorando nuove facce della sua personalità.
Nel 1974 si aprì la sua seconda carriera, durata altri venticinque anni fra trionfi non meno spettacolari.
Il primo passo fu Carmen: per la prima volta “Crespinette” depose l’austerità lirica della propria maschera aristocratica e indagò nella sua natura popolana e marsigliese; scoprì una nuova ruvidezza di sguardi, una più acre e dilavata combattività. Ma soprattutto con Carmen cominciò a comprendere il confine fra sensualità e sessualità e a setacciare il fondo dell’espressione drammatica e musicale, ripulito da ogni retorica.
Il passaggio successivo fu l’approdo al gioco dolce-amaro, al disincanto cinico dell’operetta del Secondo Impero e di Offenbach (Grande Duchesse e Perichole).
Pare incredibile ma prima di allora questa donna dall’umorismo sfrenato e dalla battuta pronta, addirittura volgare (in buon marsigliese), non aveva mai riversato a teatro questa parte di sé, impegnata a difendere il suo ruolo di soprano “grande”, i filati eterei, la maestosità da tragédienne.
L’ironia, la più cinica e penetrante, divenne allora strumento tipico della seconda Crespin.
L’ultimo passo fu la scoperta che a teatro si può essere anche vecchi e malati e si può urlare la propria paura e la propria rabbia.
E arrivarono infatti Madame de Croissy, Madame Flora della Medium di Menotti e la Contessa della Dama di Picche: tre incarnazioni di una potenza allucinante, fra le maggiori di tutto il Novecento, portate dalla Crespin ai quattro angoli del mondo con una dignità e una fierezza degne delle sue mitiche e lontane Marescialle e Sieglindi.
Nel 1989 (ossia a quarant’anni dal debutto) si chiuse anche la seconda carriera della Crespin.
Se nella prima parte era stata un’icona voluttuosa, nella seconda si è rivelata per ciò che più profondamente era: scomoda e ingombrante, fin troppointelligente e cinica, di volta in volta arcigna e materna, esplicita fino alla volgarità e ciononostante gran dama, dall’altero “panache”.
Matteo Marazzi