Backstage: Le Cronache di Flipperino: Quando la tutta la Cena è più gustosa dei singoli piatti
Aggiunto il 08 Aprile, 2016
Prima di parlare dello spettacolo, mi piace sottolineare gli eventi che hanno preceduto e accompagnato il ritorno dell’opera nella sala del Piermarini dopo il battesimo del 1924: incontri con il regista, proiezione del film di Blasetti – indimenticabile Amedeo Nazzari nella frase più celebre del film - esposizione di materiali iconografici allo Spazio Oberdan e infine prima di tutte le recite una introduzione interessante di Franco Pulcini. Una serie di eventi collaterali sicuramente da ripetere per altre opere, di non facile conoscenza e di così scarsa diffusione.
Sciogliamo subito un dubbio. L’opera non è certo un capolavoro, anzi! Non è quel mostro di cui si è sentito parlare in giro ma la musica è talvolta lutulenta, un mix tra una colonna sonora e citazioni di altre opere, alcune anche autocitate. I versi iperbolici, talvolta inascoltabili, a volte sfiorano il ridicolo ma si inseriscono alla perfezione nel clima dell’opera.
Che alla Scala viene rappresentata, a mio avviso, in modo perfetto. Grazie in primis alla più felice prova teatrale mai realizzata da Martone, grazie ad una inaspettata ottima direzione di Rizzi e ad un cast che, seppur non completamente omogeneo, rappresenta uno dei migliori assemblabili per questa operona.
Martone sposta la vicenda dal rinascimento alla Little Italy del ‘900. E con la collaborazione di Margherita Palli realizza un vero e proprio set cinematografico diviso su tre piani diversi, ognuno dei quali con una funzione ben specifica: Il Ristorante del Boss, la camera da letto, la cantina. E naturalmente la lotta tra clan mafiosi a fare da sfondo e poi irrompere da protagonista nel finale. Altamente cinematografica la realizzazione delle sequenze dei movimenti scenografici con cambi di scena a vista, ponti mobili, rumori scenici. Il tutto confluisce in uno spettacolo altamente “eye-catching” in cui si apprezza sia la fantasia di Martone sia lo sforzo di proporre qualcosa che abbia un senso, in
questo sostituendo un po’ il libretto decisamente debole. Operazione arbitraria? Forse. Discutibile? Anche. Ma fondamentalmente realizzata con una tale precisione e perfezione sia di forma che di intenti da lasciare completamente soddisfatti. Insomma se si sposa la visione di Martone, non si può che apprezzarne il lavoro svolto. Personalmente non vedo quale altra soluzione si sarebbe potuta trovare, essendo l’ambientazione rinascimentale del libretto originale una tale accozzaglia di luoghi comuni da lasciare perplessi. Per fortuna Martone evita di cadere nel tranello di rifare il verso al film di Blasetti e sceglie questa soluzione apprezzabile. Certo il finale è completamente riscritto con la strage di Lisabetta ma che gran bel colpo di scena, che gran bel momento cinematografico.
Musicalmente l’opera richiede un direttore intelligente che sappia evitare di cadere nel tranello di una scrittura rapsodica, quasi a scene chiuse e con uno stile difficilmente inquadrabile in una concertazione unica. Rizzi sorprende – me – e ci riesce alla perfezione, cercando di alleggerire dove possibile, caricando dove serve e restituendoci colori moderni perfettamente in sintonia con la regia di Martone. L’orchestra lo asseconda molto bene con momenti di interessante turgore e abbandoni lirici che non sfociano mai nella volgarità o peggio nella melassa. Grande merito di Rizzi essere riuscito a non cercare di far passare la Cena per quello che non è – un capolavoro – cercando di evidenziare il carattere anticipatore dell’opera vista come una soundtrack che accompagna gli eventi.
Impossibile però realizzare un simile disegno – sia registico sia musicale – senza un cast adeguato alle richieste. Inizio da Marco Berti che mi ha positivamente sorpreso, al di là di ogni più rosea previsione. Il ruolo di Giannetto è semplicemente massacrante; la scrittura batte incessantemente sul passaggio Fa-Sol-La costringendo il povero cantante a sforzi davvero sovraumani.Sembra quasi la scrittura di un pessimo conoscitore della corda tenorile per quanto Giordano ricerchi soluzioni al limiti del praticabile. Berti, come dicevo, realizza la sua migliore prova in carriera. Sfaccettatissima anche la cura del personaggio, la sua lunga trasformazione in un vendicatore, il rigurgito della paura, della debolezza, della viltà. Vocalmente gli acuti (tanti, oh ma quanti!) riempiono una sala non certo piccola come la Scala. E sono acuti ricchi di suono, magari più larghi che alti ma ci sono e ci sono tutti. Poco importano alcune piccole incertezze di intonazione, in mezzo a tale prova maiuscola. Non vedo chi al momento potrebbe cantarla meglio del tenore comasco, forse Antonenko? Al momento mi tengo Berti, capace anche, quando richiesto di alleggerire e regalare momenti intensi di lirismo nella invocazione di pietà alla natura. Chapeau.
Molto bravo anche Nicola Alaimo nel ruolo di Neri Chiaramantesi. Anche la sua parte insiste bastardamente sul Fa ma Alaimo se la cava egregiamente. Martellante nel finale II, intensissimo nel finale. Bravissima, anzi vocalmente forse la migliore del cast, Jessica Nuccio, angelo vendicatore dell’inaspettato finale.
Come sempre accade è Kristin Lewis a dividere e a lasciare perplessi. Il soprano di Little Rock, ormai titolare in tutti i principali teatri del mondo dei più importanti ruoli da lirico-spinto, ha una voce difficilmente classificabile. In basso suona intubata, quasi “inscatolata”. Negli estremi acuti è invece stridula. Ma tra il Do4 e il La4 la voce suona meravigliosa, corre in sala perfettamente, ricordando alcune sue celebri colleghe, una per tutte Martina Arroyo, ma anche Indra Thomas. Anche la parte di Ginevra – che sorpresa eh – è ricca di insidie e difficoltà non sempre superate agevolmente. Resta una buona interpretazione giocata sul versante della sensualità estremamente esibita, grazie anche a una presenza scenica dirompente.
Estremamente calda la vocedi Chiara Isotton, e caldissima la sua interpretazione, specie nel momento dell’autoerotismo. Ottimi tutti i comprimari. Incomprensibilmente lungo l’intervallo (forse per dare modo ai cantanti di rifiatare?). Successo molto intenso, ben al di là delle aspettative.
E a questo punto mi chiedo. Meglio il solito titolo di repertorio che abbiamo visto e rivisto o una opera semi sconosciuta, non bellissima, ma realizzata ottimamente, che ti fa passare una sera piacevole di teatro vero e lascia estremamente soddisfatti?
Ognuno sia libero di decidere.
E chi non cena con me….. peste lo colga!!!
flipperinodoc