Venerdì, 27 Settembre 2024

Backstage: Discografia di Attila

Aggiunto il 04 Aprile, 2007

DISCOGRAFIA ATTILA
Personaggi: Attila (Bs); Ezio (Br); Odabella (S); Foresto (T)


EDIZIONI AUDIO

1951 – RAI
direttore: Carlo Maria Giulini
Italo Tajo; Gian Giacomo Guelfi; Caterina Mancini; Gino Penno
Coro e Orchestra Sinfonica di Milano della RAI

1962 – Firenze.
direttore: Bruno Bartoletti
Boris Christoff; Gian Giacomo Guelfi; Margherita Roberti; Gastone Limarilli
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino

1970 – RAI
direttore: Riccardo Muti.
Ruggero Raimondi; Gian Giacomo Guelfi; Antonietta Stella; Gianfranco Cecchele
Coro voci bianche "Renata Cortiglioni", Coro e Orchestra Sinfonica di Roma della RAI

1971 - Berlino
direttore: Giuseppe Patané
José Van Dam; Ingvar Wixell; Gundula Janowitz; Franco Tagliavini
Coro e Orchestra Opera Stato tedesca Berlino

1972 - Newark
direttore: Alfredo Silipigni
Jerome Hines; Cesare Bardelli; Leyl? Gencer; Nicola Martinucci
Coro e Orchestra Festival Opera Newark

1972 - Firenze
direttore: Riccardo Muti.
Nikolaj Gjaurov; Norman Mittelmann; Leyl? Gencer; Veriano Luchetti
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino

1972 – PHILIPS
direttore: Lamberto Gardelli
Ruggero Raimondi; Sherrill Milnes; Cristina Deutekom; Carlo Bergonzi
"Ambrosian Singers" e Royal Philharmonic Orchestra

1975 – Milano
direttore: Giuseppe Patané
Nikolaj Gjaurov; Piero Cappuccilli; Rita Orlandi Malaspina; Veriano Luchetti
Coro e Orchestra Teatro alla Scala Milano

1976 – Venezia.
direttore: Bruno Bartoletti
Boris Christoff; Lorenzo Saccomani; Maria Parazzini; Francisco Ortiz
Coro e Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia

1980 - Vienna
direttore: Giuseppe Sinopoli
NikolajGjaurov; Piero Cappuccilli; Mara Zampieri; Piero Visconti
Coro e Orchestra dell’Opera di Stato di Vienna

1983 - Torino.
direttore: Nello Santi
Nikola Gjuzelev; Silvano Carroli; Maria Chiara; Veriano Luchetti
Coro e Orchestra del Teatro Regio di Torino

1985 - LASERLIGHT
direttore: Vladimir Gjaurov
Nikola Gjuzelev; Ljubomir Videnov; Marie Krikorian; Bojko Zvetanov
Coro dell’Opera nazionale e Orchestra Filarmonica di Sofia

1986 – HUNGAROTON
direttore: Lamberto Gardelli
Evgenij Nesterenko; Lajos Miller; Sylvia Sass; János B. Nagy; Gábor Kállay; Kolos Kováts.
Coro Radiotelevisione Ungherese e Orchestra di Stato Ungherese

1987 - Venezia
direttore: Gabriele Ferro
Samuel Ramey; William Stone; Linda Roark-Strummer; Veriano Luchetti
Coro e Orchestra del Teatro la Fenice di Venezia

1989 – EMI
direttore: Riccardo Muti
Samuel Ramey; Giorgio Zancanaro; Cheryl Studer; Neil Shicoff
Coro e Orchestra Teatro alla Scala Milano

1993 – Roma
direttore: Maurizio Rinaldi
Fabrizio Nestonni; Alberto Rinaldi; Candida Ribeiro da Silva; Gian Luca Zampieri
Coro "Associazione Lirica Corale Romana" e Orchestra “Nova Amadeus”

1999 – Sassari
direttore:Massimo Stefanelli
Simone Alaimo; Franco Vassallo; Tiziana Fabbricini; Marco Berti.
Associazione corale “Luigi Canepa” Sassari e Orchestra giovanile Sardegna “Teatro e/o Musica”

2000 - DYNAMIC
direttore: Donato Renzetti.
Ferruccio Furlanetto; Alberto Gazale; Dimitra Theodossiou; Carlo Ventre
Coro e Orchestra Teatro lirico "Giuseppe Verdi" di Trieste


EDIZIONI VIDEO

1985 - Verona
dir. Nello Santi – regia: Giuliano Montaldo
Evgenij Nesterenko; Silvano Carroli; Maria Chiara; Veriano Luchetti
Coro eOrchestra dell’Arena di Verona

1991 – Milano
direttore: Riccardo Muti – regia: Jerome Savary
Samuel Ramey; Giorgio Zancanaro; Cheryl Studer; Kaludi Kaludov
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano

L’assenza di registrazioni integrali prima del 1951 (quando l’opera fu registrata dalla RAI nel contesto delle celebrazioni verdiane) e l’estrema scarsità di brani isolati a 78 giri sono il riflesso del lungo oblio in cui cadde l’Attila dalla metà dell’800 fino alla seconda guerra mondiale; la successiva registrazione ufficiale apparve solo vent’anni dopo (Philips1972) ma nel frattempo l’opera si era riconquistata nei cartelloni teatrali una vasta popolarità, dimostrata dal consistente numero delle testimonianze discografiche “dal vivo”.
Le diciotto registrazioni attualmente reperibili, senza contare i video, consentono di ripercorrere la fortuna interpretativa dell’opera negli ultimi sessanta anni e di enucleare i modelli ideali ed estetici che ne hanno condizionato l’orientamento esecutivo.
Il primo dato che si impone è la schiacciante preponderanza di direttori italiani: evidentemente la rudezza del linguaggio primo-verdiano, col tenace cabalettismo e l’eco bandistica di cori e fanfare, ha tenuto a distanza interpreti di altre scuole o nazionalità. Dal canto loro, i primi interpreti italiani hanno fatto ben poco per dimostrare che nell’Attila potesse trovarsi altro che ingenuità risorgimentale e immediatezza melodica: già il giovane Giulini (1951), ancora distante dalla moderazione aurea che successivamente lo ha caratterizzato, scelse di assecondare senza pudori intellettualistici gli sbrigativi impulsi della narrazione. Questo affidarsi all’evidenza bruta del concetto, magari con amorevolezza paternalistica, si ritrova anche in Bartoletti (1962 e 1976), Silipigni (1972), Patané (1971 e 1975), Santi (1983 e 1986) e persino nel giovane Muti (1970 e 1972). Quanto a Giuseppe Sinopoli (1980) lasua tendenza a scatenare ciò che di aggressivo e tribale può racchiudersi nel primo Verdi conduce nell’Attila a radicalizzazioni volutamente sconcertanti.
Fu Lamberto Gardelli il primo a tentare una strada diversa, forse perché consapevole della responsabilità di portare l’Attila, per la prima volta, in una sala di incisione. Potendo contare su una grande orchestra sinfonica, il direttore prese le distanze dall’impeto barricadiero fino ad allora praticato. Con la distensione dei ritmi, l’attenuazione delle sonorità e soprattutto la maggior cura del dettaglio strumentale, Gardelli rivelò nell’opera alcuni aspetti nuovi, come il raccoglimento cameristico di certi squarci e una più sfumata umanità nei personaggi. La critica reagì con perplessità, in parte giustificata dal fatto che né Gardelli, né i suoi interpreti possedevano personalità interpretative tali da far passare la castigatezza per un nuovo orizzonte poetico. Per questo ci voleva il maturo Riccardo Muti, che alla fine degli anni ’80 – alla Scala e negli studi della EMI – arrivò a elaborare un Attila finalmente diverso.
Pur senza rinunciare agli impulsi ritmico-dinamici dirompenti, Muti si spinge molto più lontano di Gardelli nell’esaltare il dettaglio timbrico e gli equilibri strumentali, e arriva a svelare - in un’orchestrazione considerata rudimentale e ferrigna – trasparenze addirittura schubertiane.
Ma soprattutto, mettendo a frutto la propria sensibilità neoclassica, Muti evita di assecondare il precipitoso e incoerente fluire della vicenda, per concentrarsi sulla stabilità della struttura.
La narrazione ne risulta come sospesa, placata nella fissità monumentale di un grande affresco, dove più ancora degli avvenimenti contano il rapporto architettonico di masse contrapposte, la saldezza delle proporzioni e le simmetrie della composizione e dove il dettaglio, esaltato da un concertazione caleidoscopica, si relaziona direttamente all’insieme.
Dopo quasi venti anni,Muti resta il più originale, autorevole e convincente interprete di Attila. Il suo solo limite è di essere stato più grande come architetto che come psicologo: i personaggi non escono dalla genericità e dalla convenzione. D’altro canto il maggior problema – tuttora irrisolto – della storia discografica dell’opera è quello della definizione psicologica dei personaggi e della loro emancipazione da una certa maniera epico-patriottica di gusto “colossal”.
È indubbio che Attila sia parte del filone risorgimentale della prima carriera di Verdi e che si nutra di retorica mazziniana ed empiti quarantotteschi; tuttavia lo scontro fra un Impero Romano alla deriva e le orde barbariche guidate da Attila non si configura semplicemente come la lotta del Bene contro il Male. Versi e musica insistono tanto sulla grandezza morale di Attila, quanto sulla fragilità, sul velleitarismo e persino sull’opportunismo dei suoi antagonisti, che pure – in un’ottica semplicemente patriottica - dovrebbero essere i “buoni”.
Il generale romano Ezio e i due “resistenti” Foresto e Odabella non fanno che tramare complotti, mescere veleni, ordire tradimenti contro il nemico che generosamente li ha graziati (nel caso di Ezio persino contro l’Impero Romano di cui è il difensore). È interessante il rapporto che lega i tre personaggi al Re degli Unni, dalla cui autorità storica e morale sono letteralmente soverchiati. Se inequivocabilmente Attila rappresenta per loro una minaccia aliena e distruttiva, non di meno è forte il fascino, negato e contraddetto, che esercita su loro, particolarmente inquietante nel caso di Odabella incalzata sul talamo del barbaro dall’ombra del “padre irato”.
È vero che ai tre italici sono anche affidate le più accorate e prorompenti affermazioni di amor patrio, espresse con un trasporto che nei versi rischia l’oleografia, ma nella musica si accende di bagliori grandiosi; eppure è limitante e probabilmente scorretto fermarsi ad esso e congelare Odabella,Ezio e Foresto nel ruolo di difensori di Italia. Una tale prospettiva, infatti, oltre a livellare le ragioni dei personaggi e a contraddirne il peraltro modesto eroismo, finisce per snaturare le caratteristiche della scrittura vocale, che la pratica novecentesca ha reso roboante e lapidaria mentre Verdi l’aveva pensata sfumata, reattiva, policroma.
Molti degli interpeti di Ezio ad esempio si limitano a cannoneggiare, come se dovessero incarnare la millenaria grandezza di Roma invece del suo sfacelo. Si può restare ammirati per certi squilli o frasi poderose, ma l’età matura del generale che osserva impotente il tramonto di una civiltà richiederebbe piuttosto un’emissione chiaroscurata, densa di rimpianto, capace di librarsi nell’alta tessitura degli “immortali vertici” come in un sogno ad occhi aperti.
Anche gli interpreti di Foresto hanno forzato in senso eroico una scrittura originariamente lirica pensata per Carlo Guasco, tenore “di grazia” dalle tenerezze rubiniane. Troppo percussivi e spavaldi risultano pertanto Limarilli e Cecchele; troppo maturi e baritonali Penno, Kaludov e Bergonzi (benché quest’ultimo si riscatti con l’eleganza della linea). Più in sintonia con le caratteristiche vocali e psicologiche del ruolo sarebbero Lucchetti e Shicoff, se solo il primo fosse un poco più partecipe e il secondo meno in affanno vocalmente.
I problemi maggiori sono quelli di Odabella: solo voci acute e brillanti sono in grado di venire a capo del virtuosismo incadescente della prima aria o dei funambolici pianissimi della seconda. Al contrario la discografia è ingolfata di soprani stentorei e massicci (la Mancini, la Roberti, la Orlandi Malaspina, la Parazzini, la Zampieri) che in teoria dovrebbero esaltare l’eroismo dell’amazzone, ma che in pratica naufragano contro la tessitura troppo elevata per loro e le acrobazie vocalistiche. Oltretutto queste voci tonanti sono inadeguate a esprimere l’esuberanza e la gioventù del personaggio e i suoitrasalimenti emotivi. Dal momento che la Stella, la Gencer, la Chiara e la Sass sono approdate all’opera troppo tardi, le uniche Odabelle se non perfette almeno attendibili restano Cristina Deutekom (Philips 1972) e Cheryl Studer (EMI 1989) forgiate alla brillantezza da lunghe frequentazioni mozartiane e dotate di voci non grandi, ma scattanti e luminose.
I problemi che pone il protagonista, più che di definizione psicologica, sono stilistici. Musicalmente infatti il suo linguaggio, agile sul ritmo e nobile nel legato, nasce direttamente dal Belcanto; teatralmente però la sua diversità razziale e culturale ha reso comprensibile il ricorso a interpreti dalla vocalità più esotica, come Boris Christoff, che in Attila ha trasferito le caratteristiche del suo celebre Boris Godunov. Al suo seguito si mossero successivamente altri Zar (Ghiaurov, Ghiuselev e Nesterenko) il cui successo fu tale che a talune loro maniere musorgskiane si ispirarono anche bassi italiani come Raimondi e Furlanetto. Tralasciando i casi di Jerome Hines, José van Dam e John Tomlinson, si dovette attendere Samuel Ramey per trovare una sintesi ideale di civiltà e barbarie. La sua attendibilità stilistica, addirittura rossiniana, tranquillizzava i cultori dello stile; nello stesso tempo la fisicità spavaldamente esibita e certa solarità yankee bastavano a evocare l’abisso fra il personaggio e i suoi compagni di palcoscenico. Proprio la presenza di Ramey al centro dell’imponente cornice neoclassica di Riccardo Muti contribuisce all’egemonia delle EMI 1989 in ambito discografico.

Matteo Marazzi

Categoria: Backstage

 

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