Domenica, 06 Ottobre 2024

Backstage: Turandot alla Scala - di Marco Delfini Strozzi

Aggiunto il 06 Maggio, 2015

Una premessa è necessaria. Nutro per Turandot un amore viscerale, legato a incontri per me importanti, sia personali che musicali e pertanto ogni sera che assisto a quest'opera è per me frutto di emozioni e sentimenti che non passano mai senza lasciar segno nel mio vecchio cuore......
La regia - o meglio il quartetto Lenhoff, Schuler, Bauer e Schmidt-Futterer, completamente inscindibili in questa produzione - non dice nulla di nuovo. Ma lo dice molto bene grazie a colori bellissimi e a una certa eleganza. Sono soprattutto le luci che avvolgono continuamente lo spettatore a farla da protagonista, adattandosi in continuazione (e qui il tandem vincente è Bauer/Chailly) ai colori orchestrali. Non mancano le cadute di gusto: la spogliarellista sui libri sacri, il Principino di Persia pronto più per una sodomia che per una decapitazione, ma nell'insieme lo spettacolo si lascia godere per un che di straniante e grottesco. Bella l'idea di impersonare il gelo di Turandot con una corazza modello insettone, corazza che la principessa perde nella fase di scioglimento. Pessima invece la gestione delle masse corali. Suggestivi il finale II e il finale III.

E' però una Turandot da ricordare per la parte musicale.
Chailly conosce questa partitura a menadito e dirige da vero "onnipotente". Sembra quasi volerci ricordare che il nuovo direttore musicale è lui, e che il colore dell'orchestra si plasmerà a sua immagine e somiglianza (lo stesso colore ascoltato lo scorso anno, sempre con Chailly, nel requiem verdiano).
Dicevamo di Chailly, alza la bacchetta e i primi cinque accordi (la-mi-si-do-fa) ci portano immediatamente nell'atmsofera straussiana della Frau. Xilofono e timpani raccontano con estrema violenza che non siamo in una fiaba e i legni, nella lettura dell'editto, rispondono da par loro. L'ingresso della folla vede i legni protagonisti di un suono inquieto, atemporale, angosciante. I tamburi funebri punteggiano l'incontro tra Timur e il

figlio con la giusta drammaticità, la cote gira grottescamente nei suoni del gong cinese e delle trombe. Chailly qui è un portento di rubati e "a tempo" senza soluzione di continuità, avvolgendoci in un magma sonoro impressionante. Il coro grida e ride: morte, morte, morte e sugli accordi iniziali l'atmosfera sovraeccitata si placa. L'invocazione alla luna è tenuta su un tempo meno sostenuto dell'andante indicato ma è vivo, pulsante, implacabile (grandissimo il clarinetto in queste frasi). Ma non abbiamo tempo di rilassarci, la marcia funebre incombe dolente, le note sempre uguali ripetute prima in sincope (la, si-sol, la fa), poi in terzine (la si la /sol la sol/ fa), poi in sedicesimi (la si la fa /sol la sol mi /fa) ci aprono l'ingresso di Turandot: solo così capisci perchè il Principe Ignoto perde la testa per lei! Musicalmente esaltante il finale primo: l'apparizione (in partitura) delle anime dei morti è resa in modo spettrale e ci prepara con la giusta angoscia al climax che nemmeno le due arie riescono a interrompere. In un istante giungiamo ai tre colpi di gong: un piccolo indugio, grancassa e timpani quasi sospesi atemporalmente e poi lo scatenato finale. Praticamente perfetto!

Il secondo atto si apre energico, veloce, con svisature quasi "jazzy" e le tre maschere raccontano con brio e vivacità la loro vita; la nostalgia dei luoghi natii. Precisissimo ritmicamente il racconto del Principe di Samarcanda con l'ottavino in gran spolvero fino alla grande melodia finale dove l'orchestra dispiega libera la melodia pucciniana con il massimo convincimento.
Tamburi, trombe, celeste e ottavini ci conducono alla seconda scena e la transizione musicale è così moderna da farci capire quanto sono debitori di Puccini sia Stravinsky sia Shostakovic sia lo stesso Schönberg. Udite cari snob quanto è genio qui Puccini!
La scena degli enigmi è costruita da Chailly come una ragnatela all'interno della quale si muove l'insetto Turandot: sonorità

barbariche, grigiastre, sottili fili di suono annodati l'uno con l'altro che cercano di avvolgere il Principe Ignoto per farlo cadere e poter gioire di un ennesimo trionfo! Ma Calaf indovina, si svela e il finale è giustamente tellurico: le percussioni fanno letteralmente tremare la sala ma la precisione della scansione ritmica è talmente perfetta che ci sta anche un po' di suono kitsch!
L'atto terzo è ovviamente il più difficile a causa della cesura. L'andante mosso iniziale è finalmente misterioso, la morte di Liù è delicata, soffusa, quasi inevitabile. Non sto a dare giudizi su quale finale sia meglio o quale sia peggio; deciso di fare il finale di Berio, credo che nessuno lo avrebbe potuto rendere meglio di così. A differenza degli ottimi Bartoletti e Gergiev (da me ascoltati personalmente a Genova e Salisburgo) Chailly prosegue il discorso musicale senza evidenziare la cesura in modo netto, sottolineando invece in orchestra il grande lavoro compiuto da Berio - con buona pace del noioso critico che vicino a me pontificava sull'inutilità di tutte queste note! L'interludio scorre intenso, carico di dolore, quasi una ideale coda della trenodia di Timur - ricordiamo che il cadavere di Liù è ancora in scena - e ci porta al finale dolce, addirittura delicato in questa magica dissolvenza che il regista amplifica con una soluzione in se' banale (i due innamorati che si allontanano mano nella mano al buio verso la luce) ma visivamente efficacissima.
Una direzione che si pone come il vertice delle esecuzioni di Turandot dal vivo, al pari forse solo di quella di Maazel a Vienna. Un punto di riferimento assoluto.
Orchestra strepitosa, coro al di sopra di ogni lode, voci bianche comprese.

Vocalmente gli entusiasmi diminuiscono leggermente, pur rimanendo su un altissimo livello.
Carlo Bosi è un eccellente Altoum, in una parte insidiosa come poche. Brave le tre maschere, soprattutto interpretativamente. A livello vocale sicuramente il

migliore è il Ping di Blagoj Nacoski, che canta tutta la parte senza mai scadere nella macchietta.
Tsymbalyuk è straordinario, grazie ad una voce calda, ferma, ben emessa con acuti saldi. Antonenko è il classico tenorone che spara acuti in se' anche gradevoli e facili ma che si accontenta solo di questo. Interpretazione inesistente e fraseggio un po' duro inficiano la sua prestazione. Resta però il dubbio su quale altro tenore scegliere per questa parte. Maria Agresta è una Liù nel solco della tradizione, dimessa, perdente, vittima sacrificale. Ma canta talmente bene, con tutto il repertorio di "cose giuste al punto giusto" da ottenere le ovazioni del Teatro. Liù è una parte in apparenza semplice, monocorde con due arie davvero perfette per vincere facile. La Agresta le canta semplicemente in modo perfetto, arricchendole di filati, assottigliamenti, sonorità piene: e il gioco è fatto! Chapeau!
Resta Turandot: Nina Stemme è una grandissima artista e, se anche è vero che i Do sono difficili (ma meno difficili di venerdì scorso), il risultato è strepitoso per potenza, intensità, forza dirompente. Sorprende, positivamente, per la continua ricerca di note più assottigliate nei momenti musicalmente rarefatti e trionfa a mani basse nel finale (laddove Antonenko è invece in difficoltà). Grande intuizione quella di iniziare il primo enigma con voce gelida e stentorea, proseguendo nel secondo e ancor più nel terzo con una voce più piccola, a testimoniare la paura, lo sgomento, l'ansia del dover lasciare i panni della Principessa di Gelo e vestire quelli di una donna. Altro Chapeau!
Certo, magari a qualcuno piacerebbe una Turandot più belcantistica ma mi permetto di dire che con pochissime eccezioni (peraltro non perfettamente riuscite - e guarda caso con lo stesso Chailly), Turandot in teatro è una cosa, Turandot in sala di incisione è un'altra!

Una serata magnifica, come da tempo non vivevo alla Scala!

Marco Delfini Strozzi(DocFlipperino)

Categoria: Backstage

 

Chi siamo

Questo sito si propone l'ambizioso e difficile compito di catalogare le registrazioni operistiche ufficiali integrali disponibili sul mercato, di studio o dal vivo, cercando di analizzarle e di fornirne un giudizio critico utile ad una comprensione non sempre agevole.