Backstage: Lohengrin chiude a Bayreuth - di Pietro Bagnoli e Francesco Brigo
Aggiunto il 17 Agosto, 2014
Conductor Andris Nelsons
Director Hans Neuenfels
Stage design Reinhard von der Thannen
Costumes Reinhard von der Thannen
Lighting Franck Evin
Video Björn Verloh
Dramaturgy Henry Arnold
Choral Conducting Eberhard Friedrich
Heinrich der Vogler Wilhelm Schwinghammer
Lohengrin Klaus Florian Vogt
Elsa von Brabant Edith Haller
Friedrich von Telramund Thomas J. Mayer
Ortrud Petra Lang
Der Heerrufer des Königs Samuel Youn
1. Edler Stefan Heibach
2. Edler Willem Van der Heyden
3. Edler Rainer Zaun
4. Edler Christian Tschelebiew
Cominciamo dal fondo: venti minuti di applausi e tifo da stadio, che hanno premiato la qualità musicale veramente elevata, anche e soprattutto in un repertorio come quello wagneriano. Tra l’altro, a stare al calendario del Festival, eravamo all’ultima recita di Lohengrin per questa stagione e, in assoluto, per questo allestimento discusso che va in pensione dopo cinque anni di servizio.
Non parlereremo a lungo del konzept, in pieno stile regientheater, ma di quello più deteriore, quello del “famolo strano”, quello che non destruttura in modo razionale ma solo allo scopo di far parlare anche in modo negativo, in fondo non è importante, basta che se ne parli.
Il problema vero di questo pessimo allestimento è che Neuenfels insegue la folla e si dimentica dei singoli, delle solitudini dei protagonisti (non solo Elsa e Lohengrin, ma anche Ortrud e Telramund), del problema che è correlato al nome del protagonista.
I ratti e i loro siparietti cretini (ma i tedeschi ci si divertono, a giudicare dalle risate nella sala stipatissima) sono un alibi per nascondere la mancata comprensione del testo, o la non-voglia di approfondire le vere tematiche dell’opera, deviando invece il discorso su aspetti più appariscenti e
comodi. I roditori sono stati un espediente per Neuenfels, per far sì che si parlasse di un allestimento che non avrebbe avuto nessuna ragione né per essere discusso, né tanto meno per essere memorizzato da un video.
Kitsch, cattivo gusto (con particolare riferimento alla scena finale), mancato controllo dei movimenti dei cantanti lasciati a se stessi con le conseguenze che si possono immaginare, konzept cervellotico e di interpretazione ardua se non praticamente impossibile senza le indicazioni del regista e, non ultime, sottolineature didascaliche particolarmente fastidiose (fumetti, punti di domanda, Elsa vestita di bianco e Ortrud vestita di nero): questo è tutto quello che detestiamo nel regientheater che sopravvive qui, sul Colle, e in poche altre località prevalentemente tedesche.
Non è che sia tutta fuffa: Katharina Wagner, per esempio, ha dimostrato di avere idee ben più che interessanti e centrate sul testo; lo stesso dicasi per Herheim o Marthaler.
Ma questo Neuenfels, vecchio rudere di una scuola che si spera ormai morta e sepolta, con tutte le sue ideologie d’accatto, proprio non si sopporta più.
La parte musicale, invece, come anticipato all’inizio, è stata di qualità notevole con punte di assoluta eccellenza, a cominciare dalla direzione splendida e ispiratissima di Andris Nelsons. Alle prese con una partitura che conosce anche capovolta e che evidentemente ama, ha dato una lettura chiara, leggera, di dinamica spedita, di splendida cantabilità a cominciare da un preludio ispiratissimo e levigato. L’accompagnamento al canto è stato di primissimo ordine, a parte qualche minimo difetto di comprensione con Vogt nel racconto finale, peraltro subito ripreso con ottimo mestiere. Non così bene l’orchestra, per una volta non ai consueti livelli superlativi, che ha un po’ spernacchiato sul finale secondo.
Coro invece stratosferico, ai livelli che furono di Pitz negli Anni Cinquanta.
Fra i solisti, spicca la
migliore Ortrud degli ultimi vent’anni: Petra Lang. Voce saldissima in tutta la gamma, acuti sfolgoranti, presenza soggiogante, interpretazione magari eccessivamente proterva, ma comunque di un’autorità trascinante. La sua invocazione alle divinità pagane è stata da brivido.
Ci ha colpito favorevolmente la nostra Edith Haller (essendo di Merano, è da considerarsi italianissima) che ha compitato una elsa di ottimo corpo vocale, anche se di acuti lievemente problematici.
Pollice verso per il Telramund di Thomas Mayer, in enorme difficoltà nel primo atto e un po’ meglio nel secondo, a dimostrazione di come sia difficile da gestire questa parte.
Ottimo, veramente ottimo il Re di Wilhelm Schwinghammer: ragionevolmente giovane (è del 1977), splendida voce molto ben emessa, notevole carisma. Assolutamente da tenere d’occhio.
Buono – pur se non eccitante – anche Samuel Youn negli interventi dell’Araldo.
Quanto a Klaus Florian Vogt, è ormai un veterano del ruolo: si pensi che il suo Lohengrin è testimoniato da due video e un’incisione audio.
Il pubblico lo ha portato letteralmente in trionfo con un’autentica ovazione, come non ne sentivo da tempo.
La fisicità e l’astrazione da angelo caduto, così come la vocalità da crooner, con un tono vagamente efebico e acuti spesso sfalsettanti, sono curiosamente agli antipodi dell’altro grande Lohengrin dei nostri tempi, e cioè Jonas Kaufmann.
Il racconto del terzo atto è molto più confidenziale; non ci sono i miracoli di mezzevoci in sospensione e lo scavo incredibile sulla parola che caratterizza il cavaliere dipinto da Kaufmann, ma la voce corre benissimo per il teatro, con una presenza che non lascia indifferenti; e infatti il pubblico lo acclama come un eroe.
Adesso i ratti tornano in cantina.
Non siamo contro il regientheater, ma vorremmo che l’attenzione di chi riprenderà in mano questo capolavoro fra un paio d’anni torni, una volta tanto, ai veri
protagonisti
Pietro Bagnoli e Francesco Brigo