Venerdì, 22 Novembre 2024

Editoriale: Don Carlo inaugura la Scala

Aggiunto il 08 Dicembre, 2008

Ah, santa pace: anche noi dunque nel bieco bailamme di chi critica a tutti i costi?
Anche noi facciamo quelli che dicono “Lo sapevamo” oppure “L’avevamo detto”?
Sissignori. Ma preciso subito che non darò addosso in modo soverchio ai cantanti che, per quello che è stato loro chiesto, hanno fatto egregiamente il loro dovere. Come direbbe il mai sufficientemente rimpianto Albertone: “Io non ce l’ho con te; ce l’ho con chi te c’ha mannato!”
D’altra parte è inevitabile, e non tanto o non solo per la solita squallida figuraccia dei tenori (sperando che almeno stavolta non salti fuori nuovamente il buon vecchio e simpatico cantante argentino dal ciuffo unto che di nome fa Marcelo e che dà dei “cani” ai suoi colleghi), quanto perché è vero: è realmente difficile oggigiorno allestire quest’operona, ma se proprio richiesto, dovrebbe essere fatto con quegli intenti di cercare di dire qualcosa di nuovo. Il che, decisamente, non è avvenuto.
Non tornerei sulla solita menata dell’opera in 4 o 5 atti, in italiano o in francese, in tedesco o in turco, ma sull’arretratezza culturale che guida l’attuale dirigenza che, a distanza di 16 anni dall’ultima criticatissima (e ben a ragione) messa in scena di questa difficile opera verdiana, si ritrova nelle stesse secche testuali con l’aggravante di un cast ben più modesto e nemmeno difeso o giustificato da un grande direttore. Nel 1992 Riccardo Muti, allora imperante ed indiscusso proprietario della Scala, propose un’operazione di autentica retroguardia culturale – come correttamente la definì Elvio Giudici – nello stesso teatro che 15 anni prima aveva visto i fasti di un allestimento sicuramente non perfetto, ma che cercava di essere il meglio possibile non solo per quel momento specifico. Scelse la versione in 4 atti, allestì un cast criticabile – e, di fatto, criticatissimo: Pavarotti non sapeva la parte! – ma ne difese le ragioni e gli esiti quasi con protervia. Trasformato in CD e DVD, il risultato è sottogli occhi (e le orecchie) di chiunque voglia verificare di persona: la superatissima versione in 4 atti, che pure ha delle ragioni drammaturgiche, può ancora dire la sua a condizione di poter contare su un pool di interpreti all'altezza della situazione, altrimenti crolla miseramente.
Nel 2004 ad Amsterdam lo spettacolo di Willy Decker – didascalico finché si vuole – era comunque fortemente caratterizzato e poteva cantare su alcuni cantanti carismatici, almeno due dei quali hanno scritto pagine importanti nella storia di questo capolavoro.
Ma qui da che parti siamo?
Cosa si vuole raccontare?
E, soprattutto, dove si vuole andare?
La sensazione che io ho avuto è che il massimo risultato che ci si è proposti è quello di portare a casa la serata, il che raramente va bene, ma mai in un'inaugurazione e meno che mai in un teatro come la Scala che, in altri e mai sufficientemente rimpianti tempi, ha dettato le regole dell'interpretazione teatrale.
La modestia dell'allestimento teatrale ideato da Stèphane Braunschweig, che proprio alla regia di Decker sembra larvatamente rifarsi, va di pari passo con questa visione minimalista prima di tutto proprio negli intenti: ed è questo che disturba maggiormente lo spettatore che, come noi, esterofili e antiprovinciali, è perennemente alla ricerca dell'Evento. In effetti, se non si va alla ricerca dell'Evento e ci si accontenta di uno spettacolo globalmente discreto, si corre il rischio di uscire anche moderatamente soddisfatti. Ci sono persino i bambini che ricorrono continuamente nella vicenda a ricordare sia l'animo fanciullesco di tenore-soprano-baritono, sia la bellezza di quell'età in cui tutti e tre erano innocenti e felici: questa è, se vogliamo, l'unica ideuzza di una non-regia che non va mai al cuore del problema.
Al lettore non sfuggirà la ricerca della “mediocritas” verbale in cui stiamo sfogando un eloquio necessariamente dimesso: non si può cavar sangue da una rapa equesta, se vogliamo, è la consapevolezza più triste. E da questo punto di vista, probabilmente questo “Don Carlo” è il punto più basso della gestione di Lissner, inferiore anche alla tanto criticabile “Aida” di due anni fa: lì lo spettacolo fu un disastro e nacque da un presupposto sbagliato, quello cioè di pensare ad una “Aida” che potesse piacere ad un pubblico italiano (leggi: un pubblico di mentecatti, come poi confermò in un'intervista ad un giornale argentino il già citato tenore dal ciuffo unto), ma almeno con un alto sentire, cialtrone finché si vuole, ma pur sempre alto.
Qui, nemmeno la cialtronaggine.

In quest'ottica, quindi, può avere un senso anche il fatto di non voler rischiare nulla, nemmeno l'unica mossa moderatamente audace di un cast prevedibile come un peto di Alvaro Vitali o uno spogliarello di Edwige Fenech in uno di quei film scollacciati all'italiana di fine Anni Settanta. Ed ecco quindi l'esclusione di Filianoti, che tutti aspettavamo con curiosità, perché c'era il rischio che non arrivasse indenne alla fine; ma secondo noi è stata un' “inutil precauzione”, perché l'unico rischio che il tenore calabrese correva era quello di morire di noia prima dell'arrivo di Carlo V. Al suo posto, ha fatto complessivamente una bella figura l'imponente Stuart Neill, un tenorone di aspetto morbidamente “ye old style” che ha negli acuti il proprio punto di forza. Nell'aspetto e nei movimenti ricorda il simpatico Dom DeLuise che nel film “Il fratello furbo di Sherlock Holmes” faceva proprio la parte del tenore. La voce ce l'ha, non è poca ed è anche discretamente inquadrata: la sua bella figura, in un contesto di questa modestia, l'ha fatta, ed è stato giustamente applaudito dal pubblico.
Al suo fianco c'è la dimessa e patetica Elisabetta di Fiorenza Cedolins. Diremmo una bugia se affermassimo che canta male, ma il suo esserci a questo si limita: una generica correttezza nel contesto di una non meno generica mestizia. Non c'è unafrase che rimanga nella memoria, non c'è un inciso che affermi le ragioni di Elisabetta. Non c'è la regalità apposta come valore aggiunto su una ragazza stuprata dalla ragion di Stato, ma non c'è nemmeno l'immaturità che, agli occhi di alcuni appassionati, rendeva irresistibili certe interpreti che non avrebbero potuto puntare sul freddo raziocinio (pensiamo al fascino dell’inadeguatezza – ci si passi l’ossimoro – di Mirella Freni). Qui non c'è proprio niente, al di là di una certa qual correttezza di canto che tanto manda in sollucchero gli appassionati che pensano di trovarsi di fronte ad una grande interprete. Alla fine porta a casa la serata, ed è il massimo che le si possa chiedere. Il “Non pianger mia compagna” non è male, senza essere trascendentale; il “Tu che le vanità” è invece brano sovradimensionato per le possibilità passate, presenti e future della Cedolins, che infatti ne ricava una pizza che di sublime ha solo la durata. Porta a casa la serata, ma in fin dei conti va bene così: in un contesto come questo, una cantante di rango non ci sarebbe stata per niente bene.
Il terzetto degli idealisti è completato dal baritono Dalibor Jenis. Non date retta a chi vi dice che ha cantato male, anche perché è probabile che vi contrapponga Cappuccilli o altro analogo vilain. Jenis ha un colore interessante che in più punti mi ha richiamato il grande Eberhard Waechter. Il fraseggio non è ancora illuminante, ma il colore e le intenzioni sono da autentico baritono verdiano, il che è quanto di meglio si possa desiderare in un periodo come l'attuale che non sembra favorire questa categoria. Mi piace molto nei grandi duetti e nel canto di conversazione, come per esempio il terzetto con Eboli e Elisabetta, mentre la grande scena del carcere merita ancora una riflessione, ma è probabilmente uno dei momenti più difficili per voce di baritono. Continuo a pensare che i veri grandi interpreti del ruolo siano altri (Skhovus, Mattei, Hampson tanto per dire i primi nomiche mi vengono in mente), ma in un contesto così misero va bene anche l'onesto apprendistato di Jenis.
Ma i veri trionfatori della serata sono stati i due veterani Ferruccio Furlanetto e Dolora Zajick.
Il primo beneficia del miglior accompagnamento della serata, quello che Gatti escogita per la grande aria di Filippo II e che, per certi versi, riscatta almeno in parte una direzione sbagliata; è interprete navigato nel grande repertorio in genere e in particolare di questo ruolo, che canta da oltre vent’anni e che conosce anche capovolto. Se devo essere completamente onesto, c'è più emozione nel carisma che Furlanetto profonde a piene mani, che non nel suo canto che pure è sicuramente più fermo e preciso di quanto non fosse qualche anno fa, ma non si può misconoscere che certe sbracature possono dispiacere ai puristi che credono che il canto verdiano consista nel solo ed esclusivo rispetto di forcelle ed altri segni analoghi di espressione. Non è decisamente una voce da vociofili, ma è un cantante che finisce per ricondurre a sé gran parte degli appassionati.
La seconda, ormai talmente stagionata da rendere ridicola la maledizione alla propria bellezza, e mai stata una fine dicitrice, porta però a casa l'applauso probabilmente più convinto alla fine di un “O don fatale” al fulmicotone quanto a puro volume vocale, cosa che del resto è sempre stata la sua unica attrattiva, giacché fraseggio ed interpretazione non l’hanno mai particolarmente interessata. Pessima, infatti, la Canzone del velo che richiede all’interprete un minimo di propensione al canto sfumato, all’allusione, persino al canto d’agilità che non è mai stato nelle sue corde e che non può entrarci adesso, sull’orlo della pensione.
Il potere della Chiesa è stato invece malamente incarnato da Anatoly Kotchergà, che sostituiva l’indisposto Matti Salminen. Kotchergà, un altro che non è mai stato un elegantone, non fa nessuna fatica particolare a classificarsi come il peggiore di unacompagnia che non ricorderemo per particolare virtù. Sin dal suo apparire, spara bordate terrificanti di suoni, cui Furlanetto risponde per le rime, affondando così la complessa drammaturgia di una delle pagine più affascinanti mai concepite da Verdi.
Dirigeva piuttosto malamente questo minestrone l’altrove non disprezzabile Daniele Gatti, uno di coloro che erano stati indicati tre anni fa come possibili successori di quel Cigno di Molfetta che, scacciato ignominiosamente dal trono scaligero, immaginiamo piegato in due dal gran ridere di fronte a figure così modeste, lui che invece era abituato ad accentrare su di sé oneri e onori di un’esecuzione.


Disastro quindi? No, peggio ancora: serata anonima, modesta e priva di vera passione o di quell’arrogante e presuntuoso alto sentire che è il presupposto indispensabile per la riuscita degli spettacoli che contano veramente. I cantanti hanno fatto il loro dovere senza fare sentire nulla di vergognoso (alla “Aida” di due anni fa si sentì ben di peggio), ma forse avremmo preferito: c’è qualcosa di torvamente grande anche nella vera miseria e ieri ci è mancato anche quello.
Abbiamo la sensazione che la mediocritas, nemmeno tanto aurea, regnerà indiscussa al Piermarini ancora per molto tempo

Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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