Editoriale: La baruffa e la frattura - terza parte - di Matteo Marazzi
Aggiunto il 31 Gennaio, 2016
I MEISTERSINGER DI KATHARINA WAGNER
La tradizione e i maestri.
Nel libretto la tradizione era l’antica arte dei Minnesänger, patrimonio di un popolo che sta costruendo la sua identità. Nello spettacolo di Katharina essa diventa, in generale, la cultura tedesca, che si erge alle spalle dell’uomo contemporaneo; naturalmente anche Richard Wagner ne è parte. I Maestri cantori del libretto erano i custodi dell’arte; nello spettacolo di Katharina essi divengono le élites accademiche e istituzionali, che fossilizzano la cultura invece di preservarla. La chiesa di Santa Caterina si tramuta in un’aula universitaria dove le arti sono oggetto di culto più che di studio. Gli apprendisti sono bidelli che attendono ai loro compiti come un piccolo esercito di automi; le loro uniformi e i caschetti biondi rimandano agli anni trenta, così come i movimenti rigidi e marziali, simili alle parate della Freie Deutsche Jugend. Il loro portavoce, David, non è giovane, né simpatico. È un tozzo assistente di mezz’età condannato alla manovalanza, ma felice della propria sottomissione: nel riordinare i gialli tascabili della Reclams Universal-Bibliothek (simbolo ricorrente), vi si immerge con commozione. Anche Eva indossa all’inizio un completo sobrio e di altri tempi: è figlia del “decano” Pogner e dunque subisce l’influenza del contesto. Solo l’amore per l’outsider (Walther) risveglia in lei un desiderio di affrancamento, simboleggiato – al secondo atto – da un abbigliamento più moderno e sensuale.
Walther secondo Katharina è l’artista controcorrente, ignorato dalla cultura ufficiale: ha l’aspetto del rockettaro d’altri tempi, sfrontato nei modi come nel look (pantaloni maculati, giacca di pelle, lunghi capelli biondi, occhiali da sole e soprattutto scarpe da ginnastica bianche alla Robert Smith). Benché sprezzante nei confronti dell’accademia – che imbratta compulsivamente di vernice – tenta comunque di entrarvi, per amore di Eva. Interessante è l’esame a cui
è sottoposto: un puzzle che raffigura Norimberga. Nel libretto si richiedeva un atto creativo, sia pure vincolato a regole e divieti; qua invece si impone di ricreare l’oggetto artistico come è sempre stato e come i maestri vogliono che resti. Walther fallisce, ma non per ignoranza: rifiuta di abiurare alla sua creatività e il Probelied diviene un gesto di riscatto. Dapprima compone il puzzle al contrario, con tetti e campanili che puntano verso il basso, quindi ridispone protervamente le tessere senza alcun ordine, ricavandone un’immagine astratta che impressiona Sachs.
I falsi rivoluzionari.
Grazie alle possibilità del distanziamento, Katharina può rivedere radicalmente il personaggio di Sachs. Per giustificare la sua funzione di mediatore, lo dipinge come il finto rivoluzionario, un potente cattedratico che si atteggia a radical-chic, a progressista, a contestatore del conservatorismo altrui, senza per questo rinunciare al prestigio del suo ruolo. I suoi abiti sono scelti con cura: un casual elegante ma moderno e una camicia scura aperta al collo; è l’unico dei maestri a non indossare giacca e cravatta. Importante è la questione della scarpe. Quelle dei maestri sono nere, lucide, formali; quelle di Walther, come si è detto, sono gym shoes bianche. Sachs invece è scalzo e lo resterà fino al terzo atto, come se da un lato rifiutasse di aderire alla conservazione, ma dall’altro non osasse indossare le scarpe della rivoluzione, che pure contempla con ammirazione durante il Fliedermonolog.
Alla fine del secondo atto si verifica qualcosa che cambia il mondo. Al posto della baruffa, Katharina colloca una vera e propria apocalisse culturale, evocazione simbolica del ‘68. L’arte controcorrente, finora repressa dall’autoritarismo dei maestri, rompe gli argini e i suoi simboli – associati a Walther – dilagano in scena. Litri di vernice bianca sono rovesciati sul palco; gli apprendisti infilano cappellini con la visiera al posto delle
parrucche bionde e scagliano tutt’intorno i tascabili della Reclam. Una baraonda di colori, balli, schiamazzi travolge la tradizione e gli stessi maestri: alcuni di loro, appollaiati sui praticabili, lasciano cadere le toghe restando miseramente nudi. I busti marmorei prendono vita, si umanizzano, danzano. E centinaia di scarpe bianche da ginnastica piovono sul palcoscenico.
Il crollo delle maschere.
In questo allestimento la baruffa assume un significato nuovo. È un discrimine universale, il confine della verità, una voragine aperta tra un prima e un dopo. Sul palcoscenico, al termine del finimondo, non restano che macerie e un’atmosfera pietrificata. Sachs, l’ex-agitatore, ora trema: raccoglie freneticamente i libercoli gialli, tutti laceri e imbrattati, li riordina, li ripulisce dalla vernice. Nemmeno Walther canta vittoria: attonito, sconcertato, lascia cadere l’inseparabile pennello e comincia a rassettare. Una reazione opposta viene da Beckmesser. Contrariamente ai finti rivoluzionari, l’ex-reazionario è trasfigurato dalla rivelazione. Al posto del completino a quadretti, da scapolo di mezz’età, si ritrova addosso una T-shirt nera, su cui scrive “Beck in town”. Ballando un valzer lentissimo con il busto di Hölderlin, il nuovo Beckmesser si guarda intorno, assorto e commosso al miracolo del rinnovamento.
Il terzo atto si apre con l’immagine di un Sachs distrutto. Dal suo elegante attico ha la visione di cosa comporti il sovvertimento culturale: i giganti della tradizione gli appaiono ora come figure patetiche, immerse nello squallore del quotidiano. Da una vetrata li scorge in abiti dimessi, accappatoi, canottiere, tute da casa: chi spazza i pavimenti, chi guarda la televisione, chi stende la biancheria. Fra loro c’è anche un malinconico Wagner che accarezza il suo cigno. Nel monologo sulla follia, il personaggio passa dallo sgomento alla determinazione e per la prima volta si infila un paio di scarpe: lucide e nere. Il passo
successivo è la conversione di Walther: Sachs gli dona un completo elegante e lo induce a ricusare le proprie ambizioni artistiche. Eva – infagottata in un tailleur albicocca da “signora bene” – ammira l’amante pettinato, ripulito, trasformato in fidanzato della porta accanto. Nel quintetto le due coppie – la piccola e la grande borghesia – si mettono in posa per fotografie di famiglia, con tanto di figlioli intorno.
Non resta più a Sachs che abbattere i propri spettri. L’interludio e la scena delle corporazioni diventano l’occasione di una pantomima invasata, nella quale Katharina calca la mano. Gli omuncoli dai testoni di cartapesta, che raffigurano i grandi della cultura tedesca, allestiscono per Sachs – legato – una rappresentazione “moderna” e dissacrante, infarcita di oscenità. Alla passerella finale per gli applausi si presentano anche un regista e un direttore d’orchestra: essi finiranno in un cassonetto metallico a cui Sachs appicca il fuoco come in una Bücherverbrennung. Anticipando i fischi “reali” che puntualmente riceverà, Katharina pensa in tal modo di mettere in scena anche se stessa.
Il torneo.
Dal fuoco che incenerisce la libertà dell’artista, Sachs estrae la statuetta di un cervo aureo. Esso fungerà da premio – insieme a un gigantesco assegno – nella gara di canto, trasformata in questo allestimento in una moderna kermesse nazional-popolare. Il coro, disposto su gradinate, funge da pubblico ed è speculare al vero pubblico della Festspielhaus; i programmi di sala (raffiguranti Cosima, Siegfried e Winifred) alludono apertamente agli spettatori di Bayreuth. L’unico vero artista rimasto è Beckmesser, che ha preso il posto di Walther come paladino della controcultura: ora è lui a indossare scarpe bianche da ginnastica. Citando Rienäker e Bloch, Katharina si aggrappa alla presunta modernità musicale del Preislied di Beckmesser per farne un’audace e serissima performance di arte concettuale, che ovviamente dà scandalo. Viene
poi il turno di Walther, sfavillante nel suo smoking: la sua esibizione è uno show da sabato sera, di pessimo gusto, ma il plauso del pubblico (al rallentatore) lo incorona vincitore. Sachs, che di tutto questo è l’artefice, rimane solo al proscenio per intonare la sua arringa finale, con piglio goebbelsiano. Luci dal basso lo illuminano come in un documentario di Leni Riefenstahl e due statue di Goethe e Schiller (erculee e dorate, nello stile di Arno Breker) si innalzano ai suoi lati.
Il pregio di questo climax retorico, che di per sé potrebbe sfiorare la faciloneria, sta nella controscena di Beckmesser. Il panico e lo smarrimento nei suoi occhi – come un silenzioso e terribile monito della Storia – e la brutale antinomia rispetto al trionfalismo delle fanfare rappresentano il momento più forte e immediato dello spettacolo.
I NUOVI MAESTRI
Nonostante i giudizi sfavorevoli, anche autorevolmente fondati, a Katharina Wagner va dato atto di aver sfruttato le possibilità del distanziamento per riaffermare la centralità della questione culturale nei Meistersinger. È vero che le conclusioni a cui perviene denunciano un’estrema ingenuità (la cultura borghese e consumistica alimenta gli assolutismi; l’unico intellettuale libero è quello contestatario), ma la nuova via può ora essere percorsa da altri interpreti e con maggiore profitto. Le realizzazioni immediatamente successive hanno in effetti accantonato le vecchie remore storico-politiche, per concentrarsi sulla dialettica tradizione/innovazione e sul ruolo che artista e pubblico vi svolgono. La prima in ordine di tempo – e per ora la più emozionante – si deve a Richard Jones (2010) (1), seguita a ruota da David McVicar (2011) (2), David Alden (3) e Stefan Herheim (2013) (4). Tutte le suddette produzioni superano di molto quella di Katharina e tuttavia vi si ritrovano stimoli e intuizioni che discendono direttamente da lei.
Un retaggio interessante, ad esempio,
riguarda il focus conclusivo su Beckmesser e l’idea di servirsi di lui come guasta-finale, nota dissonante nell’assertività entusiastica dell’happy end. Vi ricorre anche McVicar, benché i suoi Meistersinger si basino su un realismo estremamente tradizionalistico. Il suo Beckmesser esibisce per tutta l’opera una natura melliflua e caricaturale, da dandy imbranato; al finale però – mentre il popolo e i maestri esultano alla perorazione sull’arte tedesca – egli conquista un’inaspettata gravità. Isolato, ai margini del palco, rivolge a Sachs uno sguardo talmente carico di amarezza, che questi, fulminato, lascia il plauso che lo avvolge e si inchina al vecchio nemico. È un’ammissione di colpevolezza a cui il Merker, voltandosi e uscendo, non risponde. Il silenzioso rimprovero del personaggio più burlesco squarcia il fondale festoso e smaschera in Sachs il fondatore di una nuova demagogia, che abbatte contemporaneamente tradizione e innovazione.
Altro elemento presente in Katharina e ricorrente nei successivi allestimenti è la ridefinizione, in chiave contemporanea, della tradizione. Nella sua regia essa non rappresenta più il blocco della conservazione, ma semplicemente l’eredità del passato, in cui, col trascorrere del tempo, conformisti e anti-conformisti sono confluiti. Lo stesso Wagner, che ai suoi anni sfidava la tradizione, oggi ne fa parte. L’accezione è la stessa dello spettacolo di Richard Jones, che però, nel raffigurare la tradizione, non si ferma al Romanticismo e al primo novecento, come i busti e le cartapeste di Katharina. Il suo sipario è un enorme collage di ritratti, in cui Fassbinder, Beuys, Karajan e la Schwarzkopf fiancheggiano Bach, Kant, Nietzsche e Wagner. Con Jones, insomma, spariscono le fratture storiche e culturali che ancora ossessionano la Germania (la seconda guerra mondiale, il ’68…) e la heil'ge deutsche Kunst torna a essere un patrimonio universale di cui gioire assieme a Sachs, senza più stolti sensi di colpa. Il vero nucleo
della sua regia, d’altronde, non riguarda il dualismo fra tradizione e innovazione, ma quello – ugualmente importante – fra verità e retorica, fra Nature e Tabulatur. I primi due atti si dipanano come il tripudio della finzione artistica: un’accurata ostentazione di manierismo e un sapiente gioco teatrale. La scenografia è astratta e coloratissima, i costumi cinquecenteschi, la recitazione coreografica. La baruffa però – proprio come con Katharina – apre una voragine. Un Nachwächter spettrale come la morte srotola una corda che divide in due il palcoscenico e Sachs, difensore della verità nell’arte, si ritrova dalla parte del pubblico, sprofondato nella realtà. L’abitazione in cui si risveglia, con sgomento, al terzo atto, è dei nostri giorni, concreta e prosaica fin nei dettagli più infimi, nel disordine di attrezzi e utensili accatastati, nella polvere depositata sugli scaffali, nelle lattine di birra abbandonate sotto il divano. La rappresentazione della verità incorpora lo spettatore, lo imprigiona ai suoi tempi e alla dura luce del mattino, lo costringe ad assistere alla desolazione di sentimenti repressi e solitudini lancinanti. Lo schianto è insostenibile: nell’angoscia del protagonista, ora prigioniero della verità, il pubblico riconosce il proprio bisogno di fuggirne. Ma dalla realtà non si fugge se non con l’arte; e quando Sachs, pentito, educa Walther alla simulazione e riporta lo spettacolo a una dimensione simbolica e immateriale, lo spettatore riprende a respirare.
Anche Stefan Herheim, maestro del trompe-l'œil, conduce Richard Wagner sulla scena, ma non limitandosi – come Katharina o Jones – a farne un monumento della tradizione. Nel suo spettacolo è un uomo in carne e ossa, anzi è il protagonista: è l’autore alle prese con le drammatiche scelte dell’atto creativo. L’attore che ne veste i panni è lo stesso cantante scritturato per la parte di Sachs; già durante il preludio lo si vede intento a comporre, nel cuore della notte, pazzo diispirazione. Fra i mobili del suo studio, occhieggiano tre busti in marmo (altro topos del dopo-Katharina): Beethoven, Goethe e un terzo invisibile, coperto da un drappo verde. Quando l’opera inizia, i personaggi dei Meistersinger si materializzano sullo scrittoio – opportunamente ingigantito – come tanti lillipuziani partoriti dalla fantasia dell’autore; alla rappresentazione anche Wagner prende parte, recitandovi ovviamente il ruolo del burattinaio: Hans Sachs. Durante la baruffa però (ancora un cosmico spartiacque) l’equilibrio creatore/creature viene meno: i personaggi si ribellano a Wagner e – circondati da piccoli esseri biedermeier emersi dai recessi infantili della sua coscienza, come favole di Grimm – ne rifiutano l’autorità. È forse questa la condizione dell’arte? Un conflitto fra volontà e coscienza?
Al terzo atto Wagner è nuovamente nel suo studio, in camicia da notte. La luce del sole lo costringe a rivivere gli orrori della notte appena trascorsa: la sua opera è insorta contro la sua volontà e, nutrendosi dei suoi più inconfessabili segreti, ha imboccato una strada in cui egli non può, né vuole, seguirla. Quando però è raggiunto dai propri attori – uomini e donne reali, non più rimpiccioliti – Wagner riprende coraggio: li sprona a immergersi nell’artificio teatrale e a prepararsi per una grande rappresentazione (il quadro finale dei Meistersinger). Ora Wagner/Sachs ha nuovamente il controllo: solo dominando la propria arte, asservendola alla téchne e sradicandola dagli impulsi segreti dell’anima, può entrare nella grande tradizione tedesca (durante il quintetto scopre l’ultimo busto: il suo). Al finale Wagner/Sachs celebra se stesso e la tradizione di cui ora fa parte; quindi, come fulminato, cade a terra, restando per qualche secondo invisibile dietro al coro. Quando lo si rivede, è nuovamente in camicia da notte e sta agitando, superbo, fogli pentagrammati. Ma c’è una novità, di cui il pubblico può accorgersi solo dopo qualche attimo: avestire i suoi panni ora non è più l’interprete di Sachs, ma quello di Beckmesser (il “guasta-finale” di Katharina). Con stizza l’autore – ora Wagner/Beckmesser – comprende ciò che è diventato nel momento in cui, istituzionalizzando la propria arte, le ha impedito di nutrirsi del suo Io più profondo. Mai il tema derisorio che risuona in orchestra alle ultime battute (lo stesso con cui Beckmesser era stato denigrato dalla folla) è parso tanto sinistro.
Matteo Marazzi
NOTE:
(1): Welsh National Opera e successivamente English National Opera.
(2): Glyndebourne, quindi Chicago e prossimamente San Francisco
(3): Nederlandse Opera di Amsterdam
(4): Festival di Salisburgo e successivamente Parigi, New York, Milano