Editoriale: Turandot alla... televisione - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 02 Maggio, 2015
Puccini – Turandot
Direttore Riccardo Chailly
Regia Nikolaus Lehnhoff
Scene Raimund Bauer
Costumi Andrea Schmidt-Futterer
Luci Duane Schuler
Coreografia Denni Sayers
CAST
Turandot Nina Stemme
Altoum Carlo Bosi
Timur Alexander Tsymbalyuk
Calaf Aleksandrs Antonenko (1, 5, 8, 12, 15, 20); Stefano La Colla (17, 23)
Liù Maria Agresta
Ping Angelo Veccia
Pang Roberto Covatta
Pong Blagoj Nacoski
Mandarino Gianluca Breda (1, 5, 8, 12); Ernesto Panariello (15, 17, 20, 23)
Principe di Persia Azer Rza-Zada
Prima Ancella Barbara Rita Lavarian
Seconda Ancella Kjersti Odegaard
Alla fine, trionfano in tre: Chailly, Agresta e Tsymbalyuk. Come dire che non ha vinto nessuno, perché vuol dire che lo spettacolo ha fallito sul fronte principale, quello cioè su cui normalmente si concentrano le aspettative del pubblico.
In attesa di gradite riflessioni da parte di Maugham, presente fisicamente allo spettacolo, proverò a partecipare quelle maturate davanti alla televisione, che non è il mezzo ideale per valutazioni di questo genere, ma un’idea la permette comunque.
Lo spettacolo, del 2001, è puro Regien-Theater di vecchio stile, che non destruttura ma semplicemente decontestualizza. La differenza non è sottile: i costumi, i ventagli, le maschere, tutto rimandava a una Cina semplicemente spostata di tempo e di luogo. La storia è la stessa: quella di Gozzi, di Puccini, di Adami e Simoni; quella raccontata infinitamente meglio dal tanto bistrattato Zeffirelli, che era narratore tanto quanto Lehnhoff ma lo faceva senza nascondersi dietro al dito della modernità. E per un’opera come Turandot, nata all’ombra di Erwartung e Pierrot Lunaire non meno che delle nevrosi di un Novecento non solo iniziato ma che aveva già attraversato il massacro della Prima Guerra Mondiale,forse sarebbe il caso di osare qualcosa di più che la simbologia da quattro soldi di un regista che ho apprezzato molto di più in altre occasioni.
Un regista che, peraltro, non sa nemmeno gestire né le masse, tenute immobili in guisa di spettatori, né tanto meno i cantanti: vedere Antonenko girare come uno zombie, fare il gesto del trionfo come un bulletto di periferia o la manina come un tenorastro da teatro parrocchiale di Roccacannuccia Inferiore, be’, è qualcosa che ha definitivamente stufato.
E si taccia della solita Liù remissiva sino al masochismo, o della Turandot-vampiro (che tale è anche nell’abito) che attira i maschi nella sua tana per mangiarli, o di altre sottolineature ridicole, come per esempio tutti i riferimenti alla verginità della Principessa…
È assurdo che si sia sentita l’esigenza – giustissima – di superare l’impasse del finale Alfano (compresso e mutilato da Toscanini) affidandone la riscrittura a un grande autore del Novecento come Luciano Berio che si faceva garante di tutte queste mediazioni culturali, e non di un profondo rinnovamento della drammaturgia che si nutrisse, una volta per tutte, di tutto questo retroterra, nella cui esistenza dobbiamo probabilmente individuare la più importante difficoltà di Puccini nel concludere l’opera.
Il finale di Berio è interessante e, tutto sommato, molto tranquillizzante; al limite anche adatto a due cantanti in palese difficoltà nel gestire una vocalità che si avvicina terribilmente a un declamato tirato e acutissimo, soprattutto Turandot, anche sui social c’era chi invocava il legato di matrice belcantistica. In quest’ottica, terribilmente sbagliata è apparsa la scelta di una grande Artista come Nina Stemme, per la quale mi sono spellato le mani due mesi fa a Zurigo, ma che qui è apparsa fragile e in enorme difficoltà per tutto ciò che era al di sopra del si bemolle: vale a dire, i tre quarti della sua parte. La voce è enorme, così come il carisma; ma è ormai una Mödlche affronta una delle parti più acute del repertorio.
Ma molto peggio di lei, anche perché mancante di quella classe che invece caratterizza la cantante svedese, è apparso Aleksandrs Antonenko, con voce più grossa che grande, dotato di qualche bel do ma, in compenso, totalmente privo di musicalità. Si è inventato una corona inesistente sulla “i” di Liù nel suo primo arioso; ha sciabattato allegramente in tutto il primo atto; ha compitato un modestissimo “Nessun dorma”; si è preso una bella bordata di fischi e buu alla fine. Unico rilievo interessante, un secondo atto sugli scudi perché ha potuto mettere in mostra gli acuti, anche se in modo totalmente scollegato da quanto stava succedendo in teatro, con particolare riferimento alla voce “soprano”.
Bene Maria Agresta, che ha cantato in modo molto classico la propria parte, riportando Liù dalle parti di Mimì e Butterfly, come ci si aspettava, ma lo ha fatto con proprietà e sicurezza.
Bene, anzi molto bene Tsymbalyuk, che ha fatto valere le ragioni di vocalità e presenza.
Molto bene anche l’Imperatore di Carlo Bosi, mentre solo discrete sono sembrate le tre maschere.
Splendida, anzi fantastica la direzione di Chailly, che avvalora con una prestazione super la scelta che la Scala ha fatto di investire su di lui: l’orchestra ha suonato meravigliosamente, con una varietà di colori iridescente che ben faceva sentire il profumo di Primo Novecento e tutte le tensioni di cui parlavamo prima. L’accompagnamento al canto è stato amorevole e ricco di buon senso.
Una delle migliori direzioni possibili di questo capolavoro e, spero, la premessa ad altre direzioni che mi auguro di pari bellezza.
Pietro Bagnoli