Lunedì, 07 Ottobre 2024

Editoriale: Ricordando Magda Olivero (1910-2014)

Aggiunto il 12 Settembre, 2014

In questi giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Magda Olivero, le tante commosse partecipazioni di amici e appassionati di tutte le età, espresse soprattutto nei social media, sono risucchiate dal “fragoroso silenzio” di radio, TV e stampa ufficiale con effetti particolarmente spiazzanti. E serpeggia, qua e là, tra gli interventi, la percezione dell’”inattualità” di questa interprete, consegnata comunque, e già da lunghissimo tempo, alla storia del canto e del teatro musicale.
Su questo tema mi propongo di formulare alcune considerazioni, con la premessa che della Olivero sono stato sempre un estimatore convinto e, di più, un appassionato, anche perché, per ragioni anagrafiche, ho avuto la fortuna di seguire dal vivo a Trieste cinque sue grandi interpretazioni (Tosca, Fanciulla, Fedora, Voce umana, Dama di picche) oltre ad un recital vocale, nell’arco di tempo dal ’63 al ’76. Per altro, alieno per natura e per posizione da idolatrie incensatorie, e diffidente verso chi celebra genericamente la grandezza dell’arte con l’”a maiuscola” a prescindere.
L’ovvietà della considerazione che la “grandezza” di Magda Olivero sia legata al suo tempo, principio valido, del resto, per qualunque altro artista,sottende il rischio di un certo semplicismo liquidatorio di fronte a cui mi pongo qualche interrogativo in più. Nel caso di una parabola umana così estesa, nella sua straordinaria longevità, più che mai, secondo me, bisognerebbe differenziare il discorso biografico sulla persona dalla valutazione complessiva dell’interprete.
Sul primo punto, quello umano e biografico, è incontestabile che con lei sparisce la sopravvissuta testimone di una stagione storica – di una civiltà operistica – ampiamente lontana e tramontata, quella di una cantante che si era nutrita della vicinanza ad un mondo musicale che annoverava i rappresentanti più significativi, ormai maturi, della giovane scuola che nel primo quarantennio del ’90 aveva consolidato (e stava per esaurire) la sua fortuna esecutiva sulle scene italiane.
Il secondo aspetto, quello cioè della contestualizzazione di Magda Olivero come interprete, è a mio avviso molto meno scontato. Proprio l’estensione della sua carriera in un arco temporale che va dagli anni ’30 a tutti gli anni ’70 e la fortuna che di tutte le sue diverse stagioni interpretative rimangano testimonianze audio impongono di cercare di circoscrivere meglio le coordinate del suo tempo artistico, della sua “storicità”. Anche perché l’immagine che si deduce dalla carriera della Olivero è tutt’altro che quella un pezzo di antiquariato monolitico, ma conosce molteplici svolte e discontinuità di scelte, segnando delle tappe di una maturazione vocale e di un’evoluzione di interessi e di “colori” interpretativi che ha significato un’inesauribile ricerca del nuovo e dell’inedito, una capacità di accogliere sfide e rimettersi in discussione.
Le escursioni che contrassegnano la storia interpretativa della Olivero non sono da poco: dall’approccio in chiave belcantistica ai ruoli più lirici della giovane scuola degli anni ’30 alle scelte più spinte, dopo la lunga pausa negli anni quaranta,della seconda fase della carriera, in quegli anni ’50 che segnavano un dirottamento accentuato di gusto e di sensibilità, dominato, oltre che dal ciclone callasiano e dal revival di una cantabilità più legata ai canoni ortodossi della scuola italiana con Renata Tebaldi, dalla comparsa di cantanti/attrici di formazione e di gusto “neorealistico”meno coturnate di quelle delle generazioni precedenti, dalla gestualità icastica e di forte presa, intercettate, spesso efficacemente , anche dal nuovo medium televisivo, facilmente prestate, e con successo, al repertorio della giovane scuola – penso, una per tutte, forse curiosamente la sola vera “rivale” della Olivero in alcune contemporanee ma non convergenti prese di ruolo, a Clara Petrella (nei medesimi anni Iris, Manon Lescaut, Adriana… ) - fino d arrivare alle sperimentazioni, in qualche caso tutt’altro che sporadiche, della sua ultima stagione – dalla sensazionale Medea di Dallas del ’67 in poi – in territori apparentemente lontani dal suo substrato d’origine, da Poulenc (Voce umana entra stabilmente nel suo repertorio sino alla fine) a Janacek (Kostelnička in Jenufa alla Scala nel ’74) a von Einem (Visita della Vecchia signora a Napoli nel’77)…
Quale delle tante Olivero consegna alla storia dell’interpretazione vocale e teatrale il suo suggello più personale e compiuto? Nell’orizzonte delle mie scelte personali – che ovviamente sono solo una mia proposta - additerei la parte più interessante delle sue testimonianze nelle opere complete registrate dal vivo, in particolare nel periodo ’59-’67 (grosso modo, dalla Francesca scaligera alla Medea di Dallas). Quindi, proprio negli anni in cui la maturazione espressiva, vocale e drammaturgica in senso più completo, la allontanavano un po’, pur senza farlo rinnegare, dagli orizzonti della sua prima formazione.
Erano quegli gli anni in cui i ruoli sopranili pucciniani e “giovane scuola”, accanto alla Olivero, erano appannaggio, oltre che della citata Petrella, soprattutto di cantanti della generazione anni ’20-‘30, di cantanti – come ad es. Rosanna Carteri, Marcella Pobbe, Virginia Zeani- che, oltre ad esibire un’avvenenza giovanile di forte presa quasi cinematografica che costituiva una carta vincente per la loro popolarità, esprimevano un gusto musicale più sobrio ed asciutto di quello del periodo in cui la Olivero si era formata.
Spiego le ragioni della mia preferenza per le registrazioni di opere integrali. I primi dischi registrati in studio alla fine degli anni ’30 e quelli successivi dell’inizio anni ’50, come pure gli innumerevoli recital ripresi nel corso della sua carriera, sono incentrati tutte sul pezzo chiuso, sul numero staccato. Questo contesto, se da un lato assicura, ameno nelle riprese in studio, un nitore vocale che dal vivo talvolta si appanna, dall’altro fa emergere quello che è l’aspetto più caduco del suo approccio, quel manierismo a cui non pochi alludono come scorie di un gusto oggi attardato, l’indulgenza a centellinare eccessivamente le dinamiche perdendo la quadratura della frase e a disperdersi nell’effetto fine a sé stesso. Certo, di perle espressive se ne trovano moltissime – si ascolti ad es. la fissità allucinata e bamboleggiante dell’arioso iniziale di “Senza mamma” in Angelica nel disco Cetra anni ‘40 – ma il limite pesa, all’ascolto, oggi più che mai.
La prospettiva cambia di molto, secondo me, se esaminiamo le registrazioni dal vivo (o comunque realizzate nell’arco di una ripresa completa) di opere integrali nella fase mediana della sua carriera. Nei primi ’60, infatti, l’irrobustimento del tessuto vocale e l’affievolimento del vibrato stretto si accompagnano al maturare di un gusto più sorvegliato, ad un porgere la frase con un’incisività più scandita ed asciutta, rispettosa dei tempi drammaturgici della situazione operistica e senza le sbavature che la virtuosa delle dinamiche si concedeva nei recital.
Anche la scelta di affrontare certi ruoli quasi da caratterista di compositori contemporanei – come nella Guerra di Rossellini – contribuisce certo ad ampliare la gamma delle sue caratterizzazioni, ad arricchire il suo temperamento e stimolare la sua fantasia interpretativa accentuando la scioltezza e la disinvoltura dell’attrice e la capacità di rivestire di tinteggiature sempre nuove i suoi approcci ad un ventaglio molto vasto di situazioni espressive, ben oltre i limiti di scuola di un soprano lirico a cui il suo primo decennio di attività era sembrato ancorarla.
Certo, la propulsione emotiva rimane sempre una componente essenziale della sua maniera di interprete, e a farsene un’idea completa bisognerebbe disporre anche di testimonianze video della sua presenza scenica estremamente dinamica e duttile – comparata ovviamente ai tempi in cui la

figura del regista era pressoché inesistente - che ovviamente non possediamo, e che farebbero capire il magnetismo ad alta temperatura che la sua presenza era in grado di sprigionare in mezzo al pubblico, attestato dalle reazioni pressoché costanti del pubblico e di buona parte della critica.
Oltre a questo, però, in molte di quelle registrazioni si possono cogliere benissimo, anche al solo ascolto, le innovazioni che l’interprete riusciva a trasmettere nello scavo del fraseggio e dell’accento, nella capacità di variare in maniera caleidoscopica la resa dei differenti momenti drammatici e musicali di una parabola operistica, inventandosi colori inediti in rapporto alle diverse situazioni teatrali.
Se dovessi scegliere un personaggio esemplare di questa ricerca inesausta, ad onta delle tante conclamate Adriane, Iris e Fedore, indicherei – con convinto azzardo - le numerose registrazioni di Fanciulla degli anni ’60 (da quella del ’62 al S. Carlo, a quella di Venezia del ’67, per tacere di quella triestina del ’65 su cui ovviamente la mia soggettività avrebbe un peso soverchiante, essendone stato spettatore …).
Nella resa di questo ruolo, che troppi soprani hanno risolto con un approccio tendenzialmente monolitico, vuoi in chiave di epica wagneriana cfr. Nilsson o altre vocalità di alto tonnellaggio, vuoi – secondo una seconda linea interpretativa - in stile da epopea western, la Olivero riusciva a far vibrare tutte le increspature nevrotiche di una partitura e di un dramma pienamente inseriti nella temperie musicale e drammaturgica del primo ‘900 europeo, apparentandola strettamente, inoltre, alle consorelle pucciniane (Tosca Butterfly Angelica) in un caleidoscopio inesauribile di cesellature psicologiche che ne mettevano in risalto , con una tavolozza variegatissima di atteggiamenti, ora l’abbandono emotivo ora la trepidazione fino alla convulsione e all’isteria, per concludere con una sorta di problematica catarsi finale che sirifletteva nel’accento più grave ed arcano dei suoi interventi vocali nell’atto conclusivo.
La Fanciulla della Olivero è un ritratto psicologico e musicale convulso e tormentato, che riflette, per intuito, le affinità tutt’altro che sotterranee fra Puccini e il pre-espressionismo straussiano, rifuggendo dalla visione a tutto tondo un po’ “american way”con cui spesso tale ruolo è stata risolto; nella sua complessità di sfaccettature non è secondo, almeno a mia personale opinione, ai traguardi che la Callas in quei medesimi anni, o poco prima, aveva raggiunto in tutt’altro repertorio. Si può considerare, questa intuizione, un segno storico ben preciso, che apre la via ad altre più moderne accezioni interpretative pucciniane? Secondo me, sì.
Discorsi analoghi meriterebbero altre sue interpretazioni, come – per restare in ambito pucciniano - la Manon di Amsterdam del ’63 (lontana da disuguaglianze di emissione ed anche da eccessi nel declamato che inficiano un po’ le sue Manon dei primi ’70), o la Francesca del ’59 alla Scala, dove l’Olivero, se manca di quella cantabilità aulica che la giovane Gencer sapeva consegnare in quegli stessi anni al personaggio, restituisce al fantasma dannunziano dei risvolti crepuscolari che mai avevano trovato probabilmente fino a quel momento un così sofferto intimismo, un sapore di decadentismo come condensato di un’intera civiltà musicale – lo stesso, del resto, che è stato ampiamente riconosciuto alla sua Adriana e in particolare al disfacimento estenuato del quarto atto, un’elegia del tramonto di un’epoca oltre che della morte di un’attrice.
E qui – ma qui soltanto – trovo pertinente il richiamo, che più di qualcuno talvolta ha fatto, alla mitologia di Gloria Swanson e di Viale del tramonto, che nel complesso mi pare un po’ limitativo per definire la parabola di un’interprete che ha sempre guardato avanti a sé fino alle sue ultime prove, aliena da nostalgie regressive per lo meno finché è durata la suamilitanza attiva sulle tavole del palcoscenico. Anche questa propulsività è una lezione di coraggio e di ottimismo che di lei ci resta, come interprete e come persona.
Molte altre disamine sarebbero ancora meritevoli, sia sulle testimonianze di quel periodo citato sia negli approdi della maturità estrema, e molti altri ascolti riserverebbero probabilmente emozioni inedite. Ma spero che il tempo, quel tempo cui Magda Olivero si è sempre affidata nel suo lunghissimo arco esistenziale con tanta pazienza, restituisca le occasioni adeguate per contestualizzare la giusta prospettiva di questa singolare figura di interprete.

Fabrizio de Castro

Categoria: Editoriale

 

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