Sabato, 27 Luglio 2024

Editoriale: Venite onorateci, signori e signore - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 23 Giugno, 2014

Terribile, la nuova stagione della Scala.
Davvero terribile.
Anche a non voler parlar male a tutti i costi dei brain storming che generano questi obbrobri, rimane difficile capire il modo in cui vengono assemblate opere ed esecutori; sembra quasi che ci sia una specie di regia perversa nel cercare di fare male a tutti i costi qualunque cosa.
Senza entrare in dettagli opera per opera, devo dire che è difficile capire cosa ci sia da deplorare maggiormente.
La scelta dei titoli è atroce. Un Fidelio inaugurale diretto dal solito Barenboim, con un cast da periferia tedesca, in cui l’unico elemento di modesto interesse è la regia di Deborah Warner; e nel resto della stagione poco, pochissimo altro. Forse solo l’Otello di Rossini diretto da Gardiner con Kunde e Flòrez (ma la Peretyatko è lì perché fa anche Desdemona nell’Otello verdiano?...).
Gli interpreti sono scelti fra quanto di peggio offre il mercato e anche il loro posizionamento è penoso. Basti pensare all’accoppiata verista che assembla Garanca e Kaufmann in “Cavalleria” e Berti/Cedolins in “Pagliacci”: follia allo stato puro.
Beatrice Uria-Monzon in “Tosca” è una scelta atroce (ma anche Alagna non scherza); ma mai come Cura in “Carmen”.
Il Villazon attuale – declamatore spompo e spolpo – è un assurdo controsenso nel Mozart di “Lucio Silla”: a dirla tutta e a muso duro, è una scelta assolutamente demenziale.
Le scelte conservatrici – che dovrebbero essere rassicuranti – consistono invece nello schierare Mosuc e Grigolo in “Lucia” o, peggio del peggio, Leo Nucci e Ruggero Raimondi nel “Barbiere”; quello, ovviamente, di Ponnelle.

Dei direttori, Pretre ha tali e tanti problemi di salute che il forfait è implicito; e Maazel – schierato in una Aida – ha detto pochi giorni fa che non dirigerà più; quindi, si prepari alla bisogna Nello Santi, veterano di mille Aide areniane, nonché il segno più tangibile dell’arrivo di Pereira. E non aggiungo altro.



L’insistenza nel riproporre allestimenti e interpreti ormai consegnati alla Preistoria – soprattutto nei titoli italiani – deve fare riflettere profondamente. Capisco il fatto che non ci siano più soldi, ma ormai sappiamo che i titoli non si ringiovaniscono affidando le produzioni gloriose di una volta agli interpreti di adesso.
E la “Bohème” di Zeffirelli deve essere messa in naftalina. Basta. Non se ne può proprio più.
È uno spettacolo che ha scritto la storia del teatro d’opera, ma ormai non ha più nessun senso: smettiamola davvero, per piacere. Oltre a tutto non è nemmeno riscattato da interpreti che possano ridargli nuovo smalto, giacché trattasi di cast non interessante né significativo del periodo in cui viviamo.
Lo stesso dicasi – e mi spiace – per l’inqualificabile proposta di Leo Nucci e di Ruggiero Raimondi ultrasettantenni in un allestimento del rossiniano “Barbiere” che è quasi più agé di loro.

La stagione manifesta, tanto per cambiare, la perenne assenza di – cito alla rinfusa – titoli come “Semiramide” o “Tancredi”; di Haendel o di Vivaldi (e in Italia avremmo anche uno dei massimi studiosi mondiali del geniale musicista veneziano, e cioè Federico Maria Sardelli); di americani contemporanei; di Verismo che non sia Puccini o Pag&Cav; di Prokof’ev, Šostakovic, Mussorgsky; di autori francesi con opere meno frequentemente rappresentate della solita “Carmen” o di “Manon”: penso, per esempio e tanto per citare le prime che mi vengono in mente, a “Fra Diavolo”, “Esclarmonde”, “Grisélidis”, “Roi de Lahore”, “Muette de Portici”, “Mireille”, “Jolie fille de Perth”.
Invece, la mancanza pressoché costante di orchestre e artisti specializzati nel Barocco viene quest’anno compensata almeno parzialmente da Alessandrini, Gardiner e Minkowski, anche se questi sono da considerare ormai atti dovuti e non scoperte particolari, ove si consideri la loro presenza pressoché costante in tutti i più grandi teatri

del mondo.
Ma nemmeno questi sono i veri problemi…

Credo che i peccati maggiori di queste proposte si riassumano in un concetto: quello della mancanza di un’anima, di un’identità ben riconoscibile. E questo, per la Scala, è un peccato gravissimo.
Ne parlavo con l’amico Vittorio Mascherpa: con tutti i suoi terribili difetti, il ventennio mutiano si segnala ancora oggi per un’identità. Egocentrica finché si vuole, ed estremamente limitativa nel suo escludere tutte le personalità che potevano fare ombra alla personalità prevaricante del direttore, ma riconoscibile ancora oggi.
Invece, la gestione Lissner prima, e l’incipit di quella Pereira mancano totalmente di un’anima, di un’identità che vada al di là di reclutare ciò che sembra essere il meglio a disposizione (e non lo è affatto) in rapporto al budget a disposizione.
Per fare un paragone calcistico (triste per me) è come ragionare sul Milan degli ultimi anni: mancanza di un progetto, giocatori spompi, vecchi e bolsi, pagati una fortuna solo per invogliare i tifosi a fare l’abbonamento, ma senza che ci sia una collocazione dettata dalla necessità in squadra.
Alla Scala di adesso, è la stessa cosa.
Non c’è progettualità, sistematicità, capacità di assemblaggio.
Non sembra nemmeno esserci conoscenza del repertorio che giustifichi scelte artistiche.
È incredibile che qualcuno pensi a Grigolo come al nuovo “tenor italian style”, definizione in cui sono via via rientrati personaggi diversissimi come Caruso, Gigli, Pavarotti e, più recentemente, Bocelli: Grigolo viene proposto esattamente come gli spaghetti alla bolognese di cui si parla nei libri esoterico-turistici ambientati fra Firenze e Roma da Dan Brown, senza che nessuno si ponga alcun problema sugli ambiti in cui potrebbe rendere al meglio delle sue possibilità.
È incredibile che si prendano due gloriosi vecchietti per assemblare un vecchio “Barbiere” che diventa paradigma scaligero

del modo di proporre l’opera italiana.
È incredibile che Villazon venga impiegato in un’opera di Mozart, quando non ha più risorse nemmeno per quei brani da camera di Verdi in cui sembra essersi recentemente specializzato.
La filosofia è quella di prendere artisti-figurine da esibire sul sito, ma senza pianificarne l’attività in modo tale da renderli coinvolgenti e coinvolti.
Il nome è o è stato “famoso”? Tanto basta.
Poco conta se il suo arruolamento in un titolo sia un clamoroso errore di distribuzione.
Poco conta se vengono scritturati artisti che non si esibiranno mai.

Manca un’identità, una traccia, qualcosa che renda immediatamente riconoscibile la Scala, un segno ben preciso, una carta, un codice identificativo, una firma.
Così com’è, la Scala assume la fisionomia di un politeama che assembla stagioni non belle e senz’anima, riciclando per lo più robe vecchie e impresentabili.
Dal mio personalissimo punto di vista, davvero troppo poco
Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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