Sabato, 23 Novembre 2024

Editoriale: Giovane era, e bello - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 26 Gennaio, 2014

Adesso, non ancora proprio a bocce ferme ma sicuramente senza il groppo in gola di qualche giorno fa, siamo qui a riflettere in modo serio e costruttivo su quello che ha significato per noi appassionati il suo “attraversamento” del nostro mondo.
Siamo arrivati anche per lui al redde rationem, alla considerazione che abbiamo perso una delle poche, vere personalità internazionali, da esportazione che avevamo in Italia.
Una carriera da primo della classe, da enfant gaté della musica che lo aveva insediato a soli 35 anni in sella a quello che – all’epoca – era veramente il più importante teatro del mondo e che si sarebbe immensamente arricchito della sua presenza.
Come ci arriva?
Se vediamo la sua cronologia, non solo quella globale, ma già anche solo quella del periodo specifico, c’è da rabbrividire: è la storia umana di un vero Genio della Musica.
• 1969-1986: direttore musicale del Teatro alla Scala
• 1971: direttore principale dei Wiener Philharmoniher
• 1979-87: direttore della London Symphony Orchestra
• 1986: direttore della Wiener Staatsoper
• 1987: direttore musicale generale della città di Vienna.
• 1988: dirige il concerto di Capodanno sempre da Vienna.
• 1991: dirige il suo secondo e ultimo concerto di Capodanno
• 1991-2002: dirige i Berliner Philharmoniker, primo direttore non di area germanica eletto dai musicisti dell’orchestra subito dopo Karajan
• 1997: fonda la Mahler Chamber Orchestra
• 2003-2014: direttore della Lucerne Festival Orchestra
• 2004: fonda l’Orchestra Mozart
Ma, quando arriva alla Scala, molta della cronologia sopra citata è ancora da scrivere.
Varca l’ingresso di via Filodrammatici (quello dove entravano gli Artisti) forte del Premio Koussevitzky della Boston Simphony Orchestra vinto nel 1958 – a soli 25 anni! – che gli aveva permesso di dirigere la New York Philharmonic Orchestra.
Ci arriva forte di una

collaborazione con la Decca che gli ha già permesso di incidere 9 dischi meravigliosi fra il 1966 e il 1969 in cui sperimentava il suo primo Beethoven accanto a Hindemith, Prokofiev, Bruckner. C’è persino Janacek accanto a Verdi, il che in fondo non è tanto strano data l’attenzione che entrambi pongono all’uomo e alla ribellione dei “diversi”.
Ci arriva in una Milano come quella del 1968, nel pieno di una contestazione importata (come gran parte di tutto ciò che succede in Italia) ma molto sentita; e lui è giovane, bello, bravissimo e di Sinistra.
Con lui gli operai della Breda, della Falck, cominciano a sentire al termine della loro giornata lavorativa la sua orchestra e Pollini che portano la musica nobile sino a quel momento riservata ai ricchi, nei luoghi di lavoro; e questo “fa” molto Sinistra, conveniamone.
Con lui la Scala guadagna un Verdi nuovo e un po’ desueto; non quello nazional-popolare, non quello della trilogia popolare (che infatti non avrebbe mai affrontato), ma quello più impegnato, difficile: Macbeth, Simone, Don Carlo.
Perché?
Mah. Difficile da dire ma potrebbe essere la politica, l’impegno, la difficile gestione del potere in mano ai potenti. Tematiche dure, impegnate, viste dall’ottica di quella “Sinistra al caviale” che lo aveva insediato lì dopo una lunga teoria di meravigliosi musicisti che non avevano avuto altra preoccupazione se non di far risuonare la musica dei Grandissimi i cui busti arricchiscono il foyer del Piermarini, e anche di quelli che non ci sono per mere ragioni di spazio e anche per un pizzico di italico sciovinismo.
Chi lo aveva preceduto, su quel podio?
Nell’immediato, Gianandrea Gavazzeni, vecchio gentleman della bacchetta, grande artigiano famoso per la devozione al canto e per la praticità dell’approccio (ricordate? Il “tagliator cortese”, quello che usava la forbice per rendere la materia più fruibile ai cantanti e al pubblico), forse non un musicista eccelso di quelli che sbancano e fanno notizia, ma comunque un raffinato intellettuale.
In precedenza, Arturo Toscanini, Victor De Sabata, il giovane e sfortunato Guido Cantelli per una brevissima stagione, Tullio Serafin, Carlo Maria Giulini, Antonino Votto… musicisti di varia estrazione, alcuni raffinati, altri meno, ma tutti profondamente musicisti.
Con Abbado prende posizione a Milano una nuova figura, quella dell’intellettuale di Sinistra: siamo nel Sessantotto, è quello che ci vuole esattamente in quella particolare stagione, in quel momento storico.
Abbado entra in relazione con i musicisti a lui contemporanei, ma anche con altri Artisti: è la genesi di un circolo culturale milanese, che ha il suo epicentro proprio alla Scala di Grassi e di Abbado, e che si spingerà sino agli anni della “Milano da bere” dominata e rovinata dal craxismo e dai clientelarismi.
Strehler diventa uno degli alter ego teatrali di Abbado, al punto che nel Macbeth è la sua voce a leggere la lettera al posto di Lady.
Ecco: se c’è una qualità di Abbado che emerge prepotentemente soprattutto in quella stagione, ma in assoluto sempre, è la sua capacità diabolica di fotografare con assoluta precisione il momento storico, e di calarsi nel periodo in cui vive. Abbado è figlio del suo tempo, lo legge alla perfezione e sa sempre quello che c’è da dire e come dirlo.

Simone, Macbeth e Don Carlo sono letti alla perfezione, e sono capolavori assoluti.
Ancora adesso: hanno retto alla perfezione alla prova del tempo. E questo non succede frequentemente nel mondo dell’interpretazione operistica.
Sono letture fresche, violente, rapinose; in questo, Abbado è coadiuvato dalla sua familiarità con i grandi musicisti russi che gli insegnano a dominare i movimenti delle masse.
Introdurre quest’idea in Verdi è semplicemente geniale.
Ma non è solo Simone e Macbeth.
E anche il Verdi di Aida – con Martina Arroyo e Jessye Norman ad alternarsi nei

panni della protagonista – e di Ballo in maschera, opera che lo farà conoscere anche a Vienna.
Farà gli inevitabili Otello e Falstaff a coronamento della sua Vita di Artista, ancora una volta lontano dalla Scala.
E poi c’è il Wagner di Lohengrin, con, Tomowa-Sintow e, se non sbaglio, Connell: quasi un cast da Karajan. Non farà Tristan alla Scala (lo farà invece ancora una volta Carlos Kleiber, con Ligendza e Wenkoff), e neppure Parsifal; farà entrambi molti anni dopo e altrove, con risultati alterni perché sarà finita l’ispirazione furiosa di quegli anni ruggenti.
Con lui arrivano artisti importanti e direttori ospiti di rilievo. Se non inaugura lui, c’è Carlos Kleiber che fa “Otello” con Domingo, Freni, Cappuccilli e la regia di Zeffirelli.
Essendo lui stesso globetrotter, capisce alla perfezione l’importanza di circondarsi di personaggi di prestigio, che contribuiscano a fare di Milano un attrattivo polo culturale aperto a tutte le tendenze contemporanee.
Questo ovviamente si riflette anche sul repertorio.
Quindi, non solo Verdi e Wagner, ma anche Nono, Stockhausen, Sciarrino, Schoenberg e soprattutto quel Berg di cui abbiamo avuto un fondamentale Wozzeck (anche registrato in audio e video), ma curiosamente non una Lulu, quanto meno non una Lulu fatta da lui; viene invece importato lo spettacolo di Chèreau, quello con la ricostruzione del Terzo Atto fatta da Cerha.
E a ciò si aggiunga una massiccia riscoperta – e il “ri” premesso alla parola “scoperta” non poteva essere che un’esigenza squisitamente italiana – di Mussorgsky, di cui organizzò alla Scala un vero e proprio festival che partiva da Boris e arrivava alla Fiera di Sorocinsky, passando attraverso la Khovanshchina, di cui è considerato ancora oggi interprete supremo, che però purtroppo non diresse.
Manca nel suo carnet Puccini, autore evidentemente estraneo alla sua poetica, ma che non è mai mancato alla Scala, benché affidato ad altre prestigiose

bacchette: si pensi, a titolo d’esempio, a Carlos Kleiber con la “Bohème” o a Lorin Maazel con “Turandot”.
Il più mitteleuropeo dei nostri direttori è stato il primo italiano a dirigere il Concerto di Vienna, portando uno struggimento e un languore che è stato replicato solo da Kleiber e Ozawa, e superato dal solo Karajan.
Ma è stato anche interprete meraviglioso di un’Elektra da Vienna che ricordo ancora come spettacolo capolavoro, portata letteralmente al calor bianco da un direttore ispiratissimo, con la regia di Harry Kupfer e la presenza di Eva marton, Brigitte Fassbaender e Cheryl Studer.

Non ho mai amato particolarmente il suo Mozart, mai veramente caratterizzato
E – Dio mi perdoni – non ho mai amato particolarmente il suo Rossini, eccetto il Viaggio a Reims (un vero capolavoro), anch’esso fiorito lontano da Milano.
È un Rossini trattenuto, quasi equivocato, come se la comicità non si addicesse al Cigno di Pesaro.
In compenso, siamo ancora a sdilinquirci per le pose vagamente intellettuali di Teresa Berganza che, peraltro, imperversa anche in Carmen alternando nasalità spagnoleggianti a pose da baldracca stantia, in un mistake completo di un personaggio che avrà bisogno di Maria Ewing (peraltro, proprio la Melisande di Abbado!) per trovare la sua prima vera collocazione attendibile.
Purtuttavia, come è giusto che sia, va sottolineata la rivoluzionaria storicità dell’approccio. Nel momento in cui Abbado registra il Barbiere, e siamo nel 1971, nessuno lo ha ancora sentito così: la resa sonora è levigatissima e la trama sorprendentemente leggera.
Per me, anche tenuto conto dei tempi, è un Rossini un po’ troppo serioso (ma non erano anni di grandi risate); ma, piaccia o no, è un approccio che cambia le regole del gioco. E quindi è un approccio storico; e basterebbe solo questo ad assicurare ad Abbado un posto nell’Olimpo dei Grandi Interpreti di tutti i tempi.

Amo invece ferocemente

il suo Mussorgsky.
Il suo Boris inciso per la Sony è il classico disco da isola deserta.
La sua Khovanshchina, se possibile, anche di più. Questa, in particolare, mi ha aperto un mondo sconosciuto sia in termini di impasti timbrici, sia di impatto di masse corali

E amo, ovviamente, tutto il repertorio sinfonico che ha nobilitato con il suo tocco levigatissimo come mai nessun direttore italiano prima di lui: Beethoven (le sinfonie, ma anche i concerti incisi con Pollini), Mahler (una Terza semplicemente da brivido), Prokofiev (il meraviglioso disco contenente Alexander Nevsky, la Schytian Suite e il Lieutenant Kijé è, ancora all’ascolto odierno, un capolavoro), Brahms, Bruckner, e quei meravigliosi Gurre Lieder di Schoenberg palpitanti di una bellezza eterea e diafana.

Rimane – dicevo – il suo testamento spirituale: il Fidelio di Lucerna.
Recensendolo per Operadisc scrivevo: “Abbado è probabilmente il primo che si pone il problema di guardare a quest’opera come a una diretta emanazione dei grandi capolavori mozartiani; e, se non il primo in assoluto (in parte lo avevano già fatto sia Gardiner che Harnoncourt), è comunque il primo a farlo in modo così strutturato. Lo fa con un’orchestra meravigliosa, che forse non ha mai suonato così bene, ma soprattutto facendo sentire un’idiomaticità, una tale appropriatezza di linguaggio, che è impossibile non rimanere coinvolti”.
E poi:
“Sin dall’ouverture, affrontata con leggerezza e splendida percussione dall’orchestra di Abbado, comprendiamo la vera matrice di quello che, forse per la prima volta, ci appare non come il prototipo dei grandi capolavori ottocenteschi, ma come l’ultimo grande fremito del Settecento che finisce. Il Settecento rivoluzionario, quello che era passato attraverso il Terrore prima e Napoleone poi, e che si dovrà confrontare con la squallida restaurazione del Congresso di Vienna, con Metternich e Talleyrand… Ne deriva quindi, e come logica

conseguenza, la prospettiva affascinante di un’orchestra che guarda maggiormente a Mozart, e non solo quello coturnato delle grandi opere serie, ma anche quello dei capolavori scritti con Da Ponte, quello cioè su cui vengono costruiti i personaggi di Jaquino e Marzelline che, infatti, ricevono da Abbado un rilievo molto maggiore che in altre incisioni celebri…”

Oggi come oggi, amare Abbado non deve voler dire beatificarlo.
Non ha cercato l’approvazione a tutti i costi di chiunque: ha imposto le persone a lui gradite in posti chiave, ha imposto autori che sono stati dimenticati dal tempo, con logiche che sono quelle comuni di tutti gli uomini di potere.
Lo ricordo una sera, in una trasmissione televisiva: intimava a Fazio di dargli del tu, con quella finta confidenza da uomo di Sinistra invecchiato. E il conduttore, esponente di una Sinistra più giovane e forse un po’ più rispettosa di quella demagogica e violenta dei suoi antenati, giustamente continuava a chiamarlo Maestro, con rispetto infinito e quasi timore.
Analogamente a un altro grandissimo direttore molto spocchioso, presenza fissa alla Scala sotto il regno di Abbado – mi riferisco ovviamente al geniale e antipaticissimo Carlos Kleiber – non ha voluto esplorare altri mondi che gli sarebbero stati assolutamente congeniali, a cominciare proprio da quella Lulu sempre accarezzata ma mai posseduta; e avremmo fatto volentieri a meno, in cambio, del terribile Ciclo della Luce del megalomane e dimenticabilissimo Stockhausen.
Le sue performances degli ultimi anni mi sono sembrate chiassose (Falstaff), prive di sale (Mozart) o francamente inutili; e comunque, con la sola eccezione di Fidelio, non avvicinabili a quei grandi capolavori che avevano caratterizzato l’apogeo della sua parabola creativa.
Ma, ciononostante, l’Uomo rimaneva un’icona, con una specie di torva grandezza, emaciato e febbrile, con lo sguardo ardente, con un carisma infinito, quello di chi Grande loè per meriti acquisiti sul campo, anche se la Grandezza è ormai decaduta, portata via da una vecchiaia mal tollerata, devastata dalla malattia e solo mitigata da tutto lo sforzo formativo per le orchestre giovanili che sono il suo lascito principale.
È stato un’icona, lo è tuttora.
Lo abbiamo amato ferocemente, con tutti i suoi difetti.
La terra gli sia lieve
Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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