Lunedì, 07 Ottobre 2024

Editoriale: Der Ring des Nibelungen: un B movie con musica d'autore? - di Francesco Brigo

Aggiunto il 10 Gennaio, 2014

Si può capire il perché di un Ring come quello prodotto dal Metropolitan. In fin dei conti, l'America è il paese di Hollywood, di Walt Disney, e dei fumetti Marvel. Ma il problema è che di Tetralogie come quelle messe in scena da Lepage a New York da un po' di tempo a questa parte se ne stanno vedendo molte (o forse troppe) e dappertutto: Audi ad Amsterdam, Fura dels Baus a Firenze e Valencia, Cassiers a Berlino e Milano... Il mondo intero è sommerso da un profluvio di effetti speciali, corazze dorate, spade laser, scenografie hi-tech, guerrieri con le corna e valchirie biondissime e trecciolute. Proprio come cent'anni fa. Sembra davvero che, dal binomio "Storia e Mito" (binomio che, dopo il Ring di Chéreau, aveva caratterizzato per una ventina d'anni quasi ogni produzione del capolavoro wagneriano), buona parte delle nuove produzioni della Tetralogia abbiano eliminato completamente il fattore "Storia". E’ rimasto il Mito. Forse nemmeno quello.
La storia dell'interpretazione del Ring des Nibelungen sembra davvero essere ciclica (forse un omaggio collettivo alla forma dell'anello maledetto?): partiti da Cosima Wagner, passati tramite Wieland Wagner a Friedrich e Chéreau, siamo tornati a Shenk, poi a Lepage, poi di nuovo a Cosima. E il cerchio si è chiuso. La Tetralogia è tornata ad essere (ma lo è mai stata?) solo un rocambolesco racconto di vicende mitiche (alla Tolkien) di dubbio interesse, avvenute in ere pre(i)storiche e che nessun legame hanno con noi uomini di oggi (o di ieri o di domani).
Del resto, si sa, la "Storia" può essere inquietante. Il Mito, invece, specie se condito con corna da vichingo e virago biondo platino, rassicura. Sempre. Senza considerare che, a differenza della Storia, il Mito funge da potente antidoto contro il noioso fastidio causato dal pensare (così, prima di entrare in teatro, oltre al cappello, lo spensierato spettatore ora può finalmente togliersi anche la testa).
Sarebbe assurdo negare l’esistenza di una

forte componente mitica nel Ring. Anche se, nel corso degli anni, profondamente diversi sono stati il valore e il senso dati alla rappresentazione del Mito nelle produzioni della Tetralogia. E, visto che stiamo parlando di modernità, tanto vale partire dall’inizio. Quindi, dal 1976.
Il “Ring del Centenario” voleva essere, nelle intenzioni di Chéreau e Boulez, una riflessione sul “continuo, dinamico oscillare tra l’epoca storica alla quale Wagner apparteneva (e dalla quale emergono con forza alcuni dialoghi, come quello, pre-ibseniano, tra Wotan e Fricka), e il passato mitologico attraverso il quale il compositore tenta di allontanare il suo presente, mascherandolo sotto un linguaggio arcaicizzante (Stabreime, allitterazioni, parole antiquate) che resta invece l’espressione visibile di un pensiero che si rifà all’attualità del 1848”. A partire dal 1976 sempre più spesso si cominciano a vedere nel Ring elementi figurativi propri del Mito, ma inseriti in contesti visivi che si rifanno a periodi storici più o meno definiti, ma sempre ben presenti. Prima del 1976, vedere in scena un Wotan impugnare la mitica lancia vestito come un ricco banchiere in redingote rossa sarebbe stato impensabile. A partire dal 1976, questo comincia a diventare la norma. Pur diversissime tra loro, produzioni importanti come quelle firmate da Kupfer (a Bayreuth e Barcellona), Kaspar Bech Holten a Copenhagen, Schlömer-Nel-Wieler/Morabito-Konwitschny a Stoccarda erano accomunate dal rifiuto del Mito come unica chiave interpretativa della Tetralogia. Oggi, invece, il Mito sembra essere tornato di moda. E così il cerchio si è chiuso: il Mito, dapprima interpretato ed impiegato come strumento di distanziamento critico, di straniamento estetico (in ossequio alla Verfremdung di Brecht) che – ostacolando l’immedesimazione illusionistica nella vicenda – facilitava la riflessione su quanto si vedeva rappresentato, torna ora ad essere il principale elemento costitutivo, ontologico del Ring. La

Tetralogia è (ri)diventata narrazione di miti fuori dal tempo e dalla storia. E la regia d’opera asseconda questa nuova (?) ideologia, creando spettacoli traboccanti di scenografie ipertecnologiche ed effetti speciali concepiti per stupire, per colpire la fantasia dello spettatore. Così, il Ring è diventato ciò che Wagner più aborriva: Grand opéra, divertissement per una borghesia che a teatro cerca solo evasione e divertimento. Un pubblico che sonnecchia per ore e ore sprofondato in poltrona, comodamente cullato dalle melodie wagneriane, salvo poi risvegliarsi per i pochi momenti topici nei quali si richiede al regista (e soprattutto allo scenografo) una profusione di effetti speciali e spettacolare grandiosità.
Il problema, però, è che il Ring è un’opera (o, più propriamente, una serie di opere) diversa da tutte le altre. Vi sono opere in cui un regista ferrato dal punto di vista tecnico può sperare di portare a casa la serata anche costruendo uno spettacolo che funziona dal punto di vista della forma, ma senza alcun contenuto. Per il capolavoro wagneriano è però tutta un’altra storia. Non si può pensare di tenere in piedi un’architettura così smisurata (anche in termini di durata) senza solide fondamenta contenutistiche. Né ci si può soffermare unicamente sui putti in marmo bianco di Carrara del controsoffitto, se l’intero palazzo poggia sulla sabbia. Invece negli ultimi anni stiamo assistendo ad una serie di produzioni della Tetralogia in cui cui la regia se ne va a spasso in pantofole per quattro quinti del tempo, salvo poi – in corrispondenza dei momenti di massima aspettativa del pubblico (“ah, che bella la cavalcata delle valchirie!”) – fare gran sfoggio di abito da sera con paiettes rosso fuoco e tacchi a spillo. Peccato che il Ring, più che una passeggiata domenicale o una sfilata d’alta moda, sia un’autentica maratona. Appassionante, certo, ma nondimeno defatigante. E, rispetto alle pantofole o ai tacchi da spillo, per una maratona di quindici ore

forse un paio di comode scarpe da ginnastica sarebbe ben più adeguato.
E’ stato detto che, se fosse nato oggi, Wagner avrebbe scelto di lavorare a Hollywood. Considerata la passione del compositore per donne e danaro, non ne dubito. Ma sarebbe stato un pessimo regista di fantasy. Per quanto tecnicamente solida, ogni impostazione registica che intenda ridurre il Ring ad una semplice narrazione mitica e fantastica è votata al fallimento di fronte alle straordinarie potenzialità linguistiche del cinema. Perché l’opera in generale, e il Ring in particolare, non sono è un film. E nell’opera, anche il più possente ed inespugnabile Walhalla registico è destinato a cadere come misero castello di carte di fronte al cinema (al suo montaggio, alla sua rapidità, alle sue illusioni, alla sua capacità di coinvolgimento emotivo dello spettatore).
Per cui, chi ce lo fa fare, a noi uomini e donne d’oggi, di tenere il fondoschiena incollato alla poltrona per una quindicina d'ore a guardare dei ciccioni che cantano in tedesco antico una vicenda che parla di Dei della mitologia nordica, uomini cornuti (nel senso reale e figurato), giganti, elmi magici e spade frantumate e riforgiate? Chi ce lo fa fare di andare a teatro e spendere tempo e denaro per un Ring come quello che ci hanno propinato i vari Lepage, Cassiers, Audi in questi ultimi anni? Se davvero ci si vuole immergere nel "mito" e nelle saghe nordiche, tanto vale guardarsi “Il Signore degli Anelli” di Peter Jackson: anche se, al confronto, la musica è scadente, la storia scorre via che è un piacere, non ci sono lunghe tiritere filosofeggianti, i dialoghi puntano all’essenziale, gli effetti speciali sono decisamente su un altro livello, c'è Cate Blanchett, e la recitazione è da Oscar! In alternativa, per i fumettari appassionati di teologia nordica, c'è sempre Thor…
Esagero? Forse. O forse no. Anche un wagneriano doc (nel senso di dottore in medicina appassionato di Wagner) come me, non può che sentirsi

un po' (anzi, un bel po'!) a disagio con spettacoli di questo tipo. Anche ammesso (ma non concesso!) che Wagner con la sua Tetralogia volesse (ri)creare un mito a-temporale e a-storico, noi uomini d'oggi siamo davvero disposti a rinunciare a vedere la "Storia" nel Ring? Chéreau ci ha fatto scoprire che quest'opera è (anche?) uno specchio della nostra società, della nostra vita. Vogliamo che lo specchio si appanni? Vogliamo davvero che questo supremo capolavoro del genio umano diventi (o torni ad essere?) un "B movie", anche se con musica d'autore?

Francesco Brigo
(Dottor Malatesta)

Categoria: Editoriale

 

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