Martedì, 12 Novembre 2024

Editoriale: FELICE ROMANI E LA TRAGEDIA VERTICALE: Le drammaturgie di “Anna Bolena” e “Parisina” a confronto - di Matteo Marazzi

Aggiunto il 14 Dicembre, 2012

Quello della colpa è un tema che Felice Romani non tratta con leggerezza. Nei grandi libretti che consegnò a Vincenzo Bellini e a Giuditta Pasta (Norma e Beatrice di Tenda) essa incombe di lontano, grava sulle coscienze e traspare da un reticolo di allusioni, rimpianti, simulazioni; in quanto tale non può che essere il frutto di una drammaturgia complessa e architettonica, che potremmo definire “verticale”.
In narrazioni più lineari, dove i fatti sono susseguenti e ben collegati e l’invisibile cede alla coerenza del visibile, la colpa risulterebbe diversa: esplicita, sordida, senza mistero, come piace ai Romantici. Meglio, allora, farne a meno. E infatti nella Parisina (che è un libretto di struttura “orizzontale”) Romani la sopprime. A forza di alterazioni e manipolazioni, egli trasforma un exemplum intramontabile di trasgressione morale in un amore edificante e stilnovistico. Nell’innocenza di Parisina - che contraddice la storia, le fonti letterarie e le aspettative del pubblico - scivola persino un’ombra di superbia che il librettista trasferisce all’eroina, fiera della propria irreprensibilità in faccia al marito, alla corte di Ferrara e a Dio.
Al contrario, nel libretto di Anna Bolena (esempio vertiginoso di drammaturgia verticale) la colpa è più che un tema: è gravame onnipresente che condiziona le architetture narrative e frantuma la mente della protagonista nelle multiple personalità della pazzia. E non si tratta della colpa che il marito, Enrico VIII di Inghilterra, vorrebbe imputarle, quell’adulterio di cui Anna è innocente quanto Parisina, tanto da chiamare a testimone Dio e la Storia. Il suo crimine è più remoto, sepolto in un passato oscuro e caliginoso: è l’ambizione a cui la regina ha immolato se stessa e il suo paradiso perduto.


Da Westminster al Belvedere.

Quando il 26 dicembre 1830 ebbe luogo al teatro Carcano di Milano la fortunata creazione di Anna Bolena, Gaetano Donizetti ebbe valide ragioni per ritenersi soddisfatto: un pubblico difficile e pretenzioso, a lui ostile, gli aveva attribuito un clamoroso successo, dai positivi riverberi internazionali, e il suo adorato Pigmalione, il grande compositore Giovanni Simone Mayr, lo aveva premiato col titolo di “maestro”. La maggior gratificazione però dovette consistere nella consapevolezza di aver marciato al passo di una poetica d’avanguardia, protetta dalle élites ma molto lontana da lui.
Lo stimatissimo poeta genovese Felice Romani, quarantaduenne “principe dei librettisti”, aveva perfezionato negli anni ’20 una drammaturgia di svolta, in cui la stilizzazione letteraria si fondeva a concezioni strutturali ampie e complesse. I suoi libretti – i più celebri dei quali scritti per Vincenzo Bellini, interlocutore ideale e (nonostante qualche baruffa) prediletto - furono tra i primi a portare nell’opera italiana l’afflato romantico, o per lo meno alcuni aspetti chiave come la pregnanza naturalistica, la tensione etica, l’aspirazione al sublime. Per altri versi però essi rivendicavano, con estrema convinzione, la filiazione dai modelli aurei del classismo: euritmia di architetture e armoniosa plasticità di affreschi. I personaggi poi erano ritratti psicologici sovente grandiosi, profondissimi, e non privi di lacerazioni sconcertanti, anche se mai platealmente estroversi: al“coup de théâtre” romantico e allo psicologismo tardo-settecentesco, ingabbiato nel nesso impulso-contraccolpo, Romani preferiva il mistero, l’insondabilità dell’anima e le sue segrete contraddizioni.
Il giovane Donizetti non era l’interlocutore più adatto a questo vasto progetto di profondità e rarefazione. Fin dalla sue prime esperienze, egli era stato attratto dal linguaggio nuovo e provocante del Romanticismo più radicale, che oltralpe andava contraddicendo l’antico “bello” in deformità notturne ed esasperati cromatismi. Dopo il 1835 – quindi pochi anni dopo la Bolena, libero ormai di inseguire le sue aspirazioni con i librettisti giusti - egli divenne il cantore del malessere a cui la borghesia europea si inchinò. I capolavori della sua maturità, in cui la dissociazione sfocia nell’urlo e l’oscurità si popola di paure, cambiarono il volto del melodramma e infiammarono un grande discepolo come Giuseppe Verdi.
Nel 1830 il vero Donizetti non era ancora emerso. La distanza che già lo separava dal neoclassicismo di Romani e Bellini non gli impediva di ammirarne i capolavori; con Romani i rapporti erano affettuosi: i due avevano già avuto occasione di collaborare, fra alterne fortune, nel corso degli anni ’20. Bellini invece non ricambiò la sua stima: oltre a una comprensibile diffidenza professionale, troppa era la distanza fra le sublimi elegie del catanese e l’idioma ansioso e grossolano del bergamasco.
La loro contrapposizione divenne presto un argomento da salotti e finì per solleticare l’intuito impresariale del duca Pompeo Litta. Questi, insieme ai suoi collaboratori (gli aristocratici lombardi Marietti e Soleri) aveva appena assunto la gestione di un teatro secondario di Milano, il Carcano e - nel progetto di una stagione tanto sensazionale da far vacillare la Scala - era riuscito a coinvolgere i maggiori artisti sulla piazza.
La rivalità fra Donizetti e Bellini lo spinse a commissionare una nuova opera a entrambi: rispettivamente Anna Bolena e La sonnambula. Per rendere più sapida la disfida, i due ebbero lo stesso librettista (Romani) e i gli stessi cantanti (divi stratosferici come Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini).
Sulla carta Bellini era avvantaggiato: a Milano circoli e intellettuali ne avevano fatto da tempo l’enfant chéri, mentre Donizetti non aveva raccolto che fischi. Inoltre librettista e cantanti erano partner ideali del primo, non del secondo: dei fantastici rapporti tra Bellini e Romani abbiamo detto; si aggiunga che l’ebbrezza vocalistica del tenore Rubini (già creatore di Bianca e Gernando e Il pirata) era l’ipostasi canora della poetica belliniana. Quanto all’enorme statura artistica di Giuditta Pasta, la storia avrebbe rivelato di lì a poco le incredibili corrispondenze che la univano al catanese (Amina, Norma, Beatrice di Tenda).
Tutto ciò non bastò a spaventare Donizetti, a cui, per compensazione, era toccato l’onore di aprire la stagione di Carnevale: ad agosto firmò un contratto che gli assicurava la non disprezzabile cifra di 650 scudi e dal quale sarebbe dipesa la sua gloria futura. Nondimeno egli comprese che per uscirne vittorioso avrebbe dovuto conformarsi profondamente all’estetica di Romani, che era la stessa di Rubini e della Pasta e che le tifoserie belliniane pretendevano.
Così fece. Il libretto (per la cui stesura Romani si prese tutto il tempo che volle, lasciando al compositore poche settimane per musicarlo) risultò uno dei più geniali ed estremi del suo catalogo. Donizetti vi si adeguò con tutto se stesso, dilatando gli spazi sonori, ampliando il respiro delle melodie, addensando i colori orchestrali. Come se non bastasse, si trasferì a Blevio sul Lago di Como, nella villa di Giuditta Pasta, dove attese alla scrittura a contatto con la primadonna, plasmando su di lei ogni respiro della parte.
La scommessa fu vinta come più non si potrebbe: Milano si inginocchiò davanti alla Bolena.
il trionfo fu tale non solo da oscurare I Capuleti e i Montecchi di Bellini (che la Scala per ripicca aveva presentato lo stesso giorno), ma da proiettare Donizetti nell’empireo dei più grandi operisti dell’epoca.

Vista in prospettiva, la Bolena resta un capolavoro singolare: una delle più grandi opere di Donizetti, e di tutti i tempi, ma non la più vicina alle sue ambizioni poetiche. Nelle fatiche successive, persino in quelle francesi, egli non trovò più (e nemmeno cercò) atmosfere sonore tanto sature e melodie tanto diluite. Nemmeno nelle seguenti collaborazioni con Romani si replicò una simile intesa, anche perché dopo la Bolena, forte diuna popolarità ormai internazionale, Donizetti divenne più fermo nel difendere le proprie rotte. Tralasciando il mezzo successo dell’Ugo conte di Parigi (1831), nel 1832 i due conobbero insieme un altro trionfo: quell’Elisir d’amore, in cui – forse per la fretta, eterno cruccio – cominciarono i primi nervosismi. L’anno dopo sarebbero arrivate Parisina e soprattutto Lucrezia Borgia, ma i rapporti si erano fatti tesi, con Donizetti che (coerentemente con la sua personalità e persino la sua poetica) implora chiarimenti e assilla l’interlocutore, e Romani che comincia a negarsi, a promettere e non assolvere, a trincerarsi dietro involute recriminazioni e sussulti di fierezza ferita. La personalità artistica di Donizetti era ormai troppo affermata per inchinarsi ancora alle ragioni di un librettista amato ma distante. Né Romani poteva, se non a malincuore, assecondare richieste (linearità più stringente di narrazioni e psicologie, dinamismo di nessi e articolazioni, esasperazione di reazioni e contrasti) che non sentiva. Lucrezia Borgia (creata alla Scala il 26 dicembre 1833) fu il punto di rottura: indotto a cimentarsi con un soggetto di scabrosa modernità (tratto da quel maledetto Victor Hugo, cantore di aberrazioni e conflitti grossolani), Romani premise al libretto un avvertimento dalle cui righe trapela amarezza e insoddisfazione. Nonostante alcuni tentativi di ricomposizione negli anni ’40 (puntellati ormai da freddezze e lontananze), il rapporto creativo fra i due era chiuso.
Parisina aveva visto la luce pochi mesi prima, il 17 marzo 1833 alla Pergola di Firenze. Il soggetto non solo era molto noto, ma anche sospettosamente simile a quello della Bolena; troppo per non cogliervi l’intenzione di replicare l’antico successo. Una sovrana torna sul patibolo ingiustamente accusata di adulterio, dopo essere stata esposta dal marito potente e prepotente all’onta di un processo: Anna diventa Parisina, Enrico VIII diventa Azzo duca di Ferrara e Riccardo Percydiventa Ugo d’Este.
A confermare le analogie fra i due libretti, nel plot della Parisina compaiono situazioni narrative (che Romani non trasse dalle fonti) identiche alla Bolena: l’esilio inflitto all’amante, il suo ritorno, il colloquio segreto interrotto dall’irruzione del marito, ecc...
Nonostante ciò il nuovo dramma risulta molto diverso. Invertiti i rapporti di forza fra librettista e compositore, ora è Romani che tenta di assecondare Donizetti in una narrazione più articolata e coesa, rinunciando alle imponenti strutture simboliche che avevano retto l’intelaiatura della Bolena. La gestione degli eventi e delle motivazioni si fa più lineare, più aggrappata ai nessi logici e alla loro concatenazione, ma - senza gli echi misteriosi e le trasparenze congeniali al poeta - anche più prosaica. Al centro della nuova tragedia, la duchessa di Ferrara supplisce con la combattività alla perdita di chiaroscuri; se Anna era una tipica eroina romaniana, Parisina anticipa semmai le regine nere e le grandi pazze che faranno, di lì a poco, la gloria di Donizetti.
Va anche detto che i cantanti per cui la nuova opera fu scritta erano ben diversi dalla tripletta del Carcano e qualsiasi librettista che avesse a cuore un debutto avrebbe avuto cura di valorizzare le caratteristiche dei creatori, specie trattandosi di star che percepivano compensi ben più elevati dei suoi.
La fiammeggiante primadonna austriaca Carolina Ungher (Parisina) e il veemente tenore Gilbert Duprez (Ugo) cavalcavano un’espressività più moderna e battagliera della Pasta e di Rubini: per lei, dall’estensione mezzosopranile e gli slanci ferini (non a caso poco gradita a Bellini), Romani non avrebbe mai mantenuto i recitativi vasti e ipnotici plasmati sul più forte magnetismo della Pasta, né una psicologia altrettanto conturbante e sfumata.


L’ombra del passato

Le prime differenze fra la verticalità di Anna Bolena e l’orizzontalità di Parisina sipossono riconoscere nella gestione dell’antefatto e nei modi in cui esso incide sul presente: l’infanzia delle protagoniste, l’antico sentimento, le nozze senza amore e l’ascesa al trono, tutti nodi che il librettista affida al passato. In Parisina essi appaiono più misurabili e coerenti; meno esposti alla manipolazione del ricordo. Non vi è congruenza al contrario fra l’antefatto di Anna Bolena (la purezza dell’infanzia, la relazione con Enrico VIII, la rottura con Percy, l’ascesa al trono) e la situazione presente: delle premesse conosciamo gli esiti ma non i percorsi che a essi conducono. Le articolazioni restano nell’ombra e i ricordi dei personaggi - inquinati da idealizzazioni e rimorsi - mancano di nitore.
Delle origini di Anna Bolena e della sua educazione continentale (Paesi Bassi e Francia) nulla affiora dal testo; l’unico richiamo all’infanzia è la visione delirante del castello avito, di indefinita collocazione, più locus amoenus dell’anima che spazio reale. Anche Parisina rimpiange la fanciullezza perduta, ma nel suo caso le coordinate spazio-temporali sono chiaramente fissate: la Padova dei Carraresi.
Di genitori e parenti la Bolena non fa menzione. È vero che suo fratello, Lord Rochefort, è attivo in scena e funge da confidente di Percy, ma anch’egli è ormai lontano dal comune passato: è un cortigiano della Londra dei Tudor, macchiato, come la sorella, dalla colpa connessa a quel distacco. Parisina ricorda invece con piacere i fratelli e la “paterna corte”. Quanto a suo padre, il “pro’ Carrara”, è tanto presente, benché invisibile, da agire sul plot: estromesso dal governo della sua città, viene salvato dall’esercito estense.
Dall’infanzia al presente, le tappe della vita di Parisina (tutte inventate da Romani) sono pazientemente esposte, collegate a giunture che ne rendono logico lo svolgersi. Sappiamo che si trasferì molto giovane a Ferrara dove conobbe Ugo, il “fatal giovinetto” in compagnia del quale è cresciuta: il lorosentimento partì come gioco fra ragazzi per diventare un amore potente e inconfessato. Da allora una costante infelicità ha oppresso il cuore della donna, prima e dopo le nozze col duca. Così solidamente imbastito nel passato, il presente di Parisina non ha nulla di misterioso.
Se Ugo e Parisina non hanno coronato il loro affetto, non fu per colpa loro: né il tempo, né le avversità avrebbero potuto modificare un sentimento che procede uniforme dal passato. Al contrario fu Anna a tranciare, intenzionalmente, il legame con Percy. Sotterrato in un tempo indefinito, confuso fra i piani della narrazione verticale, questo gigantesco trauma narrativo ed affettivo introduce il tema della colpa.



Storicamente Ugo d’Este era il figlio del marchese di Ferrara Niccolò III: figlio illegittimo (nato da una celebre favorita, Stella dei Tolomei) ma pur sempre riconosciuto ed erede designato alla reggenza.
L’infamia della sua morte è legata a uno degli avvenimenti più imbarazzanti mai occorsi fra le mura di casa d’Este. A rendere tanto famosa e famigerata la relazione fra lui e Laura Malatesta (detta “Parisina”, ossia la parigina per la rinomata eleganza) era la parentela, seppure acquisita, che li univa: ella era infatti la seconda moglie di Niccolò III e dunque matrigna dello stesso Ugo.
Lo scandalo della loro relazione carnale fu ben più di un adulterio: fu quasi un incesto, coronato, come è normale, da un epilogo cruento. Rocambolescamente scoperti e sommariamente processati, marchesa ed erede furono decapitati.
La vicenda ebbe un’eco vastissima presso i posteri, scavalcando in indecenza l’archetipo classico di Fedra (che almeno con Ippolito non consumò). La novella che Matteo Bandello ne trasse un secolo dopo elevò il caso da sordida cronaca cortese a modello di amor tragico; fu però il poemetto composto nel 1816 da lord Byron (che vi impresse il sapore romantico di una rivolta dei sentimenti contro la morale) afungere da fonte a Romani.
A Byron si devono il nuovo nome di Niccolò (ribattezzato Azzo) e l’idea di far confessare Parisina nel sonno. Ben più vistose però furono le alterazioni che Romani operò di sua iniziativa.
Per prima cosa mitigò la scabrosità dalla vicenda. Il suo Ugo non è il bastardo di una favorita: lo si crede un orfano, ma in realtà è figlio legittimo del Duca, nato da una precedente moglie ripudiata per sospetto adulterio. Questa non meglio definita Matilde si portò dietro nell’esilio anche il bambino in fasce, a sua volta disconosciuto da Azzo; prima di morire, però, riuscì ad affidarlo a un virtuoso consigliere del Duca, Ernesto, che lo riportò a Ferrara facendolo passare per il proprio figlio adottivo. Azzo accettò di tenerlo a corte e, senza mai sospettare di esserne il padre, lo fece crescere fra i propri paggi.
Tranne che a Ernesto, a nessuno è nota la parentela, e in questo modo svapora anche l’ultimo residuo di colpevolezza dell’amore fra Ugo e Parisina: la consapevolezza del legame di sangue fra amante e marito.
Redenta la scandalosa love story, a Romani preme che Ugo assomigli il più possibile al Percy della Bolena, replicandone le funzioni e magari il trionfale ascendente sul pubblico. A forza di alterazioni e stratagemmi, riesce anche in questo. E così l’amore dei due giovani è sospinto in un passato remoto, prima delle nozze fatali, proprio come quello di Anna e Percy. Come Percy anche Ugo deve subire un ingiusto confino che enfatizza la prepotenza del blasonato marito e conferisce un tocco di dolcezza alla malinconia dell’amata. Infine, sempre come Percy, anche Ugo riappare a corte a rischio della vita, avvolgendo la propria figura di sofferenza e coraggio cavallereschi. Mentre però con Percy (della cui storia nulla sappiamo) l’indefinitezza è allegorica e spirituale, con Ugo tutto questo dettagliare e argomentare porta a un biografismo piuttosto rugginoso.

Un altro clamoroso elemento didiscontinuità nell’antefatto di Anna Bolena è rappresentato dal rapporto fra la protagonista e il potere. La Bolena che vediamo in scena detesta la propria “corona di spine”, ma un tempo l’ha desiderata al punto da sacrificarle la propria felicità.
Una tale incoerenza non si replica con Parisina, che ha sempre visto nel trono nient’altro che un’odiosa costrizione. L’italiana può ricordare con fierezza di aver versato lacrime il giorno delle nozze; al contrario l’inglese, rivivendo il matrimonio nella scena del delirio, non piange affatto, anzi si infastidisce del cordoglio colto negli occhi delle dame (Piangete voi? Donde tal pianto? E’ questo / giorno di nozze! Il re m’aspetta! E’ acceso, / infiorato l’altar).
Entrambe le coppie regali vivono, al presente, un rapporto conflittuale, ma nel caso dei duchi di Ferrara tutto ci dice che è sempre stato tale: il tempo lo ha esasperato, non modificato. A Parisina da sempre ripugna l’affetto del consorte, il quale invece - con altrettanta costanza - l’ama e l’ha sempre amata; la consapevolezza di non essere corrisposto lo porta a una smaniosa infelicità che alterna collera, sospetti e tenerezza. Nemmeno il risultare distruttiva per la moglie toglie coerenza alla sua passione, che è quella tipica di un baritono da opera italiana.
Ben diverso e ricco di ambiguità è il rapporto fra Anna ed Enrico, che sappiamo radicalmente mutato negli anni: un tempo appassionato, ora ridotto a un cumulo di macerie. Il Tudor che vediamo in scena prova solo repulsione per Anna, ma in passato la sua passione fu talmente sincera da indurlo a sfidare per lei l’intera Europa. Ancora più complessi da ricostruire sono i sentimenti di Anna per lui; ipocriti, ambiziosi, in parte, eppure lei stessa li qualifica come un “altro affetto” (espressione che mai una Parisina destinerebbe ad Azzo). Non vi è modo di raffigurarsi a ritroso la drammatica evoluzione del loro legame, mancando il libretto di nessi logici, narrativi epsicologici che possano illuminarci; Romani però (coerentemente con la natura verticale del testo) ci offre un appiglio squisitamente architettonico, grazie al quale possiamo immaginare Anna ed Enrico ai tempi del loro innamoramento: il gioco di specchi che permea il libretto.
La storia di Anna si riflette magicamente in quella che - nel presente - sta vivendo la sua rivale, Giovanna Seymour, nuova amante del re. Gli appassionati confronti a cui assistiamo replicano quelli che, in un passato riflesso, si consumarono fra Anna ed Enrico. Tutte le incertezze e le disperazioni di Giovanna (le resistenze, i sensi di colpa, il presagio della propria rovina) ma anche la compresenza di amore e ambizione non solo ci illuminano su come dovette svolgersi la passione fra il re e la Bolena, ma quasi giustificano la fatale scelta di quest’ultima.


La giustizia degli uomini e di Dio

A Londra come a Ferrara, l’infelicità del matrimonio dei sovrani è cosa nota e l’atmosfera di oppressione che si respira a corte è la stessa che grava sui castellani; diversi però sono i comportamenti di questi ultimi al cospetto di terzi.
Nella narrazione orizzontale faticano a trovar spazio dissimulazione e formalità, e così Azzo e Parisina gareggiano nell’esibire i loro stati d’animo. La duchessa, in particolare, ostenta le sue manifestazioni emotive come ritorsione contro il marito: la mestizia sapientemente sfoggiata e l’insolente ritrosia con cui disdegna le manifestazioni pubbliche sono altrettante sfide al cospetto della corte.
Al primo atto, sperando di renderla felice, il duca le invia uno squadrone di cavalieri perché la invitino a presenziare alle feste; ma la donna, prima di rispondere, si informa: “forse il duca v'invia?”; ottenuta risposta positiva, decide di negarsi.
Cambierà idea più tardi, dopo che il duca ha riammesso Ugo a corte e gli ha concesso di gareggiare al torneo: a quel punto non solo è ben lieta diintervenire alla festa, ma non fa mistero del suo ardore eccitato e di un’insolita felicità; esultando per gli ardimenti agonistici di Ugo e mostrandosi ridente come mai, Parisina sa di sconcertare la corte e di ferire il marito, ma la provocazione è per lei vitale: se altri le possono imporre un matrimonio, nessuno può impedirle di essere felice e infelice a suo estro.
Nell’Anna Bolena avviene il contrario: i comportamenti dei sovrani sono all’insegna della simulazione strategica e quindi, benché tutti conoscano - perfino Percy appena rientrato dall’esilio - lo stato pietoso del loro matrimonio, essi continuano ad affettare in pubblico un rituale di finte attenzioni e studiate galanterie.
Strepitosa in questo senso è l’ottava scena del primo atto. Avendo appena riammesso Percy nella capitale, Enrico si appresta a concertare l’incontro fra lui e la moglie, in un’occasione pubblica, nell’umore mattutino del parco di Windsor, mentre in sottofondo i corni annunciano la caccia reale; egli e l’intera corte potranno così studiare le reazioni degli antichi fidanzati che si rivedono dopo tanti anni.
Diversamente da Parisina, Anna non trascura il suo ruolo istituzionale e così, ignara della trappola, si trascina al cerimoniale. Enrico, fingendo sorpresa, la saluta cavallerescamente: “Desta sì tosto, e tolta / oggi al riposo?”. Non senza un’ombra di sarcasmo ma fedele al protocollo, la regina risponde: “In me potea più forte / che il desio del riposo / quel di vedervi. Omai più dì son corsi / ch’io non godea del mio signor l’aspetto”. Salutando Percy, confuso fra i cavalieri, il re costringe la moglie ad accorgersi della sua presenza: il trasalimento che ne consegue dovrà essere celato in un’indifferenza che ogni presente saprà ben interpretare. Mescolando finta ammirazione e canzonatura, Enrico si compiace della rapidità con cui Percy ha accolto il suo invito a tornare; il giovane, conformandosi al rituale, risponde sollecito: “Un solo istante, o Sire,/ che indugiato mi fossi a far palese / il grato animo mio, saria sembrato / errore ad altri, a me sembrò delitto”. Ma quando si protende a baciare la mano del sovrano, questi gli impone invece di baciare quella di Anna, che – a suo dire – avrebbe perorato la sua causa tanto da indurlo alla grazia (“Innocente io vi credei / perché tal sembraste a lei”). Costringendo i due antichi amanti a un simile contatto fisico al cospetto suo e di tutti i cortigiani, Enrico varca il confine fra etichetta e sadismo: il bacio che Percy imprime sulla mano di Anna produce uno schianto tanto più grandioso, quanto più dovrà risultare invisibile.
Anche tra l’ostentazione provocatoria di Parisina e i doppi, tripli piani di questa scena si apprezza la dissomiglianza fra l’impianto narrativo delle due opere.

Con perfetta sovrapponibilità, il ritrovarsi degli antichi amanti porta in entrambe le opere a un colloquio segreto e chiarificatore, dove il sentimento è dapprima ammesso, quindi assolto dall’impegno di non vedersi più. Entrambi gli incontri sono però troncati dal blitz del legittimo consorte: è questo il vertice dell’epitasi, giustamente posto, nei due libretti, alla fine del primo atto.
Per Anna Bolena (accusata di adulterio insieme a Percy, suo fratello e persino il paggio Smeton) è l’inizio del lungo, soffocante iter processuale che occuperà tutto l’atto successivo e metà del terzo. È curioso però che l’udienza - tipico archetipo melodrammatico - non si tenga alla vista del pubblico, in un grande tableau che sarebbe stato d’obbligo in Francia o in Germania: Romani costringe lo spettatore a seguirlo indirettamente, dietro un portone chiuso, nell’oscurità di anonimi androni dove gli imputati e i testimoni passano, scortati dalle guardie, e i cortigiani commentano a bassa voce. Con l’avanzare delle scene l’affresco si fa sempre più cupo, congelato in un clima immobile e irrisolto, in cui il tempo si allenta in attese angosciose e filtri alterano lapercezione della verità.
Anche nella Parisina Romani si inventa una lunga situazione “esterna”, rappresentata indirettamente, che si sovrappone all’azione.
Per volontà del duca, la vittoria sugli insorti di Padova deve essere celebrata con pubblici festeggiamenti per tutta la giornata. Ancora una volta quello che poteva diventare un grande quadro di massa è relegato da Romani fuori dalla vista del pubblico. Dei tornei e dei balli che avvolgono la città allo spettatore giungono solo echi, descrizioni e riflessi: cori di battellieri che approdano dal Po, racconti eccitati di dame, risonanze lontane di sistri. La differenza, rispetto al processo della Bolena (dove l’atmosfera esterna amplificava l’angoscia dei personaggi), è che il tripudio della città di Ferrara è in contrasto con la tragedia degli individui: Romani tenta insomma, invece delle trasparenze a lui più congeniali, la carta del contrasto espressionistico, che la librettistica italiana successiva (in particolare Francesco Maria Piave) avrebbe imparato a sfruttare meglio.
Tornando al processo, a rigor di logica esso avrebbe dovuto replicarsi tal quale nella Parisina, tanto più che la storia e le fonti letterarie insistono sul giudizio sommario a cui gli amanti di Ferrara furono sottoposti e sull’atmosfera lugubre (che non sfuggirà a D’Annunzio) delle segrete in cui furono rinchiusi. Dato però che la drammaturgia orizzontale ha le sue regole, nella Parisina esso risulta stringente e precipitoso e, naturalmente, alla vista del pubblico.
Per riempire il vuoto lasciato dal lungo processo, Romani complica l’intreccio di Parisina con una sequenza di peripezie (più accademiche che convincenti) che qualche critico trovò “semplicetta”. Al momento del blitz Parisina riesce a cavarsi di impaccio: per giustificare l’incontro segreto con Ugo, afferma di essere stata avvicinata da lui solo per intercedere presso il duca. Più o meno convinto, Azzo non dà seguito alle accuse, anzi revocal’esilio al giovane; quella stessa notte però la duchessa addormentata si lascia sfuggire, in presenza del marito, parole d’amore per il rivale. Svegliata da un Azzo furioso, essa non vede più ragione di celare i sentimenti e anzi ne rivendica con orgoglio purezza e legittimità. Nella scena successiva cade l’interrogatorio, in cui i due imputati, in catene, sono chiamati a rispondere della presunta tresca. Ancora una volta a imporsi è la spregiudicatezza dialettica di Parisina che assumendosi le proprie responsabilità, pone il duca di fronte alle sue. La sua determinazione si trascina dietro l’amante, inizialmente riluttante all’idea di un’aperta confessione. La sentenza è però congelata dall’improvvisa rivelazione della consanguineità di Azzo e Ugo (che finalmente Ernesto palesa per salvare il giovane). Ugo morirà comunque, assassinato dal padre, ma gli sarà risparmiata l’onta del patibolo. Anche a Parisina sarà concessa la stessa deroga rispetto alla Storia: morirà soffocata dalla propria disperazione, come già l’eroina di Byron, in una sorta di lungo Liebestod a cui è dedicato il terzo atto.

Non è dagli uomini e dai loro tribunali (verso i quali entrambe nutrono fondate perplessità) che le sovrane si aspettano giustizia: lo scioglimento delle rispettive tragedie potrà venire solo dopo la vita, anche se ciò che esse chiedono al Cielo è molto diverso.
Parisina aspira ossessivamente alla morte: sogna ad occhi aperti un Paradiso di luce e serenità, opposto alle tempeste dell’esistenza umana, dove potrà assaporare quei sentimenti che ora le sono proibiti. La Bolena non si dilunga mai, al contrario, in rappresentazioni ultraterrene, né potrebbe cercarvi ciò che sulla terra le è negato, dato che ella, a differenza dell’italiana, avrebbe potuto avere tutto se non vi avesse criminosamente rinunciato.
Anche le sventure che ora le assillano sono interpretate diversamente dalle due eroine: Anna vi legge la punizione per il proprio peccato;Parisina, non attribuendosi alcuna colpa, le giustifica piuttosto come l’accanimento di un destino iniquo e indecifrabile.
Parisina non teme il giudizio di Dio, che al contrario atterrisce Anna. La consapevolezza del proprio delitto è per quest’ultima un macigno da rimuovere, un nodo atroce da sciogliere; nulla vi potrà essere per lei di risolto o di risolutivo (nemmeno la morte) senza la remissione della colpa. Anna non può morire se prima non ha trovato il modo di estirpare il conflitto e acquistare “clemenza e favore / al cospetto di un Dio di pietà”.
Alleggerita da un simile peso, si potrebbe pensare che Parisina coltivi una religiosità più serena e tradizionale, ma così non è. Indotto dalla drammaturgia orizzontale a puntare sulla pugnace concretezza della donna, Romani dovrà ridimensionare l’ultraterreno; il suo Dio - che non può più accusarla, né giudicarla, né atterrirla e nemmeno mitigare le disgrazie che ingiustamente la perseguitano - finisce per diventare un’ombra. L’occasione di calcare sul pedale non sfugge al gusto per le psicologie raffinate di Romani, che ne approfitta per spingere la donna su posizioni (originalissime all’epoca) di miscredenza e sfiducia nella preghiera. Sul finire dell’opera, a un passo della blasfemia, la duchessa incolperà il Cielo anche della percezione di morte che l’assale .


Anna allo specchio

Per più di metà dell’opera, Anna Bolena sembra ignorare che il re la tradisce: torna con insistenza sull’ostilità che egli nutre per lei, ma delle infedeltà subite non fa mai menzione. Nel contorto viluppo di ambiguità che grava sui personaggi, se ne può desumere che essa sia effettivamente all’oscuro di tutto, ma anche (anzi è più plausibile) che, pur sapendo, preferisca tacere.
La stessa Giovanna propende per questa seconda ipotesi. Lo dichiara apertamente fin nell’incipit: “Ella di me, / sollecita più dell'usato, / ha chiesto. Ella .. perché?... / qual palpito! Qualdubbio in me / si è desto”; e poco dopo: “Tradita forse, scoperta io mi sarei? / Sul mio sembiante / avria letto il misfatto?”.
A ulteriore sostegno della teoria che Anna sappia, la questione dell’adulterio non affiorerà nemmeno dopo che la confessione di Giovanna la avrà resa manifesta: nei successivi scontri con Enrico, durante le pause del processo, Anna gli rinfaccerà tirannia, ipocrisia, ingiustizia, ma – nemmeno allora - il tradimento subito.
L’equivocità del legame fra Anna e la Seymour, nutrito di rivalità e alleanza, sembra essere alla radice di questo silenzio: benché Giovanna sia la causa di tutte le sciagure dell’altra, le due donne intrattengono fra loro un rapporto affettuoso, sororale, molto complesso da decifrare. In nessun altro libretto di Romani, in cui sia presente un conflitto simile, due rivali sono altrettanto contrapposte e altrettanto solidali.
A meno di non voler attribuire ad Anna soverchia ingenuità o soverchia ipocrisia, l’unico modo per comprendere tale vicinanza è rinunciare a coerenze narrative e psicologiche e affidarsi ancora una volta a questioni di tipo architettonico.
Nella Parisina non vi è un personaggio simile a Giovanna Seymour; eppure, se consideriamo le clamorose alterazioni che Romani ha apportato alla vicenda e le volute simmetrie con la Bolena, nulla gli avrebbe impedito di interpolare una nuova fiamma del duca di Ferrara, noto anche storicamente per le sue infinite avventure galanti. Il problema è che un personaggio come la Seymour non sarebbe stato replicabile in una drammaturgia orizzontale: la sua funzione non è quella di un soggetto attivo sul plot, ma di proiezione-replicazione della protagonista.
Giovanna, questa “giovane Anna”, è l’immagine di se stessa che il passato rimanda ad Anna Bolena; in lei la regina rivive l’attimo cruciale del proprio peccato. È questa specularità che spiega la strana tenerezza del loro rapporto: cercando di salvarla dallo stesso precipizio incui un tempo è caduta, è come se Anna sognasse di poter ancora salvare se stessa. Folgoranti sono le parole che le rivolge nel loro primo incontro: “se mai di regio soglio / ti seduce lo splendore, / ti rammenta il mio cordoglio, / non lasciarti lusingar”. Ma ancora di più lo sono i versi in cui Giovanna stessa (quasi consapevole della propria funzione verticale) descrive la propria sciagura – che a rigore potrebbe ancora essere evitata – come qualcosa di già passato, una rappresentazione al cui svolgimento si assiste impotenti: “Potessi almeno ritrarre / da questo abisso il piede e far che il tempo / corso non fosse. Ah! La mia sorte è fissa, / fissa nel cielo”.

Se nella Parisina non compare una nuova Seymour, in compenso viene evocata una donna che ricorda da vicino la terza grande figura femminile di Anna Bolena, la precedente moglie di Enrico VIII: quella Caterina d’Aragona che, in spregio all’intera cristianità, il re d’Inghilterra ricusò per sposare Anna.
Anche in Parisina il fantasma di una moglie ripudiata urla dal passato l’ingiustizia subita (Matilde), ma la sua incidenza sulle motivazioni psicologiche della protagonista è nulla. Il suo sogghigno echeggia soltanto nell’animo sconvolto di Azzo e adombra l’ipotesi che la sua gelosia, ingiustamente esercitata a danno di entrambe le consorti, abbia qualcosa di irrazionale e patologico. Nella Parisina Matilde è sempre chiamata per nome; al contrario nell’Anna Bolena di Caterina si parla solo per perifrasi (l’altera, l’infelice, l’espulsa Aragonese). L’unica volta che il suo nome è chiaramente espresso da Romani è nell’avvertimento che precede il libretto, dove, associato a quello di Anna, campeggia fin dalla prima riga.
Se fra Parisina e Matilde non vi è alcuna conflittualità, l’interdipendenza fra lo spettro di Caterina e la sciagura della Bolena è una delle più tenaci costanti dell’altro libretto. Già nell’incipit del primo atto un coro di cavalieri collega le tristi sortidelle due sovrane. Persino Enrico - curiosamente incurante di essere stato il responsabile della rovina della prima moglie - rimprovera ad Anna di aver preso il posto di una vera regina. Ma soprattutto Anna, nella solitudine della preghiera, riconosce a Dio che “gli affanni / dell’infelice aragonese inulti / esser non denno, e a me terribil pena / il Tuo rigor destina”.
Curiosamente, nel capitale colloquio con Giovanna che segue questi ultimi versi, anche lo spettro di Caterina dirà la sua.

Il grande duetto fra Seymour e Anna Bolena è uno dei vertici dell’arte poetica di Felice Romani, traguardo virtuosistico di una concezione verticale della narrazione. Giovanna si è recata a confortare la sua sovrana che attende di intervenire al processo; vorrebbe anche suggerirle un’infame condotta processuale (ovviamente respinta con fierezza): poiché a Enrico interessa solo sciogliere il matrimonio, Anna potrebbe salvare la propria vita dichiarandosi colpevole.
Quando però, tremante, la Seymour osa evocare (senza ancora darle un nome) l’ignota rivale - la “sventurata che l’amor d’Enrico ha destinato al trono” - la regina esplode in un parossismo che non appartiene alla sua normale espressività. “È un’infelice”, insiste Giovanna, ma Anna replica (proprio come avrebbe potuto replicare Caterina a lei) che “tal facea me stessa”.
Partono quindi gli impetuosi ottonari in cui la Bolena si avventa, con violenza lessicale e icastica, contro la traditrice. Leggendoli con attenzione, tuttavia, i suoi anatemi non sono altro che il riassunto autobiografico della rovina in cui si trova.
Vestendo apertamente i panni della propria Nemesi (quella Caterina che atterrisce le sue notti) Anna profetizza che fra gli amanti sorgerà “il mio spettro minaccioso”. Alla nuova se stessa augura un cuore straziato “al par del mio” e una scure peggiore di quella “a me concessa”. Se precedentemente aveva temuto la punizione di Dio per gli “affanni dell’infelicearagonese”, ora invoca “un Dio dei miei falli punitore”; se aveva confessato che “un serto io volli / e un serto ebbi di spine”, ora promette alla rivale “di spine / la corona ambita al crine”; se aveva ammesso che “con me s’asside in trono il sospetto ed il terror”, ora preannuncia che “sul guancial del regio letto” la traditrice conoscerà “la tema ed il sospetto”.
L’effetto di questa furibonda apostrofe è destabilizzante: si finisce per non comprendere da chi parta e a chi sia rivolta; entrambe le immagini che futuro e passato rimandano (la vittima-persecutrice e la colpevole-perseguitata) vi si agitano.
Ancora più stupefacente è la svolta che chiude il duetto. Incassando a stento l’invettiva, Giovanna ammette di essere l’amante del re; a questo punto, in clamoroso contrasto con l’impeto precedente, la regina si ricompone ed elargisce, con solennità quasi liturgica, un’assoluzione che nessuno, tantomeno Giovanna, si sarebbe aspettato.
“Peggiore dello sdegno” però è quel perdono per la Seymour: esso suggella un passaggio di consegne che, di colpa in colpa e di castigo in castigo, la stringerà allo stesso destino di Anna e Caterina: “Là mi attende un grande Iddio / che la colpa punirà”. L’edificio verticale si fa viepiù vertiginoso.

Le storie di Caterina, Anna e Giovanna diventano riflessi di una stessa vicenda, posti su piani temporali diversi che però si intrecciano pericolosamente: la donna del passato, Caterina, grava su Anna con la minaccia del futuro (il castigo); la donna del futuro, Giovanna, incombe col ricordo del passato (la stessa colpa).
È però un ulteriore conflitto che condurrà la protagonista alla dissociazione descritta in una delle più avveniristiche scene di pazzia della librettistica romantica; è il conflitto che, come scrive Folco Poltinari ,“dà abito mitologico al contrasto elementare tra inconscio e super-io”.
Esiste un’Anna sovrana (il super-io) che appartiene al presente e che vediamoaggirarsi, con aristocratica mestizia, nei saloni di Westminster; ma esiste anche un’Anna ragazza (l’inconscio) che ogni tanto riaffiora da un passato edenico di innocenza e sentimenti antichi.
Finché la ragione è sotto controllo, è la prima, la regina, ad avere il sopravvento (anche se Percy, mettendoci sulla buona strada, si rifiuta di riconoscerla: quando Anna gli ricorda di essere “moglie” e “regina” egli replica “Nol vo’ saper! / Anna per me tu sei, Anna soltanto”).
L’altra Anna, la più vera e remota, la “fanciullina” sepolta sotto i manti regali e i freni della coscienza, tende invece a manifestarsi in presenza del paggio Smeton, la cui giovinezza e innocenza hanno il potere di smuoverne le difese (“Come, innocente giovane, / come m’hai scosso il core”).
Per due volte, nell’opera, l’apparizione del paggio produce nella protagonista una sorta di transfert; all’inizio ella è costretta a interrompere bruscamente il suo canto, ma alla fine, ormai abbandonata al delirio, non potrà più opporre difese: basta che Smeton le rivolga la parola, perché il rapporto con la realtà torni a sfocarsi e, nella sua mente, le corde spezzate della sua arpa mandino un pianto lontano, lamentoso.
E’ questa seconda Anna, innocente e giovane, negata e combattuta, Eva prima del peccato originale, che si impone, a danno dell’altra, durante la pazzia.

Sarebbe stato semplice per Romani concludere anche la Parisina con un’elaborata scena di delirio, nella logica di una continuità rispetto alla Bolena; ma non sarebbe stato coerente con l’orizzontalità assunta come principio costruttivo del nuovo libretto. Al contrario, nell’Anna Bolena, i conflitti verticali producono piani di coscienza che slittano l’uno sull’altro, in un rapporto vertiginoso fra passato e presente, fra realtà e pensiero, che alterna sprofondamenti nel delirio ed emersioni nella lucidità.
La prima a presentarsi nella pazzia è l’Anna-regina, che immagina se stessa ilgiorno delle nozze. E’ la sovrana ambiziosa all’apice dello splendore e del peccato, che si compiace dei ricchi abiti (il candido ammanto, il serto di rose) e del sontuoso apparato. Percy non deve nemmeno essere informato delle nozze, per non turbarne lo splendore (“Che Percy non lo sappia: il re l’impose”).
Il nome dell’amato, però, agisce con collegamento fulmineo sulla rappresentazione della gloria, ne spezza l’incanto. Alla regina pare ancora una volta di sentire qualcuno che piange. (“Oh... chi si duole?”).
Il misterioso lamento apre una nuova porta nella coscienza ed è l’altra Anna che ne emerge: quella originaria, ritrovata e perduta, affidata al sospiro della memoria.
“Chi parlò di Percy?” si chiede. Vorrebbe respingerne lo spettro (“Ch’io non lo vegga! Ch’io mi asconda ai suoi sguardi”). Egli però non si lascia tacitare (“E’ vano! Ei viene! Ei m’accusa! Ei mi grida”) e anzi la costringe a una disperata richiesta d’aiuto (“Mi perdona! Infelice son io! / toglimi a questa miseria estrema”). Ormai vittoriosa, l’Anna-ragazza trascina in superficie il suo perduto universo, da cui trapelano i panorami dell’infanzia immersi nei colori e nei suoni della campagna inglese. A questa vittoria Romani affida lo struggimento del cantabile, dipanato in quinari doppi che, a ben guardare, sembrano vasti e ipnotici endecasillabi.

Al dolce guidami / castel natio,
ai verdi platani / al queto rio,
che i nostri mormora / sospiri ancor.
Colà, dimentico / dei corsi affanni,
un giorno rendimi / de’miei prim’anni,
un giorno solo / del nostro amor.

La pazzia ha scisso la coscienza della protagonista in due diverse dicotomie: vittima-colpevole (Caterina-Giovanna) e realtà-ricordo (le due Anne). Al centro di entrambi i contrasti vi è la colpa ed è pertanto nella sua remissione, nell’assoluzione, che il finale potrà aspirare a una ricomposizione.
La cabaletta della protagonista, che chiude latragedia, scioglie in una spettacolare palingenesi l’incastro dei conflitti. Per meglio sottolinearne la sintesi, Romani ha l’idea folgorante (illogica da un punto di vista storico e narrativo, ma fondamentale da quello architettonico) di far precedere la salita al patibolo da fanfare festose e colpi di cannone che, in lontananza, salutano Giovanna, nuova regina di Inghilterra.
La surreale sincronia delle due proiezioni di se stessa (il trionfo e il supplizio) porta Anna a condensarne, nella ribalta dell’eternità, gli opposti significati. Solo in quanto vittima può elargire il perdono, purché, in quanto colpevole, accetti la necessità dell’espiazione: “manca solo a compire il delitto / d’Anna il sangue, e versato sarà”.
La tanto attesa remissione della colpa arriva nelle parole stesse che, in procinto di versare il suo sangue, la Bolena indirizza alla “coppia iniqua”.

Nel sepolcro che aperto m’aspetta
col perdono sul labbro si scenda.
Ei m’acquisti clemenza e favore
al cospetto di un Dio di pietà.

E così, mentre Parisina è costretta a giustificare gli slanci virtuosi della cabaletta finale con una prevedibile invettiva contro il marito, la regina d’Inghilterra può accomiatarsi dal mondo con uno dei più impressionanti esempi di teatro verticale di tutto l’Ottocento.
Dallo stesso piedistallo della propria vittima, compagna nella sventura, ha pronunciato l’assoluzione.
E nel perdono della rivale, compagna nella colpa, ha finalmente perdonato se stessa.

Matteo Marazzi



BIBLIOGRAFIA

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SARACINO E., Tutti i libretti di Donizetti, Milano, 1993
SMITH P., La decima musa, Bologna 1981

Categoria: Editoriale

 

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