Editoriale: Lohengrin alla Scala - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 08 Dicembre, 2012
Heinrich der Vogler: René Pape
Lohengrin: Jonas Kaufmann
Elsa von Brabant: Annette Dasch
Friedrich von Telramund: Tomas Tomasson
Ortrud: Evelyn Herlitzius
Der Heerrufer des Königs: Zeljko Lucic
Vier brabantische edle: Luigi Albani
" " Giuseppe Bellanca
" " Giorgio Valerio
" " Emidio Guidotti
Vier edelknabe: Lucia Ellis Bertini
" " Silvia Mapelli
" " Marzia Castellini
" " Giovanna Pinardi
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore: Daniel Barenboim
Regia: Claus Guth
Scene e costumi: Christian Schmidt
Luci: Andi Müller
Drammaturgia: Ronny Dietrich
Coreografia: Volker Michl
Maestro del coro: Bruno Casoni
Parliamo della prima (e non della “primina”: quella è una scorrettezza di pessimo gusto che lasciamo volentieri a altri) della Scala, finalmente e per una volta stimolati dalla “voglia” e non dal “dovere” di farlo. Perché – nonostante le defezioni e le perfettibilità – questo è un vero spettacolo, pensato bene e col desiderio di assemblare un cast con un po’ più di un minimo di pretesa di porsi a riferimento, se non universale, quanto meno attuale; e, almeno in parte, ci riesce.
Poter superare la solita logica raffigurativa di Lohengrin eroe senza macchia e senza paura, e calare lui e Elsa in un gioco psicologico di altissima levatura, è una sfida che può essere accolta solo da un grande regista: e Claus Guth lo è. Di più: con Tcherniakov, Carsen e Richard Jones – autore quest’ultimo di una delle più straordinarie regie di questo capolavoro wagneriano – è uno dei massimi esegeti attuali del teatro d'opera in musica.
Colpisce molto lo spettatore vedere Elsa così
demolita, frantumata, sospesa fra le reminiscenze di una vita infantile non ancora superata né risolta (cos'è vederla al pianoforte con Ortrud che la bacchetta!...) e le incognite di una vita adulta che non sembra aver niente da offrirle, eccetto le nevrosi; e che perciò viene rifiutata, abolita, messa da parte. Il continuo rifugiarsi sulla scala che porta ai ruderi della casetta dei giochi sull'albero; il richiamo al pianoforte; il richiamo anche visivo ai due fratellini che giocano da bambini (trucco, questo, forse un po’ troppo didascalico), in un’età di felicità perduta; la confusione fra Gottfried e Lohengrin; sono tutti elementi che rimandano chiaramente alla psiche turbata di Elsa, alla sua ideazione fantasiosa.
Manca il cigno di cartapesta: questo è ovviamente un peccato esiziale! E poco conta che sia sostituito da Gottfried che gira con un’ala al posto del braccio; o da una nevicata leggera di piume…
Mancano anche l’armatura di Lohengrin, le manine giunte e gli occhioni all’insù di Elsa, l’ambientazione cavalleresca e tutte quelle altre belle cosine che tanto piacciono agli spettatori che pensano che una regia sia qualcosa che impedisce l’ascolto della musica.
In compenso c’è sempre una struttura opprimente, un palazzo alto e chiuso, privo di felicità: è forse il collegio in cui sono stati rinchiusi i due ragazzi di Brabante da piccoli. Enrico ce ne sembra il direttore; Friederich e Ortrud, gli istitutori.
In questa interessante regia di Guth il vero protagonista non è Lohengrin, bensì Elsa: ed è un peccato che manchi la Harteros che avrebbe offerto qualche inevitabile spunto supplementare anche solo per il fatto banale di averci lavorato sopra di più con il regista.
Dunque, Elsa. E' lei il motore di tutto.
E' lei, con il suo delirio strutturato a creare un universo in cui il fratello - verosimilmente scomparso proprio per colpa sua, anche involontaria, non è questo il punto: di fatto, per una volta, le accuse di
Telramund ci sembrano assolutamente verosimili - viene a essere confuso con l'eroe senza macchia e senza paura, e anche senza nome perché questo comporterebbe la fine dell'illusione.
Di eccezionale impatto emotivo la scena iniziale, quella in cui Ortrud – l’istitutrice, la direttrice dell’opprimente collegio; inevitabilmente, la strega cattiva nell’immaginazione dei bambini, di qualunque bambino sia finito in un istituto – svuota con aria beffarda la scarpa di Gottfried piena d'acqua; e la giubba, ovviamente, che finirà appoggiata sulla sedia in attesa che la indossi Lohengrin.
Il quale Lohengrin compare senza giubba... e senza scarpe. E il cigno-Gottfried gli assomiglia così tanto, da sembrare un doppio sulla scena, un po' come capitava a Bayreuth con l'Olandese diretto da Kupfer, che ambientava la vicenda nella psiche ammalata di Senta...
All’inizio del secondo atto l’eroe si aggira intorno a Telramund e Ortrud. Li guarda vacillando, tocca anche la fronte di Telramund senza che l’altro se ne accorga
Nel terzo atto non ci sono più i resti della casa sull'albero; in compenso c'è il pontile sul fiume, in pieno stile Tom Sawyer e Becky Thatcher. È chiaramente una parafrasi di quel giardino segreto che è il luogo in cui i bambini si rifugiano per dare spazio alle proprie fantasie. È lì, nel corso d’acqua, che è scomparso Gottfried generando, nella mente di Elsa, il cavaliere che la salverà dalle accuse degli istitutori, dei grandi. È lì che Lohengrin le darà l’addio definitivo, “morendo” e facendo rivivere Gottfried che evidentemente non era morto come pensavamo…
La Dasch è molto, molto brava nel rendere sia il lato infantile del proprio personaggio, sia l'assoluta mancanza di sensualità: sembra sempre una bambina che gioca a fare la grande. Partendo da questo interessante presupposto, è ovvio che il matrimonio non venga consumato, nonostante il goffo tentativo di entrambi: d’altra parte, non si può far sesso con un sogno, tanto più
(o sarebbe più esatto dire: “anche se”?..) se assomiglia al proprio fratello.
E nel finale il pianoforte si ribalta poco prima della scomparsa dell’eroe immaginario e del ritorno del fratello scomparso
Certo, non tutto è così stimolante.
Le lunghe scene di preponderanza corale sono un po' maltrattate, senza eccessiva fantasia.
Il grandissimo talento scenico di Evelyn Herlitzius poteva essere sfruttato meglio, evitando di lasciarla un po' troppo sola, anche se - va detto - se la cava benissimo, con l’arroganza del vero animale da palcoscenico...
E infine, l'idea iniziale poteva essere conclusa un po' meglio, analogamente a quanto fatto da Kupfer a Beyreuth con l'Olandese. Qui il finale è abbastanza prevedibile e non dà luogo a brividi particolari. Peccato, perché l'idea di partenza davvero non era male.
La parte musicale è, per una volta, più interessante del solito. Siamo ancora abbastanza lontani da quelle punte di eccellenza di cui vorrebbero parlare i commentatori di Rai 5, ma è comunque un ensemble interessante con alcune punte di assoluta eccellenza – ribadisco: non solo per l’attualità – e con un disastro vero alla voce "Telramund".
Eccellente Barenboim, che tiene le redini dello spettacolo con una forza e un'autorità che non ricordavo da tempo, specialmente in Wagner, se penso alle tre prove del Ring e, in particolare, al recente Siegfried. Suoni felpati e misteriosi come nell'incipit del secondo atto si alternano a sonorità più sferzanti, ma sempre con un occhio di riguardo alle peculiarità dei cantanti che ha fra le mani, in particolare Annette Dasch che, essendo l'ultima arrivata per la contemporanea malattia della Harteros e della Petersen, è anche quella più bisognosa di aiuto.
Fra i cantanti, particolarmente scadente Tomasson nei panni di Telramund, un autentico disastro, troppo scarso per essere vero: calante, stonato, senza fiato, la voce gli si è ripetutamente rotta facendorimpiangere anche alcuni urlatori del recente passato.
Kaufmann invece replica il proprio collaudatissimo personaggio. Oggi come oggi è non solo il miglior Lohengrin possibile, ma è anche uno dei più grandi di sempre, scomodando anche le icone storiche. Il suo modo di esprimersi è semplicemente grandioso: negarlo, vuol dire non conoscere nemmeno le basi più elementari del canto. Ha cantato “Im fernen land” quasi continuamente sul filo di una mezzavoce di un’intensità commovente; ha affrontato il difficile finale del secondo atto con autorità e con squillo; ha chiuso l’opera con un “Mein lieber Schwan” da antologia. Del pari eccezionale tutto il duetto del terzo atto, affrontato con autorità e intrinseca commozione. La voce è calda, piena, ricca di armonici. La salita all’acuto è sicuramente più difficoltosa che in passato – lo abbiamo già rilevato recensendo anche le recenti prove discografiche – ma è ancora assolutamente più che adeguata per le richieste del ruolo. È inoltre favolosa l’intesa con il regista, nel comporre un personaggio così insicuro, infantile e spettrale, decisamente diverso dal consueto; ed è favolosa anche l’intesa con la Dasch, la stessa partner dello spettacolo di Bayreuth.
Della Dasch abbiamo parzialmente già detto: il personaggio lo conosce bene (lo ha eseguito a Bayreuth nell'infelice allestimento di Neuenfels e proprio con Kaufmann, l'ha anche recentemente inciso con Janowski), ma ha dimostrato un professionismo inossidabile imparando una regia così complessa nel breve spazio di una mattina e superando tutte le difficoltà di un approccio così travagliato. Da un punto di vista squisitamente vocale non è sicuramente peggio delle varie Pieczonka, Schwanenwilms, Magee o Kringelborn che si dividono la parte nei vari palcoscenici: ha balbettato all’inizio con qualche incrinatura (ripetiamo: cinque ore complessive di prove, piombata a Milano all’improvviso con la quasi neonata bambina da allattare), ma è cresciuta progressivamentecon un secondo atto ottimamente cantato – ha replicato alla grande alla scatenata Herlitzius e un terzo davvero commovente. La voce suona un po’ sorda e artefatta in ottava centrale, ma – se scorriamo il parterre storico delle interpreti di questo personaggio – è in ottima compagnia.
Evelyn Herlitzius è stata straordinaria. Nonostante qualche rumor su una sua scarsa forma vocale, gli acuti sono sfolgoranti (l'Entweite Götter è stato letteralmente da brivido) e la caratura è quella di una delle più grandi Hochdramatische degli ultimi vent'anni, l'ultima Brunnhilde degna di tal nome apparsa a Bayreuth, nonché Elektra trascendentale: il secondo atto è letteralmente dominato dalla sua personalità stratosferica, una di quelle che mandano definitivamente in cantina le vecchie urlatrici del passato remoto tipo Grob Prandl; o di quello prossimo, come Gabriele Schnaut. E' un peccato che al suo fianco ci sia stato un Telramund così scarso.
Delude discretamente anche il vociferante Lucic, che non fa nulla di veramente scandaloso, ma che non ha molto spessore.
Notevolissimo invece Pape che impone la propria voce di chantant a Enrico, dandogli anche una patina di sorridente bonomia: il primo atto è davvero di notevolissimo spessore.
Alla fine, c’è spazio anche per il siparietto dell’Inno di Mameli diretto da Barenboim. Alberto Mattioli su “La Stampa” ci racconta che avrebbe dovuto eseguirlo normalmente all’inizio dello spettacolo, ma sembra che se ne sia clamorosamente dimenticato, rivolgendosi agli impreparati violini per gli accordi iniziali del preludio e lasciando le percussioni con un palmo di naso.
Forse non era necessaria la correzione finale…
Pietro Bagnoli