Venerdì, 22 Novembre 2024

Editoriale: Ora tutto cambia. Di nuovo

Aggiunto il 24 Luglio, 2011

È arrivato il momento di valutare l’impatto di Natalie Dessay in Traviata.
Di cambiamenti nella storia dell'interpretazione operistica ne abbiamo visti moltissimi, e ogni volta è comprensibile avere la sensazione di essere arrivati al capolinea di un ruolo, al punto oltre al quale non si può più andare.
E non - si badi - per carenze tecniche intervenute nel modus operandi dei cantanti di oggi, ciò che induce alcuni appassionati d’opera al melonanismo, abitudine ben documentata e sbeffeggiata crudelmente sin dai tempi di Rossini. No, il capolinea sembra raggiunto ogni volta che troviamo un'interpretazione che ci sembra aver finalmente esaurito le esigenze espressive di un ruolo. Fu così con Maria Callas che si toglieva le scarpe sotto l'occhio affettuoso di Visconti, mentre faceva del suo soliloquio una riflessione amara e quasi autoironica. E fu così, anni dopo, quando Joan Sutherland ristilizzò i tormenti di Violetta chiudendoli in un pudore molto british che forse non ci ha mai coinvolti completamente, ma che veniva proposto con autorevolezza ed era perciò degno del massimo rispetto. Con la Scotto ci sembrò di trovare la quadratura del cerchio: una cantante di estrazione belcantistica che aveva le stigmate della grande drammatica. Forse anche troppo: fu questo il suo limite. Mancava di sincerità. Usò Violetta - e lo fece benissimo, sia chiaro - come tappa di avvicinamento ai grandi ruoli tragici che per lei, ruvida savonese dal temperamento d'acciaio, erano il frutto proibito: Kundry, persino Klythaemnestra, e una incredibile Marescialla in cui far risuonare, come suprema ironia, gli accenti belcantistici dell'Amina che era stata.
Dopo di lei, il nulla; con una sola ovvia eccezione.
Absit iniuria verbis: certo, ci sono state cantanti brave, bravissime che hanno rivestito in modo più che dignitoso i panni dell'etèra parigina. Fra esse non compare Mariella Devia, e per ovvie ragioni. L'eccezione di cui parlavo è - intuitivamente -Anna Netrebko, che potrebbe anche lei averci ingannati grazie a uno spettacolo pensato per le sue sconfinate possibilità, ma che comunque è quella che ha maggiormente sparigliato le carte del personaggio da moltissimo tempo in qua. Almeno fino a oggi.

Anche per chi - come chi scrive - ama Natalie Dessay da sempre, non è stato facile decifrare un'interpretazione tanto complessa e articolata. Un'interpretazione che - come sempre, trattandosi di questa grandissima Artista - non può essere circoscritta alle sole ragioni del canto, peraltro eccellente. Perché la Dessay nasce dal canto e da lì costruisce un personaggio che vive anche di quello, ma non solo. Certo: ormai il mi bemolle è nota tirata che non ha più il nitore e lo smalto dei tempi che furono. E quindi? Non ce l'aveva nemmeno la Scotto, che infatti - aruspice Muti - la omette in registrazione, ma ciò non le impedisce di realizzare un'incisione mitica, quella che per esempio il nostro Maugham si porterebbe in un'isola deserta.
Forse non è più nemmeno una belcantista, ammesso e non concesso che questo sia un requisito essenziale per cantare Violetta. In effetti canta benissimo il suo monologo del primo atto (tra l'altro in forma integrale, comme il faut) ma, al di là dell'ammirazione per come riesca a reggere un momento tecnicamente così complesso, col rispetto pensoso e riflessivo di tutti i segni di espressione, proprio non si riesce a vedere niente di più della solita, straordinaria Dessay che le mette in riga tutte. No, il momento in cui iniziamo a capire di trovarci di fronte a qualcosa di veramente nuovo è nel duetto del secondo atto, per il quale dispiace la presenza di Tézier, Gérmont-lamantino, non all’altezza di un simile mostro di bravura. Basta ascoltare l'inflessione asciutta, quasi violenta di "Per tutti è mistero quest'atto, a voi nol sia", che accompagna il gesto a metà strada fra l'indifferenza e il disprezzo con cui mostra il plico a papà Germont! O ancora la studiatafinta indifferenza - che respira proprio con l'orchestra - con cui esala "Ah comprendo, dovrò per alcun tempo da Alfredo allontanarmi", cui giovano immensamente, tra l'altro, certi effetti espressivi connessi con l’apertura dell’emissione. E guardate - e ascoltate, ovviamente - subito dopo l'esplosione apocalittica di "Ah no, giammai! No mai!" in cui cade letteralmente la maschera. E ancora: la regressione infantile di "Qual figlia, qual figlia m'abbracciate!", laddove tutte cercano la grande espansione; e il tono allucinato di "Dite alla giovane" in cui sembra catatonica, come se stesse parlando di un'altra.
E poi c'è lei ferma, inchiodata nel silenzio dell'orchestra prima di un "E or si scriva a lui" in cui il tono allucinato si sposa alla perfetta scansione ritmica che risalta anche in una frase così breve. Quanto al momento solitamente catartico di "Amami Alfredo!", mi aspettavo lo schianto emotivo, quello che scioglie anche il cuore più glaciale. Invece no: sin dal "Lo vedi, ti sorrido", Natalie sorride veramente e si inventa un'espressione ossimorica di vera finta gioia.

Ma è dal momento della festa a casa di Flora che il soprano lionese dà la sua impronta definitiva al personaggio. La voce, dolce e malinconica, si fonde meravigliosamente con gli staccati degli archi. È sola davanti a tutti, come Lucia dopo che ha fatto fuori il malcapitato Arturo. Flora la chiama da parte per farsi raccontare tutto, Alfredo e Douphol la provocano - ognuno in modo diverso - gli invitati non capiscono. Lei, piccolo e meraviglioso scricciolo, sa tutto e accetta di farsi trascinare, perché è il suo destino, il suo karma, ma ha già scelto di perdonare con quell' "Alfredo, Alfredo, di questo core" che spande redenzione non solo sull'amante infelice, ma su tutta l'umanità che non accetta il diverso, che lo condanna alla solitudine e all'emarginazione. E non potendo contare come Anna Netrebko su uno spettacolo visionario e illuminante, la Dessay si pone alcentro del palcoscenico catalizzando lei da sola tutta la poetica del diverso che è al centro della produzione verdiana. Nell'ultimo atto, dopo una palpitante eppure asciutta lettura della missiva del lamantino-Germont, c'è un "Addio del passato" di una bellezza talmente struggente da lasciare interdetti. Il tono - esente da estenuazioni liberty o svenevolezze larmoyant - è asciutto eppure commosso, tenero ed evocativo: Violetta sa di essere a fine corsa e rievoca con affetto e l'ombra di un sorriso tutto il poco di bello che la vita ha regalato a una donnina leggera e famosa. Grazie anche a un accompagnamento orchestrale particolarmente riflessivo e quasi cameristico, la riflessione della protagonista ha un andamento cullante che questo brano non aveva ancora conosciuto.

Al termine, prevedibile e interminabile ovazione per l'Artista che più di ogni altra sta cambiando la nostra esperienza di appassionati. Credevamo di conoscere tutto del personaggio che tutti amarono; avremmo persino potuto quasi andare a deporre una camelia sulla lapide di Alphonsine Duplessis.
Ora tutto cambia. Di nuovo
Pietro Bagnoli

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Categoria: Editoriale

 

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