Editoriale: Diodistragi a bocce ferme - di Pietro Bagnoli
Aggiunto il 12 Dicembre, 2010
A bocce ferme, non possiamo purtroppo far altro che confermare le prime impressioni su uno spettacolo come quello cui abbiamo assistito.
Proviamo a dettagliare.
Lo spettacolo di Guy Cassiers manca decisamente di una logica drammaturgica definita, o quanto meno intellegibile ai più. Il disegno registico è piuttosto dominato da una serie di spot, come se fossero appunti per un progetto di regia. Quel finestrone in prospettiva che, col focherello acceso dietro di esso, rimandava all’iconografia della “Piccola fiammiferaia”; le riproduzioni della lancia di Wotan che incombono su uomini, dei e semidei e le loro azioni; l’abbandono a se stessi dei cantanti, con risultati francamente imbarazzanti per chi di loro ha problemi a stare in scena. Ora, senza andare alla destrutturazione di Wieland, ai rimandi alla società industriale di Chèreau, alla ricerca esistenziale sulla storia dell’umanità di Kupfer, basti pensare alla recente realizzazione di Kaspar Bech Holten a Copenhagen in cui la vicenda viene vista come una grande saga familiare. Mancando una drammaturgia ben precisa, non è nemmeno il caso di parlare di spettacolo. È dai primi Anni Cinquanta a Bayreuth che sappiamo che non è pensabile di realizzare un Ring senza andare di pari passo con una drammaturgia ben definita e rigorosa che inquadri la cosmogonia wagneriana in un discorso che la trascenda; altrimenti tanto vale ascoltarsi i brani scelti in concerto o in disco. L’attualizzazione, la tanto vituperata attualizzazione, così detestata da chi auspica il ritorno dei fondali dipinti, delle ali sull’elmo di Brunnhilde o, al limite, della realizzazione in forma di concerto, è un portato quasi indispensabile se si considera il divenire che è alla base della filosofia wagneriana – che trascende gli Edda scandinavi – e che mi sembra evidenziata al suo meglio proprio nel finale del Gotterdammerung messo in scena da Harry Kupfer a Bayreuth nel 1991: sul tema della Redenzione, in un finale da brivido unbambino prende per mano una bambina e, facendosi luce con una piccola torcia, insieme vanno alla ricerca di una nuova strada. Nulla si ferma nella storia dell’uomo: il ciclo della vita è inarrestabile.
Tra l’altro vale la pena di sottolineare l’aspetto tecnologico, tanto sbandierato prima e dopo la rappresentazione: raggi laser e luci psichedeliche non sono una novità nell’allestimento del Ring; il già citato Kupfer a Bayreuth (e non solo: anche al Liceu nel ciclo diretto da Bertrand De Billy) ne fa un uso abbondante, ma lasciando intendere ben chiaramente che la tecnologia è un mezzo, giammai un fine. Con Cassiers questo non appare mai chiaro, e proprio per la mancanza di una drammaturgia ben precisa. E non solo: l’assistenza del regista ai cantanti appare modesta. Nello spettacolo della Scala hanno ben figurato coloro che sono già abituati a muoversi bene sul palcoscenico, come Waltraud Meier – ancora bellissima e giovanile – mentre quelli più impacciati come O’Neill sono stati in chiara difficoltà, dimostrando di non saper bene cosa fare. Questo, ai nostri tempi, è semplicemente inaccettabile: non dopo che registi come i già citati, ma anche Carsen e Braunschweig – tanto per stare ai wagneriani più recenti – hanno dimostrato quello che sanno fare nella gestione delle risorse umane sul palcoscenico: che è poi la parte essenziale di quello che “arriva” allo spettatore poco o mediamente smaliziato, quello cioè che ha poca affinità con la drammaturgia wagneriana e con il suo dipanarsi. La dimostrazione più lampante di ciò è il parere degli spettatori, che hanno colto come mortalmente noioso il secondo atto, quello cioè in cui il regista deve “tirar fuori gli attributi” perché è anche il più statico: il lungo racconto di Wotan, mercé anche il fraseggio impacciato e non precisamente da titano di Kowaljow, ha provocato incoercibili crisi di sonno.
La questione relativa al canto è, se possibile, ancora più complessa.
Questo sito aveva giàtentato una prima sistematizzazione dei vari modi di eseguire questo splendido repertorio, distinguendo grosso modo fra due aeree: una è quella che fa riferimento al Colle di Bayreuth, cuore pulsante della poetica wagneriana, i cui criteri esecutivi ricevettero la “benedizione” di Cosima che ne resse le sorti dopo la morte del marito; l’altra è quella che abbiamo voluto definire “internazionale”. La prima punta su un declamato molto più spinto, coloristico, ricco di inflessioni che si embricano con il divenire musicale senza cercare a tutti i costi gli stami della melodia; la seconda è più memore di un melodismo che deriva da interpreti adusi ad altro repertorio.
Non è questa la sede per ricordare tutte quelle caratteristiche che il nostro Matteo Marazzi aveva perfettamente identificato ed evidenziato nel suo lungo saggio sulle caratteristiche delle grandi interpreti di Isolde entro i sacri confini di Bayreuth (vedi http://www.operadisc.com/vis_tutto_backstage.php?idback=27); ma, come avevamo già ricordato nell’editoriale steso a caldo subito dopo la fine della “Walkure” inaugurale, fu una scelta programmatica di Cosima quella di tenere le più importanti Isolde da lei convocate a Bayreuth - Therese Malten, Rose Sucher e Marie Wittich – lontane dal ruolo uranico e scapigliatissimo di Brunnhilde. Affidare perciò Brunnhilde a una delle più importanti Isolde non solo dei nostri tempi, ma probabilmente di sempre, come Nina Stemme, vuol dire esporla agli strali dei vociomani giustamente – dal loro punto di vista – insoddisfatti dalle performance di un’Artista che non può vantare un volume vocale soverchiante, essendo altri i suoi atouts; non particolarmente diversi, ad ogni modo, da quelli che già avevano caratterizzato Martha Mödl, se non per una maggior percussione del registro acuto. Detto questo, gioverà sottolineare – per non passare a tutti i costi per sciovinisti all’incontrario – che quello di Nina Stemme è stato un grande debutto, uno di quelli che vannoricordati nel carnet di una grande artista quale la Stemme è.
Il nostro Maugham sostiene non impropriamente che uno spettacolo che schiera il debutto di un’artista come la Stemme in un ruolo come Brunnhilde non può essere liquidato in quattro e quattr’otto come scadente; io invece sostengo che, nonostante l’importanza del debutto è il contorno a mancare.
Lui ribatte che è stato giusto “benedire” un debutto del genere con un direttore d’orchestra come Barenboim, non particolarmente innovativo ma assolutamente sicuro padrone della materia e in grado, quindi, di sostenere le inevitabile defaillances della prestigiosa deb di fronte a una parte così monumentale. Non posso che essere d’accordo, ma il dibattito rimane aperto.
Il secondo settore problematico è quello della voce di Wotan. Il quale Wotan è l’altro polo intorno a cui ruota l’ellisse del dramma, e deve essere affidato a un artista dotato di carisma stratosferico e tenuta vocale a prova di bomba. Già ci sarebbe stato da discutere – e non poco – sull’attribuzione della parte a René Pape, la cui statura interpretativa generale e potenziale in questo repertorio non ci sembra francamente a prova di bomba. Ma sostituirlo in corsa con un cantante non particolarmente noto nemmeno nei circoli di “iniziati”, non farne menzione sul sito ufficiale e, anzi, includerlo de iure nell’elenco delle “migliori voci wagneriane del momento” mi sembra quanto meno azzardato. E forse pretestuoso.
Come che sia, Kowaljow al momento non è una delle migliori voci wagneriane del momento.
Se stessimo al Wagner di Bayreuth, le scelte possibili per questo ruolo sarebbero Falck Struckmann e Albert Dohmen.
Se volessimo puntare preferibilmente al Wagner internazionale, ci dovremmo invece affidare a Bryn Terfel oppure al solido mestiere di Sir Willard White.
Kowaljow potrebbe in futuro ambire a coprire un ruolo in quest’eletta e ristretta schiera, ma per adesso no. È un progetto di Wotan, nulla dipiù: e come tale dovrebbe essere considerato.
La voce è interessante, anche se emessa alla brava. Il fraseggio è anonimo e grigiastro, anche se gli scatti rabbiosi lasciano intravedere l’interprete di rango che potrebbe – dico: potrebbe – diventare. Per adesso, tutto il suo secondo atto è stato di una noia mortale; e il terzo è stato meglio solo perché la musica, complessivamente più emozionante, ha trascinato anche il fraseggio del basso. Ma se si vogliono cercare i vertici di poesia, bisogna rivolgersi ad altri interpreti; e non è forse necessario nemmeno riascoltarsi gli incunaboli del passato.
Per il resto degli interpreti, notte e nebbia; con un significativo distinguo che riguarda, ovviamente, Waltraud Meier. La quale ha abbondantemente passato i cinquanta, ma è più bella di quando era giovane; e la voce non ha più lo scatto imperioso di vent’anni fa, ma la statura della grande interprete è sempre presente.
Con Ekaterina Gubanova torniamo alle Fricke noiose. La voce è salda come una colonna, uniforme e discretamente varia di colori, ma il fraseggio – come nel caso dell’augusto marito – è da comprimaria, proprio come usava una volta.
Con Simon O’Neill non abbiamo nemmeno quello: voce grigia, morchiosa, stimbrata, priva di smalto e con grossi, grossissimi problemi di intonazione (pare peraltro che avesse problemi di salute), particolarmente evidenti nella scena dell’Annuncio di Morte anche di fronte a una Brunnhilde che, decisamente, non lo sommergeva con tonnellate di voce. La voce di questo tenore, così com’è, sembrerebbe impari anche all’impegno di uno Steuermann, sia esso quello dell’Olandese o del Tristano poco conta. Senza se e senza ma, il peggiore della serata e, forse, un altro grossolano errore di attribuzione: uno dei tanti, a questo punto. Santa pace, perché non Gambill, che non sarà un fulmine ma la parte la conosce bene? O Wottrich? O Treleaven? O Smith? D’accordo, siamo molto lontani dai celeberrimi cantanti che hannofatto la storia di questo ruolo (l’ultimo dei quali, Peter Hofmann, è morto qualche giorno fa), ma è da ieri che hanno progettato questo Ring? Nossignori: è almeno da quando Barenboim ha firmato il contratto per la Scala, quindi – a stare stretti – da tre anni. Si poteva e si doveva trovare qualcosa di meglio di questo poveretto.
L’ultimo errore di attribuzione, probabilmente il peggiore, è aver affidato a Sir John Rowland Tomlinson il ruolo di Hunding. Tomlinson, uno dei cantanti più importanti dell’ultimo quarto di secolo, autore di prove di straordinaria caratura nel campo wagneriano e non solo, approda alla Scala all’alba dei 64 anni dopo aver cantato in tutto il mondo. E in cosa lo fanno debuttare? Nella parte di Hunding! Ma si può?... Com’era prevedibile, lui la trasforma in un festival di berci stonati e latranti. Meglio sarebbe stato – piuttosto e paradossalmente – dopo la defezione di Pape affidargli la parte di Wotan: sarebbe stato in terribile difficoltà, ma ci avrebbe messo il carisma, quella dote che tanto irridono i vociologi ma che è ancora una delle poche per le quali vale la pena andare a teatro.
C’è quindi un’interessante dicotomia sul versante “debutto”, uno sport che alla Scala sembra andare particolarmente di moda da un po’ di anni a questa parte, soprattutto nella sera di Sant’Ambrogio.
Da una parte, il debutto importante e programmato di Nina Stemme. Non sarà il ruolo in cui possa rendere al meglio delle sue possibilità, ma se pensiamo alle Schnaut, Eaglen e compagnia vociferante, c’è di che leccarsi le dita.
Dall’altra, quello non programmato ma egualmente importante, se non altro per il ruolo, che è quello di Vitalij Kowaljow.
Poi c’è un’altra serie di debutti meno importanti, anche e soprattutto per gli esiti cui sono pervenuti; decidiamo di non occuparcene.
Facciamo un po’ di anamnesi degli anni passati.
Aida: abbandona Alagna, fischiato dal pubblico; in camerino attende Fraccaro giàpronto e buttano sul palcoscenico Palombi in blu jeans.
Don Carlo: c’è la pantomima di Meli sì, Meli no, Meli forse; debutta a sorpresa Stuart Neill.
Carmen: Domashenko? Antonacci? Macché: una neo-diplomata sconosciutissima di nome Anita Rachvelishvili che si trova a dover debuttare la parte più carismatica per un mezzosoprano in compagnia di Sua Maestà Jonas Kaufmann.
È veramente troppo dietrologico pensare che ci sia un disegno dietro a questi debutti eccellenti? Voglio dire: non posso avere il meglio per quel determinato ruolo per vari motivi (mi sono mosso troppo tardi, il cantante XY costa troppo, ecc). Allora, piuttosto che una seconda scelta ripiego su un deb assoluto che, male che vada, susciterà la comprensione del pubblico e la serata la porta a casa lo stesso.
Comodo.
Però, alla lunga, il giochino non regge.
Carmen è un ruolo carismatico, ma stra-conosciuto e con musica meravigliosa. Se hai una bella presenza e non fai cose tremende, la serata la porti a casa. Se ci metti umiltà, simpatia e calore umano, avrai anche il pubblico dalla tua. Se ti trovi accanto Jonas Kaufmann e le sorti girano a palla a tuo favore, c’è pure il caso che sbanchi: è quello che è successo l’anno scorso.
Ma Wotan non è Carmen. La musica su cui canta nel secondo atto è meravigliosa, probabilmente una delle più belle mai scritte; ma necessita di un cantante dotato di carisma, di capacità di far vivere la parola dandole significato e correlandola alla musica, facendola squadrare e risuonare nel teatro e nel cuore dell’ascoltatore. Si deve distinguere perfettamente sul piano della musica in un declamato inizialmente lento, sofferto e interiore, sino all’esplosione della rabbia furiosa contro la figlia ribelle. Deve dare l’idea della dicotomia che esiste in lui fra il dio più potente e colui che, nello stesso tempo, è il più costretto di tutti ad attenersi alle regole del gioco. Se un cantante non fa sentire (né vedere, of course) tuttoquesto, buona parte del secondo atto e del personaggio di Wotan va a farsi benedire. Vero è che a Wotan rimane tutto l’emozionante e commovente terzo atto per farsi applaudire dal pubblico, ma non è detto che basti. Ed è esattamente quello che è successo l’altra sera.
E infine, il “problema” Barenboim.
È vero, come ha sottolineato il nostro Maugham, che ci dovrebbe essere sempre uno come lui a “benedire” un debutto con la sua professionalità calma e pensosa. È vero che un direttore eccentrico, o particolarmente innovatore, porterebbe un carico di imprevedibilità e di preoccupazioni per un(a) debuttante in un ruolo così impegnativo come una parte di protagonista nel Ring.
Però il suo Wagner ormai ci ha detto veramente tutto quello che doveva e voleva raccontarci, e il pensiero va inevitabilmente alla recente – e già citata – Walkure diretta a Aix en Provence da sir Simon Rattle, il quale è probabilmente il direttore wagneriano più intrigante ed interessante del momento.
La domanda è: quanto spazio c’è, in una piazza come Milano, per un modo finalmente diverso di interpretare non solo Wagner ma tutto il grande repertorio? È possibile che siamo ancora fermi al concetto mutiano di vedere tutto attraverso gli occhi del neoclassicismo, solo con l’orologio spostato in avanti di una cinquantina d’anni?
Alla Scala, teatro di ispirazione tolemaica, ogni direttore evidentemente sempre trovare un’epoca cui rapportare tutto il grande repertorio
Pietro Bagnoli