Domenica, 01 Settembre 2024

Editoriale: Carmen, o delle provocazioni mancate - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 08 Dicembre, 2009

Non ho sufficiente esperienza del teatro di Emma Dante per capire se questa sua interpretazione di Carmen sia una rilettura coerente con i suoi criteri o, piuttosto, una lettura a prima vista. Se devo dar retta a quello che mi hanno raccontato del suo teatro, basandomi su quello che ho visto mi sentirei di propendere per la seconda ipotesi. Non v'è un'idea-guida, un tema preponderante: tutto sembra all'insegna del "vorrei ma non posso", oppure del "lancio il sasso e nascondo la mano", il tutto condito da un didascalismo talmente esplicito da risultare francamente irritante.
Le tonalità sono cupe, ferrigne: quello di Carmen è un dramma di incomunicabilità, di mancata integrazione e Dante ci tiene a raccontarcelo in modo inequivocabile. A ciò, ovviamente, contribuiscono le scene di Richard Peduzzi, con i soliti muri a strapiombo di mattoni a vista che ingoiano la scena e rubano lo spazio alle vicende degli uomini. La scena è piena di figuranti in coppola - chiaramente siciliani - che osservano seduti il mondo che scorre; ci sono delle prefiche che si lamentano e una donna che partorisce in strada; ci sono tanti simboli religiosi, anch'essi prelevati da quel Sud cui Dante sembra continuamente aggrapparsi, uno dei quali accompagna sempre Micaela, che è una ritardata mentale con l'ossessione del matrimonio e che nel terzo atto avrà i capelli bianchi e si trasformerà nella mamma morente di Josè, giustificandone così la scelta di tenersi accuratamente alla larga da una potenziale moglie tanto noiosa. C'è l'idea di una “mediterraneità” che accomuna Spagna e Sicilia, segnata soprattutto da una religiosità vissuta in modo superstizioso, quasi con una specie di timor panico: gli ex voto appesi al muro della Plaza de toros, le già citate prefiche, il carro funebre, i crocifissi da processione, il turibolo che si agita sopra le quadriglie che stanno per entrare nell’arena. Ma la mediterraneità è raccontata anche dalla sensualità, dall'acqua di cui si bagnano le sigaraiedopo essersi tolte il velo da suora (chissà perché, poi), dalle ombre in cui si nascondono segreti inconfessabili che poco ci azzeccano con le tinte solari che Bizet volle mettere nel suo capolavoro. Siamo d’accordo: ognuno è libero (ci mancherebbe) di vederla come gli pare, e anche Maria Callas scelse, nella sua interpretazione discografica, di addottare tinte chiaroscurate invece dei colori. Ma quella di Dante non sembra una scelta di campo, quanto piuttosto una conseguenza di altre idee non del tutto congruenti.
Aggiungiamo poi il solito guardaroba di vecchi gesti, adottati per lo più da chi non ha ancora un rodaggio adeguato sul palcoscenico, e cioè Carmen, che dà gli spintoni agli uomini durante l’Habanera, o che si mette a smorza candela su José: è tutta qui la sensualità? Molti registi dovrebbero rivedersi la gestualità della Carmen più completa degli ultimi anni, e cioè Maria Ewing. E ci piacerebbe che qualcuno pensasse ad un’alternativa per Escamillo che salta sempre su un tavolo e fa sempre gli stessi gesti con la mano!
Bastano questi elementi a cambiare la storia dell’interpretazione di Carmen? A mio giudizio, no. Sembra – questo spettacolo di Dante – una specie di provocazione della domenica: lo si capisce grazie anche a tutto il didascalismo profuso a piene mani, quasi che la regista sentisse il bisogno di continuamente spiegare e giustificare al pubblico le sue scelte. Sarà forse un tentativo di adeguamento ad una realtà – quella della regia d’opera – cui si accostava per la prima volta? Non so rispondere, ma mi sembra che non solo il tanto vituperato Willy Decker, ma anche Pizzi e Faggioni abbiano fatto di meglio. Alla fine fischi e contestazioni di cui faccio fatica a spiegarmi completamente le ragioni: lo spettacolo non era veramente provocatorio, era solo brutto, ma non più di tanti altri passati su questo palcoscenico anche in epoche recenti e mai fischiati.

Sul versante musicale mi sono piaciute francamente benpoche cose.
Il trionfatore della serata è stato – come ampiamente prevedibile – Jonas Kaufmann. Il tenore tedesco è ormai talmente padrone della materia da avere un’identificazione quasi inquietante con il suo personaggio. Ancora lievemente indisposto per la recente influenza, ha evidenziato una leggera prudenza nei passaggi più arroventati ma ha affrontato il Fiore con tenerezza, culminandolo con la prescritta (e raramente eseguita) smorzatura del si bemolle attaccato in pianissimo. La sua padronanza della scena è ormai paradigmatica.
Applausi convinti anche per le intenzioni della giovane Anita Rachvelishvili: è dotata di un bel mezzo di ottimo colore, canta e colora con gusto, si sforza di stare bene in scena, è un bel progetto di cantante: di più per il momento onestamente non si può dire. Eravamo tutti ragionevolmente convinti che avrebbe cantato bene: nessuno si aspettava che Barenboim rischiasse un fallimento su questo fronte; ma ha confermato in pieno le perplessità di tutti quanto all’opportunità di rischiarla in un primo cast di un’inaugurazione scaligera alle prese con un ruolo come Carmen. Un’operazione del genere avrebbe avuto un senso ben preciso se Baremboim avesse avuto fra le mani un vero fenomeno, uno di quelli che fanno il botto: ci ha proposto invece una ragazza simpatica che canta bene, il che è un po’ poco per un’occasione del genere.
Deludente, deludentissimo Erwin Schrott da cui mi aspettavo un grande Escamillo; ha invece stonato nel Toreador e sbagliato gli attacchi nella ripresa da lontano alla fine del terzo atto. La presenza fisica nel duello del terzo atto è stata importante come ci si attendeva, ma se sbagli la grande aria del secondo atto, la prova è sostanzialmente fallita.
Mi ha deluso molto anche Adriana Damato, Micaela di suoni intubati e vocalizzazione incerta almeno nel primo atto; la prova del “Je dis que rien ne m’epouvante” è stata invece dignitosa, ma nulla più.
Nella schiera dei comprimarielogio lo Zuniga di Gabor Bretz e la Mercédès di Adriana Kučerová, ma non molto altro.
Lascio per ultimo Barenboim, che si è fatto carico di tutto lo spettacolo, includendovi Emma Dante portata spavaldamente al braccio sul proscenio per aiutarla a ricevere le bordate di fischi. Della sua responsabilità nella scelta della protagonista abbiamo già detto. Per quanto riguarda invece la direzione è stata come ognuno se la aspettava: i suoni turgidi, le dinamiche rallentate, la totale mancanza di humour e la noia che si tagliava a fette ci raccontano un direttore che, per formazione e cultura personale, non potrebbe essere più lontano da un repertorio di questo genere.
Come ci aspettavamo ha scelto un’edizione Oeser abbastanza completa: spiccavano solo ad un orecchio attento i tagli della seconda parte del coro dei monelli e, analogamente a quanto ha fatto Pappano a Londra, della prima parte del duello fra José ed Escamillo
Pietro Bagnoli

Categoria: Editoriale

 

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