Venerdì, 22 Novembre 2024

Registrazioni dal vivo di Giuseppe Giacomini

Aggiunto il 03 Luglio, 2011


Elenco delle tracce:

1. Norma: Meco all’altar di Venere
2. Ernani: Come rugiada al cespite
3. Il Trovatore: Ah sì ben mio
4. Il Trovatore: Di quella pira
5. Don Carlo: Io la vidi
6. Aida: Se quel guerriero io fossi
7. Otello: Esultate!
8. Otello: Ora e per sempre addio
9. Otello: Dio mi potevi scagliar
10. Otello: Niun mi tema
11. La Bohème: Che gelida manina
12. La Bohème: Questa è Mimì
13. La Bohème: Marcello finalmente
14. Tosca: Recondita armonia
15. Tosca: E lucevan le stelle
16. La fanciulla del west: Una parola sola
17. La fanciulla del west: Ch’ella mi creda
18. Andrea Chènier: Colpito qui m’avete
19. Andrea Chènier: Credi al destino?
20. Andrea Chènier: Sì fui soldato!
21. Andrea Chènier: Come un bel dì di maggio
22. Turandot: Nessun dorma


GIUSEPPE GIACOMINI
Registrazioni dal vivo




Orcheste varie
Direttori e altri cantanti non indicat

Luogo e data di registrazione: 1969-1996
Ed. discografica: Bongiovanni, 1 CD

Note tecniche sulla registrazione: registrazioni di qualità variabile, con diverse prese amatoriali

Pregi: ritratto completo di un cantante incompiuto

Difetti: nessuno per chi ama questo cantante. Veste editoriale scarsina

Valutazione finale: images/giudizi/sufficiente-discreto.png

Video:


I nostri detrattori ci accusano di guardare più alle regie che alle voci, e ci ricordano che l’opera si fa con le voci, e che le voci devono sempre correre sul fiato (grande affermazione, questa: come se si potesse produrre la voce senza il fiato) e che non c’è più il canto professionale, eccetera.
Bene, eccoli serviti: questa di cui parliamo oggi, per tutti gli Anni Ottanta e buona parte dei Novanta, è stata la voce che essi hanno maggiormente sbeffeggiato e che adesso maggiormente rimpiangono. E questo è in effetti lo strano destino del Bepi, come Giacomini viene affettuosamente chiamato dagli appassionati: nessuno se lo è mai veramente filato durante la carriera, ma tutti gli appassionati o sedicenti tali hanno comunque sempre favoleggiato di questa voce straordinaria, brunita e ricca di armonici; e di quelle mitiche serate in cui il Bepi dava il meglio di sé.
Come tutti gli appassionati della mia generazione, il Bepi l’ho visto e sentito diverse volte a teatro: professionista serio al limite del grigio impiegatizio, era indefesso nell’applicazione ed era sicuramente un ottimo investimento per il teatro, per cui capitava davvero di vederlo diverse volte nei posti più disparati, indoor o arena che fosse, ma io ahimè faccio parte del non banale plotone di sfortunati che non ha mai imbroccato una sua serata veramente buona, una cioè di quelle in cui narrano che ribaltasse il teatro.
Ne ho parlato non so quante volte con amici appassionati che vantavano conoscenza diretta o di amici comuni; di fronte alla mia perplessità le risposte erano sempre quelle: “Sì, ma lui aveva terrore del palcoscenico”, “Sì, ma era lunatico”, “Sì, ma quella volta aveva problemi di salute”; e poi il discorso si concludeva con l’immancabile: “Sì, ma tu dovevi sentirlo nelle serate giuste”.
Appunto quello che dicevo prima: non sono stato fortunato. Mai mezza volta.
Ma – devo dirlo – nemmeno i discografici della Bongiovanni che hanno raccolto il meglio esistente (o presunto tale) del Bepi e lo hanno riversato in questo dischetto che, diciamocelo onestamente, non rende un gran servizio al tenore.
Iniziamo a dire che la veste editoriale è di qualità piuttosto misera: mancano le date degli spettacoli, il che per un recital dal vivo è fondamentale, a maggior ragione trattandosi di un cantante come Giacomini che è variato tantissimo con il passare degli anni. Per me che lo conosco, è ragionevole pensare che i takes più antichi siano quelli della Bohème, ruolo affrontato in gioventù e poi abbandonato. Ai tempi (eravamo negli Anni Sessanta) la voce del Bepi era molto più chiara e estesa di quanto poi abbia fatto sentire, dopo essere passato attraverso le “cure” dei fratelli Del Monaco. Le quali cure hanno sostanzialmente fatto sì che il mezzo vocale di Giacomini si iscurisse sino a diventare catramoso, spesso e nero come il fumo, oltre che pesantissimo; a quel punto la voce, pur piena, perse di smalto e armonici e soprattutto si imbottigliò sul passaggio superiore rendendo estremamente problematica la costruzione degli acuti che, pure, dopo il “lancio” diventavano comunque assolutamente passabili pur se non sfarzosi e lucenti.
Il modello – manco a dirlo – era Franco Corelli: rispetto al tenore marchigiano vantava voce più scura, acuti più faticosi e meno scultorei, interpretazione più asciutta e compassata. Ma c’era anche il problema non indifferente di una musicalità assai più precaria che influiva non poco sulla scansione ritmica e soprattutto sull’intonazione. E c’era il problema di tutti i trucchetti necessari a un vocione così strutturato per affrontare le difficoltà di partiture come quelle verdiane tanto più esigenti sul piano tecnico: mi riferisco, per esempio, al vezzo di anteporre una consonante prima delle vocali sugli attacchi scoperti. Niente di drammatico, per carità: ma alla lunga diventa fastidioso.
Secondo qualcuno, la voce del Bepi è stata l’ultima vera di tenore drammatico; a me, invece, ha sempre fatto pensare a una specie di Suthaus “de noantri”, vale a dire un catramone pesante e di difficile gestione, ma sono disposto a credere al mio vecchio amico Giuseppe Riva, baritono comprimario attualmente in pensione ma che ha cantato spesso con lui, che lo cita ancora oggi come la voce più importante che abbia mai sentito…

Detto questo, passerei ad analizzare questo disco Bongiovanni che – pur con le limitazioni del caso – mi sembra che presenti un’antologia più che adeguata dell’arte del Bepi. I brani sono alterni sia per qualità audio che per valore artistico intrinseco.
Si va da un Pollione che fa veramente il verso a Corelli, ma senza possederne lo slancio né le complesse dinamiche; a un “Nessun dorma” davvero prodigioso per squillo e metallo che da solo alimenta il rimpianto per tutto quello che questo singolare cantante sarebbe potuto essere se fosse stato sorretto da un istinto musicale più singolare.
In mezzo c’è un po’ di tutto, una specie di bazar dell’arte tenorile di forza, presentato da un cantante che appariva già demodé sin dai primi Anni Settanta, quando cioè la parabola di questo tipo di voce era da considerarsi definitivamente conclusa.
Un peccato?
Mah. Se consideriamo il modo sciatto con cui vengono affrontati brani come la cavatina di Ernani, oppure “Ah sì ben mio”, direi che possiamo farcene tranquillamente una ragione. Questo non è Verdi: è la sua rivisitazione secondo il punto di vista di una vecchia scuola che dava i suoi ultimi colpi di coda. Quando sento i sedicenti sapientoni che farneticano sulla tradizione esecutiva della provincia italiana come se essa fosse custode di chissà quale verità storica, penso proprio al Bepi che si avvita faticosamente su acuti interpolati di tradizione e giustamente eliminati da Riccardo Muti in avanti.
Terribili davvero, per stare a Verdi, i due brani del Trovatore, la Pira in particolare, abbassata di tono, lenta, sferragliante, senza i trilli che riusciva a fare in tedesco persino Hans Hopf. E questo sarebbe un tenore verdiano?
Certo, ci sarebbero anche i brani di Otello.
Ora, sarebbe ingiusto affermare che il Bepi non abbia fatto un bel lavoro su Otello: era un personaggio in cui credeva moltissimo e su cui fece uno scavo interpretativo di notevole entità. Il problema è che – risentito oggi – questo Otello sembra uno dei tanti del dopo-Del Monaco: affondatissimo, ingolatissimo, scurissimo. C’è solo un po’ di costruzione declamata su “Dio mi potevi scagliar” e la prodezza di fare su un unico fiato “Dopo l’arme lo vinse l’uragano”, ma in compenso “Niun mi tema” è veramente gettato via in un mezzoforte concluso da una serie di rantoli di gusto paraverista. Si è sentito di molto peggio, d’accordo: ma da qui a definire storica quest’interpretazione, ce ne corre.
Il “Celeste Aida” vive sulla preoccupazione del programmato si bemolle finale. E il tono sognante? E l’entusiasmo giovanile? Mah!
Meglio allora i brani pucciniani, a cominciare da un’insolitamente ampia selezione tenorile di Bohème che, come dicevo, secondo i miei calcoli dovrebbe risalire a prima del 1970: lì si sente quella che sarebbe dovuta e potuta essere la vera voce del Bepi, quella cioè di un gran bel lirico, forse di temperamento non fantasiosissimo ma piena, svettante e discretamente ricca di armonici, quegli armonici che avrebbe perso insieme alla musicalità quando si fece mettere in testa di diventare l’erede dei grandi heldentenor all’italiana. Interessanti, quanto a adesione allo spirito dell’Autore, anche i brani di Tosca: “E lucevan le stelle”, pur se non del tutto memorabile, ha qualche ottima intenzione discretamente sfruttata. Non male nemmeno i brani della “Fanciulla”, anche se anche qui si è sentito di meglio; fu uno dei ruoli in cui lo vidi alla Scala, anche in questo caso con poco interesse.
Andrea Chènier è uno dei personaggi che il Bepi ha amato maggiormente, e si sente: buon scavo sul fraseggio, ricerca sulla parola e sobrietà di esecuzione. Ma, ancora una volta, tanta difficoltà nella tenuta della frase, inevitabile per un vocione tanto complesso. E, ancora una volta, desolante povertà di armonici e lotta continua contro l’intonazione e l’allineamento all’orchestra, con risultati – a essere generosi – piuttosto alterni.

Un disco, in definitiva, che serve solo agli appassionati residui dell’arte di questo taciturno e introverso cantante, oppure a quelli che vorranno dimostrarvi a tutti i patti che il canto, ai tempi di Caffarelli, era un’altra cosa.
Non dategli retta

Categoria: Recitals

 

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