Lunedì, 25 Novembre 2024

Giulio Cesare

Aggiunto il 19 Aprile, 2016


GEORGE FRIDERIC HAENDEL
GIULIO CESARE IN EGITTO

• Giulio Cesare DIETRICH FISCHER-DIESKAU
• Curio WOLFGANG SCHÖNE
• Cornelia JULIA HAMARI
• Sesto PETER SCHREIER
• Cleopatra TATIANA TROYANOS
• Tolomeo FRANZ CRASS
• Achilla GEROLD SCHRAMM
• Nireno MICHAEL SCHOPPER

Münchener Bach-Chor
Chorus Master: non indicato

Münchener Bach-Orchester
KARL RICHTER

Solo corno: Hermann Baumann
Solo tromba: Pierre Thibaut

Luogo e data di incisione: Monaco, Bavaria Ton-studio, 4/1969
Edizione discografica: DGG, 4 CD economici

Note tecniche: registrazione di ottima qualità

Pregi: Troyanos e, sia pur ampiamente fuori parte, Fischer-Dieskau

Difetti: impostazione ampiamente fuori tempo massimo già all’epoca della registrazione; mancanza di teatralità

Giudizio complessivo: images/giudizi/discreto.png

Che Karl Richter, direttore specializzatosi quasi esclusivamente nel repertorio bachiano, sentisse l’urgenza di cimentarsi con Haendel, e per di più con un’opera come questa dominata dalla doppiezza a tutti i livelli, è qualcosa che mi lascia basito. Nato nel 1926, e quindi poco più che quarantenne all’epoca di questa registrazione, la sua formazione è rigorosamente luterana, non solo biograficamente – è figlio di un pastore – ma anche musicalmente. La sua impostazione priva di compromessi si riflette anche nella resa della musica che dirige, nei confronti della quale si percepisce l’amore infinito, ma anche la genuflessione di fronte a una materia che viene vissuta come trascendentale.
Di tutti i fermenti che increspano la superficie del mondo barocco alla fine degli Anni Sessanta, a Richter non sembra importare granché: i suoi complessi Münchener-Bach suonano più o meno, mutatis mutandis, come i Berliner; e se anche non arrivano a quel tipo di saturazione per limiti intrinseci di organico, comunque l’intenzione è quella.
Ora, in quel particolare periodo fra la fine degli Anni Sessanta e i primi Anni Settanta Harnoncourt, Leonhardt, i fratelli Kuijken, Pinnock, Hogwood e altri ancora iniziano, di fatto, una vera e propria riforma del modo di eseguire il repertorio barocco che cambierà drasticamente le carte in tavola; e, alla fine degli Anni Sessanta, la riforma era già ongoing, se si considera che la registrazione della Cantante di Harnoncourt e Leonhardt parte proprio dal 1970, ma con un’orchestra come il Concentus Musicus che era stata fondata poco meno di vent’anni prima. La riforma parte quindi da lontano, ma se consideriamo che Richter dirige il fondamentale corpus delle “sue” Cantate proprio a cavallo di quel periodo, è evidente quanto fosse impermeabile non solo all’idea, ma anche a tutto quello che aveva portato alla sua formulazione.
Ma ciò che manca soprattutto in questa specie di oratorio che è il “Giulio Cesare” di Richter, è la teatralità (che peraltro, a regola, non mancava nemmeno negli oratori di Haendel): tutto fluisce in una specie di continuum molto armonico e melodioso, che ha un riguardo particolare verso la bellezza della musica, ma che spegne completamente qualunque tipo di contrasto e, ovviamente, misconosce o al limite diluisce tutto ciò che c’è di ambiguo nelle passioni dei personaggi, ridotti a meri esecutori di arie. Il che, conveniamone, è la negazione di Haendel e di tutto il suo mondo, non solo “Giulio Cesare”.
Quindi, ovviamente, in questa esecuzione non solo non ci sono controtenori – tema comunque discutibile anche oggi, ma che era già stato abbondantemente sdoganato dai suoi colleghi – ma i personaggi maschili vengono comunque affidati a voci rigorosamente maschili e, per lo più basse.
Ora, quanto questa attribuzione sia ossimorica in un’opera come questa, risulterà ben chiaro a chi ne conosca la storia interpretativa. Quello di Giulio Cesare, per esempio, è il prototipo di tutti i ruoli-Senesino; il grandissimo cantante fu uno degli Artisti prediletti da Haendel, di cui aveva in repertorio non meno di 17 ruoli. Non meno interessante la scrittura di Tolomeo, archetipo di doppiezza e ambiguità, affidata al fiorentino Gaetano Berenstadt.
Entrambi questi cantanti, come noto, appartenevano alla categoria dei super-Divi castrati.
Ora, se è da un lato ben chiaro quanto sia arbitrario affidare a controtenori le parti che furono originariamente concepite per castrati, è altrettanto intuitivo quanto appaia profondamente sbagliato attribuire gli stessi ruoli a un baritono e a un basso.
Nel caso di Giulio Cesare, Fischer-Dieskau comunque fa il suo con onestà: conosce le regole della materia, il canto barocco non gli è estraneo, è in grado di variare adeguatamente e la voce sufficientemente chiara e splendidamente emessa grazie a una tecnica da fuoriclasse paga dividendi di notevole valore in momenti come “Empio dirò tu sei”, “Se in fiorito ameno prato” e, soprattutto, la famosissima “Va tacito e nascosto” in cui, tra l’altro, il corno obbligato di Hermann Bauman conferma l’eccellenza degli strumentisti di Richter. Ma non è, né mai potrà essere un interprete di ruoli-Senesino: gli manca la doppiezza, la capacità di piegare la frase alle mille inflessioni che Haendel richiede ai propri interpreti di queste parti psicologicamente così complesse. E comunque, agli albori degli Anni Settanta era già ampiamente fuori tempo massimo per un’operazione del genere, e non di sicuro per limiti vocali: ascoltarlo dà davvero una sensazione di fuori posto difficile da scansare, pur con tutto il rispetto per un monumento del genere.
Ma più grottesca ancora la scelta di dare Tolomeo a un basso di formazione prima wagneriana, poi mozartiana e bachiana: come dire, un Amfortas che è evoluto in Sarastro. La tensione morale che anima sempre il canto di Crass non c’entra davvero niente con la rete di inganni e l’ambiguità sempre presente in Tolomeo. Un orrore. Non che Crass canti male, ovviamente: è solo un pesce fuor d’acqua che non c’entra niente con questo milieu.
Un po’ meno fuori parte, nonostante le apparenze, ma comunque inadeguata la grandissima Tatiana Troyanos, artista sensibile e di notevole intelligenza. Ovviamente non è una questione vocale: la parte non è particolarmente fiorita, come sempre capita nei ruoli-Cuzzoni. I suoi momenti solistici sono resi molto bene ma, anche in questo caso, con una sensazione di irrealtà notevole per l’ascoltatore. Passaggi come “Tutto può donna vezzosa” mancano di sensualità; “Se pietà di me non senti” manca totalmente di seduttività. E ancora: “Piangerò la sorte mia” è cantata benissimo – anzi, è forse il momento migliore di questa Cleopatra – ma anche in questo caso manca quel frisson di abbandono che caratterizza un po’ tutti i ruoli-Cuzzoni.
Cantato molto bene anche il Sesto di Peter Schreier; ma, anche in questo caso, sembra di sentire il suo celeberrimo Evangelista di una qualunque delle Passioni di Bach.
Inoltre valgano anche per lui le stesse considerazioni già effettuate a proposito della distribuzione dei ruoli Giulio Cesare e Tolomeo: il primo interprete del ruolo fu un soprano, Margherita Durastanti, che peraltro già fu la prima Agrippina.
La domanda è: una produzione di questo tipo, come si colloca nella storia esecutiva di questo capolavoro? È un prodotto di una tradizione sino a quel momento inesistente? Meno male che la filologia, sia pure con le estremizzazioni, ha aiutato a riportare la materia in un alveo di ortodossia.
Discreta la Cornelia di Julia Hamari, mentre decisamente fuori parte e fuori stile sono Schöne, Schramm e Schopper, rispettivamente Curio, Achilla e Nireno
Pietro Bagnoli

Categoria: Barocco

 

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