Otello
Aggiunto il 02 Giugno, 2015
Altro esempio di preclara civiltà musicale nell’esecuzione del repertorio verdiano, con un occhio alla tradizione “baritenoristica” maturata unitamente ai tenori di area tedesca e approfondita poi da Mario Del Monaco che – si ricorda – aveva debuttato la parte otto anni prima di questo broadcast e ne aveva già fatto una personalissima icona.
Il buon Hans Hopf, tenore wagneriano sovente prestato all’opera italiana (aveva debuttato nel 1936 proprio come Pinkerton), ha un vocione enorme e scurissimo, ma anche gli acuti che la parte richiede. Il bilancio è complessivamente più che positivo, pur senza particolari voli pindarici. Devo dire che sono di parte perché Hopf mi è sempre stato simpatico, ma dove lo trovate un altro tenore – a parte Domingo, ovviamente (!) – che dimostra tanta poliedricità da svariare fra Siegfried e Turiddu, Walther e Radames, Max e Arrigo, Tannhauser e Calaf?
In realtà, fra i tenori wagneriani Hopf è colui che probabilmente si è prodotto con maggiore frequenza nel repertorio italiano, cui ha prestato non solo voce ma anche curiosità, serietà e voglia di approfondimento. È probabile che nessuna delle sue performance sia stata veramente di riferimento assoluto, ma la professionalità è sempre stata a prova di bomba.
Ed è così anche in questo interessante broadcast in cui il tenore di Norimberga mette tutto l’impegno per far risaltare la passione (prima) e la frustrazione (poi) del Moro. Se non riesce a sbancare completamente è anche per i mille termini di paragone storici che c’erano anche al momento in cui lui si produceva. Non staremo qui a ripetere quanto poco c’entri una vocalità del genere con un ruolo che è stato creato la prima volta da Francesco Tamagno, ma non c’è da dire che – nel suo genere, sia pure filologicamente inattendibile – questa sia una personificazione di livello assolutamente adeguato. Non è quindi rivoluzionario, il buon Hopf; ma per un Otello affidabile ce n’è d’avanzo.
I momenti topici sono tutti rispettati con estrema accuratezza.
Ottimo l’Esultate, tra l’altro molto ben legato.
Bello il duetto, in cui si sforza di sfumare, se non di alleggerire l’emissione, problema non da poco con una voce così.
Eccellente il secondo atto in ogni sua componente, grazie anche alla partecipazione di un baritono outstanding.
Bene anche “Dio mi potevi scagliar”, cantato con un tono sommesso pur se un po’ troppo lamentoso anche se molto ben sfumato su “…rassegnato al voler del Cielo” e “…l’anima acqueto”; non saremo dalle parti di Vickers, ma l’interprete si fa valere eccome.
Ed eccellente, infine, il “Niun mi tema” accorato e dolente.
Ripeto: niente di rivoluzionario, ma notevole affidabilità e ascolto assolutamente piacevole, nonostante l’inevitabile lingua tedesca.
Nel contesto di questa apprezzabilità senza particolari voli pindarici si fa apprezzare, sia pure su un piano lievemente inferiore, anche Claire Watson, che canta molto bene, fa il suo senza sbavature e con bella voce, ma anche senza lasciar memoria imperitura.
Su un livello nettamente superiore è invece il glorioso Josef Metternich, erede della tradizione dei baritoni “chiari” tedeschi degli Anni Trenta (tipo Schlusnus, per capirci). Il suo eloquio forbito e raffinatissimo ci chiarisce, una volta di più, quanto sia fondamentale cantare con souplesse e raffinata intelligenza questa parte così difficile.
Ottimi i comprimari, fra cui segnalo lo splendido Lodovico di Kieth Engen.
Dirige il tutto da par suo il quarantaseienne Georg Solti, con le idee perfettamente chiare sulla “forma” esecutiva dell’opera: sonorità sgargianti, ritmi serratissimi, fluidità narrativa, sapiente mix fra thrilling e compassione, perfetto accompagnamento ai cantanti.
A distanza di anni, ancora oggi una delle sue direzioni verdiane (e non solo) più riuscite
Pietro Bagnoli