Elektra
Aggiunto il 31 Marzo, 2015
Mediocre, veramente mediocre questo ennesimo broadcast dalla Grande Mela.
Anzi: nonostante il dispiego di nomi grandi o grandissimi, il risultato è di una modestia imbarazzante verosimilmente per la mancanza di “manico”, e cioè un direttore che sapesse fondere l’urgenza espressiva di cantanti normalmente straordinarie in questo repertorio con la quadratura stilistica di una partitura che non è un barnum per qualunque tipo di sguaiataggine.
Nato a Cracovia nel 1895, Joseph Rosenstock aveva rimpiazzato con poco successo proprio a New York nel 1928 Artur Bodzansky. Dopo una parentesi in Germania e a Tokio, era tornato a New York nel 1948, dapprima alla City Opera (dove si era distinto per scelte inusuali di repertorio), poi dal 1961 sino al 1969 al Met.
Questa “Elektra” si riferisce quindi all’inizio del suo grande ritorno al teatro principale della città, ed è oggettivamente imbarazzante.
L’orchestra è quello che è, siamo d’accordo, ma non c’è nulla di quegli impasti timbrici che sono stati svelati da tanti altri direttori, prima e dopo di lui: è una direzione svelta, pratica, efficiente, il che va bene, ma anche fracassona, che sembra del tutto ignara di quello che succede in scena e soprattutto che non esercita alcun potere di controllo sui cantanti che vengono quindi lasciati a se stessi.
Per esempio, Inge Borkh. All’epoca di questa recita aveva 40 anni, aveva debuttato il ruolo da 3 anni e ne era già padrona totale, come forse solo la Varnay e la Pauly prima di lei. Ma qui si stenta a riconoscerla. Rispetto alla cantante che nel 1960 aveva inciso un’edizione fondamentale con Bohm e la Staatskapelle Dresden, sembra di sentire un’altra persona: linea di canto frastagliata, spezzata; ululati e cachinni; stonature sparse in ogni dove; enorme difficoltà nel raggiungimento di quegli acuti altrove sfolgoranti. Certo, c’è pur sempre il temperamento e il carisma della grandissima artista, della fuoriclasse; e, ogni tanto, almeno a sprazzi lo si percepisce. Ma per capire veramente da questi dischi chi veramente fosse Inge Borkh, bisogna dirigersi alle ultime tracce del secondo disco ove è testimoniato il finale del primo atto di una Walküre coeva in cui, accanto a un eccellente Feiersinger (che nel timbro richiama un po’ la luminosità e lo smalto di Suthaus) realizza una splendida Sieglinde.
Per il resto, per capire come fosse l’Elektra della Borkh, sarà meglio rivolgersi ad altre registrazioni: fortunatamente ce ne sono tante.
Ma, per brutta che sia la prova della Borkh, è puro paradiso di fronte al disastro della Madeira, cantante che solitamente amo molto e in particolare proprio come Klytämnestra, ma che qui è – a essere generosi – francamente imbarazzante. Voce grossa con risonanze uterine, tono da caricatura di strega, acuti ululati che ballano orribilmente, interpretazione (?) da invasata di periferia. D’accordo: questo personaggio veniva spesso visto così (anche adesso capita frequentemente), ma qui sembra veramente una barzelletta.
Nemmeno l’altra grandissima, Leonie Rysanek, riesce a sollevarsi da una miseranda routine di bassissimo profilo. Anche lei, lasciata a se stessa, stona tantissimo e sembra molto disinteressata a un personaggio su cui aveva costruito parte della propria celebrità.
La sua prova cade in un anonimato che – a regola – non le appartiene mai, qualunque cosa faccia.
Con le tre protagoniste così malmesse, e il direttore pestasolfa, ovviamente nemmeno il resto si solleva da una desolante mediocrità.
Uhde fa la voce grossa ed è rantolante. Peccato per un cantante che avrebbe potuto fare di Oresth un monumento alla nevrosi.
Vinay è caricaturale, come il 95% degli interpreti di Aegisth.
Appena meglio il parterre dei comprimari, in cui troviamo buona parte delle seconde arti del Met dell’epoca (e anche di qualche anno prima, come la Votipka) e qualcuno dei protagonisti degli anni che verranno, come la Dunn, la Ordassy e, soprattutto, Teresa Stratas.
Ciliegina sul dolce, gli applausi del solito pubblico americano maleducato unitamente ai terribili rumori del palcoscenico, impediscono l’ascolto delle ultime battute orchestrali.
Brutta Elektra davvero.
Peccato, perché i nomi messi in campo promettevano meglio.
Pietro Bagnoli