Rosenkavalier
Aggiunto il 03 Agosto, 2014
Questa registrazione nasce nella coda delle rappresentazioni svoltesi – con cast praticamente identico – nel 1968 alla Wiener Staatsoper, nel celeberrimo allestimento di Otto Schenck, e poi riprese nel 1971. Il cast sostanzialmente era lo stesso per le due tornate, con qualche eccezione: Reri Grist come Sophie nel 1968, con la Popp che subentrò nel 1971 (e compare nella registrazione); e il tenore italiano che prima era Kmentt, poi Blankenship, mentre nella registrazione diventa il pessimo Domingo per ovvie ragioni di marketing. Lo stesso Faninal era inizialmente Erich Kunz, mentre al disco è approdato il Gutstein del 1971.
Per i curiosi e i collezionisti compulsivi, le recite del 1968 sono documentate da Operadepot, con dischi di suono eccellente, anche se non paragonabile allo sfarzo messo in campo dalla Sony in questa rimasterizzazione degli originali CBS in cui, peraltro, c’era la mano di Culshaw come record producer: come a dire, il massimo possibile.
La direzione di Bernstein è favolosa: dionisiaca, esagerata, voluminosa, sfarzosa, piena di vita, ruggente, americana, tutto quello che volete, basta che la immaginiate esattamente agli antipodi di quella di Karajan. Pensate solo alla fanfara di Rofrano all’inizio del secondo atto, con i rubati che sembrano provenire dalla Sala d’Oro degli Amici della Musica in un Capodanno, suonando i valzer degli “altri” Strauss, con uno sfarzo cinematografico: nessuno l’ha mai fatta risuonare così, e merita davvero di essere conosciuta da ogni appassionato di teatro d’opera.
Bernstein si diverte come un matto con questo meraviglioso capolavoro: affiora sempre l’ironia, stemperata tuttavia dalla tenerezza e dalla comprensione per le vicende degli umani.
Si tratta però del “divertimento” di Bernstein, più che di quello di Strauss.
Elvio Giudici segnala il mugolio dei Wiener che accompagna la cadenza di Annina sulla parola “Kaiserin” al terzo atto; questo mugolio divertito è tipico dei soli Wiener: ho controllato tutte le edizioni discografiche ed è proprio così, posso confermare, anche se non sono riuscito a comprenderne esattamente le ragioni…
I temi del valzer sono tutti sottolineati e anzi esaltati, quasi questa edizione ne fosse un compendio; perdendo così incongruamente quel recondito significato di equilibrio associato al tempo di trequarti, forse anacronistico – come fatto rilevare dai critici dell’epoca – ma interessante epitome dell’ordine e dell’equilibrio e, come tale, assolutamente appropriato (questo rilievo è stato fatto sul nostro sito da Maugham). Quei valzer che con Karajan erano una reminiscenza nostalgica, una lieve folata quasi ironica, qui – nella loro surreale esposizione – sembrano la pubblicità della Vecchia Austria vista da un Lubitsch o da un Wilder.
Di più: l’esaltazione ha qualcosa di molto americano, di esagerato, e non riguarda solo i valzer. Parlavamo prima della fanfara di Rofrano: è uno spettacolo con i suoi “rallentando” che non sono stati scritti, ma che sono fantastici (altra doverosa citazione del nostro Maugham). La presentazione della Rosa è assolutamente breathtaking come se ci trovassimo a Broadway, a una recita di “Miss Saigon” o de “Les Miserables”.
Appropriato? Inappropriato? Antifilologico? Esagerato? Americano? Ognuno scelga la propria interpretazione, ma è comunque impossibile rimanere indifferenti.
Nel 1971 Christa Ludwig ha 43 anni, e molto Octavian dietro le spalle. Il passaggio da Rofrano a Marie-Therese è qualcosa che avrebbe probabilmente dovuto portarla a rinverdire i fasti di Sena Jurinac ma le mancava quella joye de vivre che aveva caratterizzato la sua meravigliosa precedente. Il canto è inappuntabile, perfetto, splendido, nella sua tinta dorata pur nella singolare assenza di sensualità, che è tratto che comunque immaginiamo lontano da questa grandissima Artista. A stare alle suggestioni del puro canto, meglio di lei solo la Schwarzkopf e la Della Casa; ma Marie-Thérèse non è solo canto: è sorriso; mistero; charme; femminilità inesausta; sensualità; autorità. Di queste caratteristiche, non ce n’è nemmeno una che possa essere associata alla pragmatica Ludwig.
Bernstein la ama teneramente, e la circonda di attenzioni: si percepisce anche all’ascolto odierno. Basta per farne un’interprete storica?
Purtroppo la risposta è no. È l’ennesima dimostrazione di come il canto – di per se stesso – in ambito teatrale e per di più in questo tipo di repertorio non sia sufficiente a far quadrare il cerchio di una parte di questo genere che, tra l’altro, deve evocare anche una gioventù non ancora esausta.
Accanto a lei, un’altra star alle soglie della celebrità: Gwyneth Jones, all’epoca 35enne. La sua presenza mi è abbastanza inspiegabile, visto che la voce è sopranile pura, per di più piuttosto dura, poco modulabile, aspra come lo sarà anche nell’affrontare quella Brunnhilde che segnerà il punto più alto di una carriera meravigliosa, con intonazione – a essere generosi – piuttosto fantasiosa. Mi sembra fuori parte, anche se fa di tutto per crederci. Lei è spiritosa e simpatica, ma di carisma in questo ruolo ne mette in campo piuttosto poco - il che è stranissimo per una come lei che di carisma ne aveva invece da vendere - ed è per di più particolarmente insopportabile nei siparietti di Mariandl, risolti con la solita lagna di tradizione.
Purtroppo, fra lei e la Ludwig si viene a perdere la magia del Terzetto finale su cui invece si gioca la bellezza evocata da tante altre interpretazioni.
Walter Berry, all’epoca 42enne e marito della Ludwig, è uno dei più meravigliosi, fantasmagorici ed eloquenti Ochs della discografia. Elvio Giudici lo racconta indisposto all’epoca della registrazione, ma non sembrerebbe affatto a giudicare non tanto dal “Beschämt”, che comunque è favoloso per arrogante risonanza, quanto per l’eloquio sapidissimo, per il perfetto e diabolico dominio del canto di conversazione, sulfureo e mutevolissimo. Insieme alla vulcanica orchestrazione di Bernstein fa letteralmente faville: una delle ragioni per riascoltare questa registrazione.
Lucia Popp aveva 32 anni e sostituiva anche in teatro Reri Grist, che faceva parte del cast originale. Il canto è cristallino, mentre l’interprete è una delle tante Sophie angelicate ed ingenue della tradizione esecutiva di quest’opera. Lo fa in modo meraviglioso – è sempre stata bravissima – ma è un filino stucchevole.
La CBS impose la presenza di Domingo come tenore italiano: pessima idea. Si tratta di parte breve, ma che si gioca tutta su un passaggio altissimo, che richiede un dominio del legato in alta quota che per il tenore spagnolo è sempre stato proibitivo. Il risultato è… beh, terribile. In pochi sono riusciti a fare peggio. Domingo, molto semplicemente, non aveva le note di questa parte, per cui s’impicca orribilmente cercando di venirne a capo; Kmentt del primo cast sarebbe stato una scelta molto più sensata.
Semplicemente splendido il resto del cast, in un’opera come questa dove i comprimari hanno un ruolo fondamentale nel rendere l’atmosfera e la credibilità di tutta l’impresa.
Conosco Gutstein solo per questo Faninal, ma è favoloso.
Parimenti grandiosa è l’Annina della Lilowa, ma non sono da meno i due intriganti, dei celeberrimi Emmy Loose e Murray Dickie.
Eccellenti tutti gli altri, davvero.
Edizione complessivamente molto segnata dalla personalità soverchiante del direttore e un po’ meno dall’Autore e dai protagonisti
Pietro Bagnoli