Forza del destino
Aggiunto il 03 Luglio, 2013
Uffa! È la prima esclamazione che sorge spontanea dopo aver ascoltato questa edizione di una delle più complesse opere verdiane, ricca di cambi e colpi di scena nonché popolata da personaggi psicologicamente contorti, da caratterizzazioni e da figure popolaresche, ma non per questo disprezzabili o mal trattate dal genio del Bussetano. Uffa – dico – ma perché ? Si tratta di un’edizione un po’ alla buona, morchiosa, noiosa e lontana anni-luce da quanto si ascolta, ad esempio, nella proposta offertaci da Solti e recentemente recensita, dove i complessi londinesi volavano alto, mentre qui rasentano la polvere (e di essa ce n’è molta). Mi sono fatto attrarre nell’acquisto dal nome della Cerquetti e dal prezzo davvero stracciato di questo cofanetto di ben 3 CD (9 euro!). Il livello complessivo è medio-basso ma ci sono alcuni elementi esecutivi che lo fanno davvero sprofondare molto, ma molto al di sotto della sufficienza, usando un gergo scolastico non estraneo, a volte, a noi melomani.
Uno dei motivi negativi è la presenza di tagli, alcuni tradizionali (sparisce la sfida Alvaro-Carlo del III atto) altri di minor entità ma illogici (assenti la seconda parte dell’arioso d’ingresso di Preziosilla, alcune frasi della ballata «Son Pereda», la scena delle reclute: quindi da Trabuco si passa direttamente al saltarello, piuttosto spento e convenzionale). La direzione di Sanzogno non è prodiga di atmosfere (tutto il finale I manca di mordente), né momenti particolarmente accurati, non è esente da pesantezze e suoni reboanti e severi, piuttosto monocorde nel suono ad onta di certo dinamismo che qua e la affiora, ma sono momenti rari (introduzione al III atto, la scena dell’assalto in cui viene ferito Alvaro) perché spesso c’è il ristagno. Se ne ha prova persino nel «Rataplan» dove la Simionato è molto brava, ma lo strumentale tende ad affossare la brillantezza e la spavalderia tipica del brano.
Il coro non è eccelso, però fa il suo mestiere e nulla più: gli va dato atto però che nella scena della vestizione avvertiamo alcuni passaggi che anticipano il Requiem che il Bussetano compose per Manzoni. Fra i cantanti abbiamo una/due punte di diamante ed un buco davvero clamoroso. La Cerquetti e la Simionato mostrano la loro superiorità all’interno di un cast non particolarmente felice quanto ad assemblaggio. Il grande soprano marchigiano svela la voce ampia, robusta e nobile che sappiamo, con fiati sostenuti a dovere, acuti squillanti (anche se talvolta un po’ forzati oppure crescenti di d’intonazione: si vedano alcuni punti del «Pace, pace mio Dio»). Quello che manca nell’esecuzione della grande Anita è una vera e propria partecipazione convinta alle vicende di Leonora: pur nella bellezza del suono si ha come l’impressione che la cantante si muova su un piedistallo e da lì pontifichi, ma i turbamenti, i ripiegamenti e le avversità esistenziali della dama spagnola la toccano poco. Basterebbe ascoltarla sin dal I atto quando la frase «gonfio di gioia il core» la trova poco emotiva se non addirittura inespressiva, anche se si resta colpiti dalla voce doviziosa. Solo nel finale dell’opera abbiamo un certo ‘scuotimento’ e nel terzetto finale con Christoff e Ferraro è senz’altro la migliore. Pur non comparendo suoni brutti o banali o minimamente veristi, la Cerquetti manca anche, a mio avviso, di quell’aura angelica ed orante con la quale la Tebaldi siglava negli stessi anni «La Vergine degli angeli», oppure l’attacco del «Pace, pace mio Dio», pur avendo la Cerquetti una vocalità decisamente più drammatica rispetto al soprano pesarese. Non dimentichiamo che la Cerquetti è stata una notevole Abigaille (anche se io personalmente non gradisco una carenza di grinta in questo personaggio che la cantante maceratese risolveva con la sua ampia voce, almeno stando all’incisione del recitativo e aria offerta da un suo recital DECCA). Insomma gran voce, momenti di canto splendidi, però la macerazione interiore di Leonora (Callas), la dimensione di angelo e vittima (Tebaldi), la passionalità costretta dal cilizio (L. Price) sono un’altra cosa. Una Leonora poco persuasiva sul piano della tensione e dell’emotività.
L’altro personaggio ben riuscito è la Preziosilla della Simionato (che vantava un’edizione in studio precedente di 2 anni): forse non completamente brillante al suo ingresso, ma elegante per espressione e notevole per vocalità, sebbene si astenga dalla puntatura acuta dell’ultima frase. Insidiosa, maliziosa ed intelligente la battuta successiva al racconto di Carlo «Son Pereda». Un po’ troppo altisonante e sfarzoso l’attacco del «Rataplan» che vorrebbe essere brioso, ma è tarpato dalla seriosità fuori luogo di Sanzogno. Insomma una bella caratterizzazione che ha modo di farsi valere nel concertato dei pellegrini del II atto dove la Cerquetti e la Simionato evidenziano le loro differenze timbriche.
Col resto del cast si scende sensibilmente di livello: Protti era un frequentatore assiduo del personaggio (a Firenze nel ’55 con Mitropoulos e la coppia Tebaldi-Del Monaco c’era lui) lo risolve vocalmente bene sempre, ma sul piano interpretativo è un po’ alterno: quando canta da solo non sviscera completamente la parte e risulta generico (l’«Urna fatal» è emblematica, ma anche la successiva cabaletta, sebbene lì ci sia Sanzogno che limita), ma quando è in coppia con altri (specie col tenore) sa il fatto suo, in grinta, espressività, bel suono, vocalità curata e non lasciata al caso. Prestazione buona, tutto sommato, ma forse ci si sarebbe attesi qualcosa in più, dato il materiale vocale in sé e la perfetta e scandita dizione.
Christoff, quale Padre Guardiano, sfoggia il suo noto ed enfatico vocione, ma anche la sua uniformità macignosa con l’aggiunta di quella particolare dizione che ci dà l’idea di essere capitati non nel convento della Madonna degli Angeli, ma in una laura del Monte Athos e quando il cantante alza i toni, oppure vuole sfumare l’espressione i modi sono molto simili alla scena della pendola di zar Boris, oppure ai suoi furori. Insomma un francescano dai tratti marcatamente bizantineggianti nel bene (imponenza della voce) come nel male (accento/articolazione lontanissimi dal vocalismo italiano).
Pier Miranda Ferraro è un Alvaro dalla voce grossa usata con certa generosità nei momenti più infocati dell’opera, poco aduso ai momenti introspettivi del personaggio. È un cantante più preoccupato di mostrare i muscoli in acuti (alla Filippeschi, per intendersi) che di servire e delineare un personaggio. Inoltre nei momenti più liricheggianti l’andamento è da piagnisteo. L’esecuzione del suo momento più accorato («La vita è inferno… O tu che in seno») lascia alquanto a desiderare, ma nemmeno la scena della sfida con Carlo del IV è meglio. Un Don Alvaro voluminoso, ma anche molto monotono.
Troviamo tra gli altri interpreti, A. Zagonara (partecipe 20 anni prima quale Pong dell’edizione di Turandot che ne ha aperto la discografia e nella stessa opera figura come Principe di Persia dell’edizione del ’60 con Nilsson e Tebaldi), qui è un Trabuco molto macchiettistico, ma efficace: il timbro è senescente e volutamente tremolante e nella scena del ‘vu cumprà’ (III atto) è simpatico.
Cosa che non può dirsi del pessimo Melitone di Capecchi (sin dall’iniziale incontro con Leonora), qui ancora peggio che a Londra nella citata edizione del ’62 con Solti: l’impostazione del personaggio è completamente sballata e ne emerge un guitto, dalla voce sgradevolissima, dalle trovate orrende (la frase “pro peccata vestra” nella sua predica nazional-popolare è da rigetto!); inoltre la scena della minestra ed il successivo duetto con P. Guardiano sono pressoché distrutti: da un lato dagli atteggiamenti da pagliaccio di Capecchi, dall’altro dall’inaccessibilità di Christoff che declama tutto stentoreamente e monoliticamente uniforme. Occorrerà attendere la coppia Ghiaurov-Bruscantini per ascoltare ben altra spirituale paternità e ben altra sottile ed umana furbizia. Quanto invece si sente qui è da cestinare irrimediabilmente. Anonima la Presti quale Curra, Massaria (specie nel finale I) appare piuttosto vociante, mentre è efficiente il Chirurgo di Coda per quanto compete al suo breve intervento.
La resa audio è sufficiente, ma si sente che è una registrazione piuttosto antiquata e nel suo valore puramente documentario di un vecchio modo di eseguire Verdi, non certo per godere di una prestazione globalmente sopraffina o singolare.
Di questa registrazione pubblicata anche sotto altre etichette non sono riuscito a trovare l’icona di copertina relativa alla casa Bongiovanni.
Luca Di Girolamo