Domenica, 06 Ottobre 2024

Carmen

Aggiunto il 13 Settembre, 2012


Georges Bizet
CARMEN

• Carmen MAGDALENA KOŽENÁ
• Don José JONAS KAUFMANN
• Escamillo KOSTAS SMORIGINAS
• Micaela GENIA KÜHMEIER
• Frasquita CHRISTINA LANDSHAMER
• Mercédès RACHEL FRENKEL
• Le Dancaire SIMONE DEL SAVO
• Le Remendado JEAN-PAUL FOUCHÉCOURT
• Zuniga CHRISTIAN VAN HORN
• Moralès ANDRÈ SCHUEN


Chor der Deutschen Staatsoper Berlin
Chorus Master: Eberhard Friedrich

Kinderchor der Deutschen Staatsoper Berlin
Chorus Master: Vinzenz Weissenburger

Berliner Philharmoniker
Sir SIMON RATTLE

Luogo e data di registrazione: Berlin, 16-21/4/2012
Ed. discografica: Emi, 2 CD

Note tecniche sulla registrazione: perfetta, registrazione in studio ottimamente bilanciata

Pregi: direzione e Kožená

Difetti: Kaufmann; scelta editoriale

Valutazione finale: images/giudizi/discreto-buono.png

L’altra mattina ero in macchina con mio figlio Giacomo di 15 anni e stavamo ascoltando il Fiore di questa registrazione di Carmen. Gli ho chiesto se riconoscesse il tenore, e mi ha detto di no. Gli ho ricordato che l’avevamo visto tre anni fa a Zurigo, in “Tosca”. Lui ci ha pensato un po’ su, e poi mi ha risposto: “Lo ricordavo più acuto”.
Ecco: la sostanza della prestazione di Jonas Kaufmann sta in questa affermazione di mio figlio che, con poche e semplici parole, sintetizza molto bene lo stato attuale della sua vocalità. Sempre più affondato, sempre più declamatorio, sempre più ispirato a Franco Corelli (che però, a fronte di un gusto espressivo urfido, vantava ben altro registro acuto), ormai JK sta perdendo le posizioni sul repertorio su cui ha costruito la propria fama. Fama – sia chiaro, a beneficio di chi dovesse ritenere che “ci stiamo ripensando” – che riteniamo essere imperitura, a motivo di tutto quello che Kaufmann ha detto nei ruoli che ha nobilitato, fra cui appunto Don José.
Adesso la sua voce è cambiata: è ora che JK ne prenda atto e si dedichi a ruoli più adatti, tipo il giù preannunciato Parsifal, altrimenti corre il rischio da adesso in avanti di lasciare, in questi stessi ruoli, tracce di livello inferiore a prove anche recenti.
Qui, per esempio, è imbarazzante. A essere veramente generosi.
Il duetto con Micaela è di livello piuttosto basso. Rattle è palesemente poco interessato a questo interludio di rimembranze, la Kühmeier fa il suo compitino, e lui si adegua: sembra la parodia di Vickers. Certo, conclude con quella che nominalmente dovrebbe essere una mezzavoce, ma la qualità di queste cosucce non è più quella di una volta per cui si finisce soprattutto per notare l’ingolamento, i suoni che si rotolano in bocca, l’infossamento della voce.
Ma ciò che preoccupa maggiormente l’ascoltatore che si è appassionato all’arte di questo grandissimo Artista è che gli acuti ormai sono faticosi, faticosissimi: è questo il limite di chi affonda la fonazione come lui e come – prima di lui – tutti quelli che si sono ispirati a Del Monaco: per esempio Giacomini. Gli acuti adesso sono presi tutti con il colpo di glottide dal la in su e sono veramente difficili; a meno che non siano presi di slancio, come nel finale del terzo atto, affrontato al calor bianco come ancora JK sa fare. Ma altrove siamo alla delusione vera: questa registrazione del ruolo, affrontata in studio, con un grande direttore, una grandissima orchestra e una partner meravigliosa, poteva essere l’occasione per fissare l’interpretazione definitiva della parte. E invece no.
Prendiamo il “Fiore”: la prima parte, attaccata con espressione bolsa (Vickers se non altro aveva ben altra capacità di sfumare e alleggerire, anche se stonava di più) è conclusa con un bercio (“Je m’énivrais”) che dovrebbe essere un soffio estatico, e che invece è il solito acutaccio. Certo, la seconda parte dell’aria è conclusa dal solito si bemolle in pianissimo: niente di travolgente, è roba sua, l’ha sempre fatto, lo fa ancora bene anche se il suono è meno bello che in passato; ma soprattutto siamo lontani dagli standard cui JK ci ha abituati anche perché stavolta – più che in altre occasioni – si ha la sensazione che il suono sia spoggiato.
Il finale terzo – dicevamo – è molto bello, negli standard di JK che finalmente si fa coinvolgere dall’atmosfera torrida creata da Rattle e riesce a svettare alla perfezione: ma è l’unico momento davvero convincente, perché il duetto finale è buttato via da entrambi i protagonisti.
Insomma, un’occasione perduta.
Ed è un peccato perché il milieu è potenzialmente intrigante anche se, guardando bene…

Vorremmo liquidare in poche parole la scelta editoriale ma, tanto per cambiare, non è possibile: c’è qualcosa (poco) di buono e purtroppo anche del cattivo.
La Emi fa parzialmente marcia indietro rispetto alla sua precedente registrazione audio – quella di Plasson con Angela Gheorghiu e Rototo Alagnà del 2003, che metteva in ben tre dischi una vecchia Choudens-Guiraud, un furto bello e buono condito da disonestà intellettuale – ma non si volta al progresso e sceglie l’ennesima Oeser, ormai anch’essa passata di cottura e le cui versioni ormai sono innumerevoli e tutte diverse l’una dall’altra. Ora non è questo lo spazio per parlare della “vaexata quaestio” delle edizioni critiche di Carmen, ma la Oeser risale al 1964 e fu criticatissima già all’epoca della sua comparsa; nel frattempo ci sono stati Schott (2000) con Didion e Heinzelmann; poi la recente Peters-Langham Smith; poi l’edizione Rot del 2005; e infine la preannunciata Lacombe per Barenretiter, che dovrebbe uscire fra un paio d’anni.
Materiale quindi vivo, incandescente; difficile da liquidare entro i paletti di un’edizione come la presente che è stantia almeno quanto la vecchia Choudens. Ci sono i dialoghi, è vero, anche se tagliatissimi per permettere all’incisione di starci comoda in 2 CD (siamo pur sempre in tempi di spending review); e questo nuoce non poco alla comprensione di quello che succede dando all’ascoltatore la sgradevole sensazione di ascoltare un’antologia di arie e cori di Carmen.
C’è il duello José-Escamillo nella sua integrità, e questo è un bene perché aiuta molto a comprendere la psicologia dei personaggi, oltre a dare a Escamillo qualcosa di più che non i suoi couplets del secondo atto con cui, normalmente, si apre e si chiude sostanzialmente tutta la sua parte. In compenso ci sono ancora tanti tagli, troppi; un esempio fra i tanti, qui come quasi ovunque, l’intervento del coro maschile nel coro delle sigaraie del primo atto.
Eppure, nonostante la solita ambiguità della scelta editoriale, si ha la sensazione che il discorso fili dal punto di vista drammaturgico. L’edizione è stringatissima e questo va bene per la scarna essenzialità sia della direzione di Rattle, sia – soprattutto – perché sembra cucita addosso alla protagonista, quella che finalmente cerca di dire qualcosa di diverso a distanza di circa trent’anni dall’ultima grandissima riformatrice del ruolo.
La protagonista è ovviamente Magdalena Kožená; e la predecessora cui facevamo riferimento è, altrettanto ovviamente, Maria Ewing.
In mezzo a loro ce ne sono state tante: alcune bravissime e di straordinario fascino, come Anna Caterina Antonacci; altre invece da considerarsi dei “laboratori”, come Vesselina Kasarova; e altre, infine, normali professioniste.
Ciò che rendeva diversa, intrigante e affascinante – se non da un punto di vista vocale, quanto meno da quello interpretativo – la Carmen di Maria Ewing era il suo porsi in un’ottica quasi da mito greco. Era scostante, antipatica, irraggiungibile; in qualche momento era davvero incomprensibile. La sensualità, se pure c’era, era tutta cerebrale: niente di nemmeno lontanamente paragonabile alla meravigliosa Antonacci.
Eppure “era” Carmen, più di chiunque altra l’avesse preceduta.
Oggi, con la Kožená, chiudiamo il cerchio: Carmen non è più “solamente” enigmatica, irraggiungibile e fatale, ma canta anche divinamente bene. La voce è di colore ambiguo: non completamente da mezzo, ma nemmeno da soprano corto; come per la DiDonato, il riferimento più immediato è Sena Jurinac.
La precisione vocale è diabolica: si va da un’Habanera affascinante e cantata letteralmente a piedi nudi, a una Seguidilla in cui il legato proprio della belcantista (e barocchista!) dona al brano una sinuosità che ancora non avevo percepito sino a una Canzone boema che è il vero capolavoro della cantante e di tutta l’incisione, oltre che il cuore pulsante di tutta l’incisione. Va proprio ascoltato: l’orchestra si avvita progressivamente su se stessa, mentre la Kožená segue il ritmo dapprima indolente e poi sempre più frenetico sino all’esplosione catartica finale.
Molto ben riuscita anche la scena delle carte, che vive su un tono allucinato e quasi indifferente; mentre invece piuttosto buttato via il finale, quando sembra seguire Kaufmann sul piano della rissa e “guadagna” – si fa per dire – accenti sguaiati da puttanaccia che non le appartengono.
Ciò che manca a questa Carmen, intuitivamente, è la sensualità. La scena della seduzione del secondo atto è – se paragonata alla realizzazione dell’Antonacci – ben poca cosa; del resto lo era anche quella della Ewing che lavorava su altre corde. La stessa Seguidilla, che tanto entusiasma l’ascoltatore per i colori e per il legato, manca di quella carnalità che siamo abituati ad ascoltare in altre interpreti.
Ciò che invece si guadagna è una Carmen più cerebrale, istintiva ma non primitiva, predatoria in modo consapevole finché le interessa, e poi contemplativa. È una Carmen che guarda il mondo con sufficienza e sorriso ironico e accetta il proprio destino con una consapevolezza che ancora non si era sentita, forse nemmeno dalla Ewing; e che, rispetto a quest’ultima, canta infinitamente meglio, grazie alla formazione belcantistica-barocchista.

Il resto del cast non brilla per particolare interesse.
Genia Kűhmeier, protegée di Muti a Salisburgo, fa il suo onesto compitino come Micaela: è bravina, canta benino (qualche nota stridula che in una parte come questa non ci si sente di perdonare), ma non emoziona particolarmente.
Kostas Smoriginas è lituano, è giovane e fa simpatia: il suo Escamillo è cantato complessivamente bene ma con ben poca personalità. Siamo d’accordo: è difficile sfoggiare personalità in una parte così breve e stereotipata, però ci si può provare.
Comprimari senza storia; nemmeno il glorioso Fouchécourt lascia il segno nella sua parte di carattere.

Direzione di bellezza trascendentale: Rattle è bravissimo a cercare colori, ritmi, profumi, accelerazioni, rubati, inflessioni. È probabile che il suo scopo principale sia quello di assecondare la sua compagna nel suo tentativo di realizzare “la” Carmen storica, quella da lasciare ai posteri per l’eternità e oltre, ma – quali che siano le intenzioni – c’è da dire che il risultato è davvero notevole. In ciò è sicuramente aiutato dalla bellezza del suono dei Berliner, semplicemente meravigliosi: i legni, per esempio, hanno un nitore insolente e un virtuosismo fantasmagorico. È difficile trovare una Carmen “suonata” meglio di questa, il che la rende di ascolto davvero godibilissimo.

Rimane una perplessità finale, che ci associa a qualche commento perplesso: in tempi in cui le registrazioni in studio sono state progressivamente abbandonate per i costi, era proprio necessario produrre l’ennesima “Carmen” in versione vecchia? È vero che l’incisione nasce a margine delle recite teatrali, ma l’occasione dello studio doveva e poteva consigliare qualcosa di più e meglio se non sul titolo – abusato finché si vuole, ma pur sempre di fascino intramontabile – sulla scelta editoriale.
Altrimenti detto: difficile pensare che tutte queste forze in campo si possano riunire in sala d’incisione per una “Jolie fille de Perth” ma, se Carmen deve essere, tanto varrebbe proporre un’edizione più recente, tipo una Didion che non ha ancora avuto l’onore di una registrazione ufficiale

Categoria: Dischi

 

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