Giovedì, 04 Luglio 2024

Meistersinger

Aggiunto il 04 Marzo, 2012


RICHARD WAGNER
I MAESTRI CANTORI DI NORIMBERGA

• Hans Sachs JOSEF HERRMANN
• Veit Pogner THEO ADAM
• Kunz Vogelgesang HILBERT KAHL
• Konrad Nachtigall WALTER STOLL
• Sixtus Beckmesser HEINRICH PFLANZL
• Fritz Kothner GERHARD NIESE
• Balthasar Zorn MANFRED SCHMIDT
• Ulrich Eisslinger SIEGFRIED NORDMANN
• Augustin Moser HEINZ BRAUN
• Hermann Ortel GÜNTHER GÜTZLAFF
• Hans Schwarz KAY WILLUMSEN
• Hans Foltz HANNS HEINZ WUNDERLICH
• Walther von Stolzing ERICH WITTE
• David GERHARD UNGER
• Eva RUTH KEPLINGER
• Magdalene ANNELIESE MÜLLER
• Un guardiano notturno WALTER GROSSMANN


Chor der Deutschen Staatsoper Berlin
Chorus Master: non indicato

Staatskapelle Berlin
FRANZ KONWITSCHNY

Luogo e data di registrazione: Berlin, Deutsche Staatsoper Unter den Linden, riapertura, 4/9/1955

Edizione discografica: Walhall, 4 CD economici

Note tecniche: registrazione di qualità complessivamente buona, con qualche distorsione nell’ouverture e nel secondo atto

Pregi: Pflanzl: è tutto dire

Difetti: probabilmente il peggior cast di tutta la discografia

Giudizio complessivo: images/giudizi/mediocre.png

“Unter den Linden” vuol dire “Sotto i tigli”: è una strada importante di Berlino, creata da Federico Guglielmo I° di Brandeburgo che se ne voleva servire per le sue cavalcate. Sui lati di quest’arteria fiorirono edifici meravigliosi lungo l’arco dei secoli e persino Hitler fece di essa parte di quell’asse che portava all’Olympiastadion.
E non è solo una strada importante da un punto di vista storico: è tuttora uno dei più importanti assi della città.
Ai tempi di questa recita, i tigli di cui parla il nome della via stavano tutti dalla parte comunista di una città divisa, come divisa era la Grande Nazione Tedesca uscita distrutta da una guerra folle, allucinante, mostruosa come coloro che l’avevano generata; col che forse si spiega la strana atmosfera che aleggia su una recita che esce totalmente dagli schemi cui siamo abituati allorquando parliamo di questa bellissima opera.
All’epoca di cui stiamo parlando, il teatro della Deutsche Staatsoper Unter den Linden riapriva i battenti dopo tre anni di chiusura per restauri; e curiosamente – o forse non tanto, chissà – venne scelta l’opera che più d’ogni altra era stata amata dal regime precedente, che ne aveva fatto forse impropriamente prima il simbolo del pangermanesimo e poi della resistenza di fronte a un mondo che stava crollando, in entrambi i casi magnificando la perorazione finale di Sachs sulla Pegnitz, quella cioè in cui i tedeschi vengono invitati a serrarsi intorno alla Sacra Arte Tedesca come ultimo baluardo di fronte agli assalti; e ben l’avevamo visto parlando delle recite a Bayreuth di una decina d’anni prima. Curioso quindi che nella tetragona – e tetra – DDR si allestisse un’opera che solo sino a pochi anni prima era stata simbolo di ben altro, e sia pure un “ben altro” distorto o applicato malamente a un contesto che, nell’idea dell’Autore, rimandava a un sentire ben diverso; e forse quest’incongruenza si riflette anche nel risultato artistico di un’interpretazione che, forse per la prima volta nella storia della discografia, risuona triste, macerata, corrotta e farlocca anche nei momenti in cui cercherebbe di lasciarsi andare a una gioia che probabilmente nessuno provava, né fra gli interpreti né fra il pubblico.
Non c’è nulla, infatti, in questa registrazione di quello che siamo soliti associare all’idea dei Meistersinger.
Non c’è il trionfalismo caro al regime precedente: e non poteva essere altrimenti, se consideriamo il contesto storico e l’occhiuta Stasi che tutto controllava nelle vite di tutti.
Non c’è il bozzettismo, tanto caro alla tradizione esecutiva “internazionale” – o, se si preferisce, extra-Bayreuth – di questo meraviglioso capolavoro: non sarà stata una scelta appropriata con il suo restare alla superficie del dramma, ma almeno permetteva di farsi quattro sane risate. Qui, invece, è tutto tristissimo e molto, molto serio.
Non c’è ovviamente nemmeno nessuna riflessione sul vero significato che associamo oggi ai Meistersinger: il ruolo dell’Artista nella società (non poteva importare di meno a chi comandava in quel momento sulla DDR), tanto meno – e per ovvi motivi – il conflitto fra tradizione e innovazione, tematica quest’ultima questa quanto mai pericolosa in un contesto come quello della Germania Est di quegli anni.
E – va detto – non c’è nemmeno un’idea sul podio: Konwitschny, all’epoca direttore dell’Unter den Linden, appare come un onesto mestierante che batte la solfa con una flemma insopportabile e una musicalità molto precaria. Si limita a accompagnare i cantanti cercando di disturbare il meno possibile e sostenendone appena e quasi distrattamente il canto purtroppo quasi sempre problematico.
E, quanto ai cantanti, non sfuggirà all’appassionato il fatto che gran parte del cast sia costituito da nomi di scarsa risonanza se non perfetti sconosciuti anche a coloro i quali – come chi scrive – ritenevano a torto o a ragione di conoscere quasi tutti i comprimari del teatro wagneriano tedesco dell’epoca. È quindi da supporre che la maggior parte di essi facessero parte della compagnia fissa del teatro, per l’occasione implementata con qualche nome di richiamo, come Pflanzl, Unger o Witte, quest’ultimo peraltro clamorosamente fuori parte.
Ma se fosse vera l’ipotesi che i cantanti arrivano da una compagnia fissa, c’è da rilevare la loro sostanziale estraneità a questo titolo: negli stessi anni a Bayreuth i Meistersinger si facevano in modo molto più idiomatico anche se non sempre con cast ideali.
Qui, invece, non ce n’è una che vada per il verso giusto.

Il 1955 è purtroppo anche l’anno della morte di Herrmann, appena cinquantaduenne e solo due mesi dopo questa recita: dalle fonti non è dato sapere se fosse ammalato di qualcosa, ma un’eventuale malattia potrebbe essere la spiegazione di una prestazione tanto brutta da essere addirittura inconcepibile per un professionista navigato come lui, per lontano che potesse essere questo ruolo dalla sua sensibilità. Voce aperta nel modo sbagliato, totalmente spoggiata, con risate e cachinni neanche fosse il peggior Beckmesser e disastri di emissione soprattutto nel terribile terzo atto, vero banco di prova per qualunque Sachs; nessuna idea interpretativa; nessuna consapevolezza di quello che sta dicendo. Nulla di nulla. E non credo sia un caso se il cantante crolla soprattutto e miseramente proprio nella seconda parte del terzo atto in genere, e nell’apologo finale in particolare, quello in cui Sachs invece dovrebbe invece diventare l’ultimo baluardo: sarà che nella parte DDR di Berlino non c’era nulla da difendere, e il portato storico forse influisce su una prestazione così triste e brutta.
Non che Herrmann fosse stato un fenomeno nella parte precedente della sua carriera: nella Germania a cavallo di quegli anni c’era di molto meglio, anche fra gli onesti professionisti e senza toccare i mostri sacri, questi ultimi attivi prevalentemente, come detto, in terra di Franconia. In Italia si era fatto conoscere nel 1950 quando, a Milano e sotto la bacchetta di Furtwängler aveva indossati i panni del Wanderer nel Siegfried: non era stato memorabile, ma aveva fatto il suo in modo onesto. Ancora oggi, a risentire i suoi dischi degli Anni Quaranta, si percepisce un interprete dotato di buona e robusta voce, anche se singolarmente privo di fantasia.
Siamo d’accordo: non tutti possono essere Schoeffler. Eppure la discografia non conosceva ancora un interprete così sgraziato, che cerca di sopperire alle mancanze in termini di fiato e di solfeggio con un tono artefatto, da finto-vecchio-saggio che però non potrebbe suonare più falso di così. E poi la difficoltà costante nel canto di conversazione, nella declamazione, nell’eloquio, in tutto. Il monologo finale, dicevo prima, è disastroso, marcato da urlacci sgraziati e concluso in chiarissima apnea; ma tutto il resto non è da meno, se si considera che nel secondo atto Herrmann riesce a far fare una figura da gigante a Pflanzl, un esperto del ruolo di Beckmesser ma decisamente non il fuoriclasse che ti sbanca una recita dei Meistersinger.
Ruth Keplinger, allieva di Maria Ivogün, aveva iniziato come pianista all’età di 13 anni. Era un’artista fissa alla Staatsoper; Eva era probabilmente il suo ruolo feticcio. Come interprete è comunque di una modestia imbarazzante: siamo dalle parti dei bassifondi del ruolo. Dozzinale, affettata, tono da ghita di paese: nessuno stupore, nessuna ambiguità di fronte a quel dilemma Sachs-Walther che altre interpreti facevano già invece percepire molto bene in altri contesti.
Ma peggio, molto peggio di lei è Witte, che fa un pessimo Walther. Anche lui è messo letteralmente in croce da una partitura che sembra apparentemente facile (quanto meno rispetto a altri ruoli tenorili wagneriani), ma che richiede uno sforzo non banale soprattutto nel terzo atto; ad ogni modo, tanto per togliere ogni dubbio, Witte crolla già in malo modo nel primo. Inspiegabile la “promozione” di colui che era stato uno dei migliori David (e, parallelamente, un grandissimo Mime) nel periodo a cavallo della guerra. Qui non ce la fa proprio, e sarebbe il meno; ma oltre a tutto si inventa un tono affettatissimo, pieno di birignao e portamenti, che non ha nulla a che vedere con il fraseggio sulfureo che esibiva negli altri ruoli di carattere. Terribile il Preislied, ma atroce in genere tutto il canto di conversazione che manca di teatralità, di affetto e di quadratura musicale. Una prova veramente pessima.
Theo Adam come Pogner è un pesce fuor d’acqua e fa di tutto per dimostrarlo, mettendo in campo un eloquio sgraziatissimo che sembrerebbe dar ragione ai suoi detrattori.
Unger inizia maluccio, ma si riscatta strada facendo; la sua Magdalene – Anneliese Müller – fa invece di tutto per non farsi notare e ci riesce benissimo.
Pflanzl, come dicevamo, non è male: il suo Beckmesser è molto old style, ma in questo contesto sembra rivelare l’unica scintilla di quella verità di eloquio che pare mancare a tutto il resto del cast.
Singolarmente sgraziato tutto il corteo dei Maestri e sgraziatissimo il coro, talvolta fuori tempo soprattutto nella baruffa del secondo atto (ma anche Herrmann non scherza in tutta la sequenza di “Jerum! Jerum!”).
Inascoltabile persino il Guardiano Notturno!
Insomma, un vero disastro, probabilmente correlato al contesto in cui la rappresentazione nasce.
Un’edizione dimenticabilissima, riservata solo ai collezionisti estremi
Pietro Bagnoli

Categoria: Dischi

 

Chi siamo

Questo sito si propone l'ambizioso e difficile compito di catalogare le registrazioni operistiche ufficiali integrali disponibili sul mercato, di studio o dal vivo, cercando di analizzarle e di fornirne un giudizio critico utile ad una comprensione non sempre agevole.