Giovedì, 17 Aprile 2025

Contes d'Hoffmann

Aggiunto il 19 Febbraio, 2012


JACQUES OFFENBACH
LES CONTES D’HOFFMANN

• Hoffmann FRANCISCO ARAIZA
• Lindorf SAMUEL RAMEY
Coppelius
Docteur Miracle
Dapertutto
• Spalanzani RICCARDO CASSINELLI
• Crespel BORIS MARTINOVITCH
• Schlemil JEAN-LUC CHAIGNAUD
• Andrès GEORGES GAUTIER
Cochenille
Frantz
Pitichinaccio
• Luther ROLF TOMASZEWSKI
• Nathanaël PETER MENZEL
• Hermann JÜRGHEN HARTFIEL
• Olympia EVA LIND
• Antonia JESSYE NORMAN
• Giulietta CHERYL STUDER
• La Muse ANNE SOFIE VON OTTER
Nicklausse
• La voix de la mère d’Antonia FELICITY PALMER


Rundfunkchor Leipzig
Chorus Master: Jörg-Peter Weigle

Staatskapelle Dresden
JEFFREY TATE

Luogo e data di registrazione: Dresda, Studio Lucaskirche, 6-7/1987, 7/1988 e 6/1989

Edizione discografica: Decca (precedentemente Philips), 3 CD economici

Note tecniche: suono di notevole qualità

Pregi: prima registrazione della versione di Michael Kaye. Prova notevolissima della von Otter e complessivamente molto buona di Araiza, Ramey e Studer. Bella direzione di Tate, anche se un po’ troppo lento

Difetti: la Norman non si può sentire. Lind corretta ma modesta

Giudizio complessivo: images/giudizi/discreto-buono.png

Ecco una registrazione importante.
In attesa di quella che Nagano realizzerà più avanti e con ben altre intenzioni (e ben altri cantanti, diciamocelo), Tate allestisce per la Philips questa incisione che si protrae per tre anni per permettere l’inserimento delle modifiche che il musicologo Michael Kaye stava facendo sulla materia dei Contes, basandosi sul ritrovamento dei manoscritti di Offenbach.
Oggi sappiamo che non si era ancora arrivati alla versione finale: ci sarebbe stato il lavoro di Jean-Christophe Keck che, peraltro, non ha ancora trovato la strada di un’incisione discografica. Ma questo comunque era un passo avanti non indifferente, sia pure nell’imperfezione di un’incisione che, forse anche per la distribuzione in tre anni, si presenta più che altro come un laboratorio che manca di una vera unità.
Dunque, un’edizione discografica di quelle proprio da “studio”, che è stata un po’ sorpassata solo perché nel 1995 Nagano è uscito con un’incisione mitica e perché poi Keck ha tirato fuori la versione probabilmente definitiva, ma comunque un’edizione alla resa dei conti utile e appagante.
Utile perché permette per la prima volta di ascoltare musica non ancora nota o posizionata diversamente, con finalmente l’impiego di un soprano vero come Juliette e la manifestazione per di più dell’esigenza di una cantante esperta di colorature e agilità non diversamente dall’interprete di Olympia.
Appagante perché, almeno entro certi limiti, esiste un percepibile sforzo di assemblare un cast credibile. Certo, l’omaggio allo star system è, come al solito, un atto dovuto: Araiza allora era uno dei tenori che andavano per la maggiore, e allora eccolo scritturato anche se questo non sembra essere il suo ambito di elezione (ma, alla resa dei conti, se la cava più che bene); la Studer all’epoca entrava in qualunque registrazione discografica, e – come Juliette – alle prese con una versione de “L’amour lui dit: la belle” discretamente più semplice di quella che affronterà Sumi Jo con Nagano cinque anni dopo se la cava mica male; la Norman è un altro omaggio alla “casta discografica” dell’epoca, ma le danno Antonia ed è un errore clamoroso, marchiano; Ramey, invece, è una scelta assolutamente ottimale.
Ma quali sono le innovazioni di Kaye con cui un ascoltatore poteva confrontarsi per la prima volta ascoltando questi dischi?
Non poche.
Il ripristino dei dialoghi, molto spesso con accompagnamento musicale (mélodrame).
Cambiano i brani della Musa; e cambiano anche i brani di Nicklausse: non più il vecchio “Voyez-là, sous son éventail”, ormai abbandonato, ma “Une poupée aux yeux d’émail” e “Vois sous l’archet frémissant” (aria splendida dell’atto di Antonia) con una orchestrazione diversa; maggior presenza complessiva e chiusura dell’opera di nuovo come Musa nella splendida Apothéose.
Nell’atto di Juliette cambia tutto. Juliette non è più mezzosoprano, diventa soprano di coloratura, come Olympia e – volendo – come potrebbe anche essere Antonia, se si decidesse di affidare tutte le donne a un’unica protagonista (da notare che qui manca Stella; tornerà con Nagano). Juliette ha infatti un’aria di bravura, di cui abbiamo tre possibili versioni; quella più difficile è ascoltabile nell’incisione di Nagano con Sumi Jo, qui ce n’è una di livello intermedio.
Inoltre, sempre nell’atto di Juliette: la Barcarole non è all’introduzione dell’atto, ma poco dopo; viene ripristinato un duetto Juliette/Hoffmann; sono eliminati il Settimino, aprocrifo, e “Scintille, diamant” (aria di Dapertutto, anch’essa apocrifa) che viene rimpiazzata dall’originale “Tourne, tourne miroir” creata sulla musica di “J’ai des yeux” di Coppelius.
Ci sono ovviamente un sacco di altri dettagli, ma questa non è la sede per una revisione critico-filologica della storia dei “Contes d’Hoffmann”; ciò che conta è che, per la prima volta, l’appassionato conosce nel suo insieme grazie a questi dischi un’opera nuova, anche se non sempre necessariamente più bella: per esempio, personalmente ritengo “Scintille, diamant” aria molto più bella e orecchiabile rispetto all’originale “Tourne tourne miroir” (che già compariva nell’edizione Oeser incisa da Cambreling per la Emi nel 1988).
Peraltro, i pregi indescrivibili del lavoro filologico in quest’opera meravigliosa sono: la restituzione di una statura più completa al personaggio di Nicklausse; la redifinizione dell’atto di Juliette che, com’era prima, aveva ben poco senso; la giustificazione della potenziale attribuzione dei ruoli femminili a un’unica interprete; la riscoperta di musica di una bellezza strepitosa.
Manca ancora, qui, invece, il personaggio di Stella (ricomparirà, una volta di più, con Nagano): evanescente e poco definita, questa personificazione del femminino attraversa la storia esecutiva dei “Contes” lasciando dietro di sé un’aura di mistero…

L’esecuzione di questa materia così complessa – e, all’epoca, in gran parte nuova – è complessivamente ben più che soddisfacente.
Il protagonista è Francisco Araiza, sulla carta non una grande scelta. Nato nel 1950, aveva esordito in ruoli da comprimario nel 1970. La celebrità per lui era arrivata agli inizi degli Anni Ottanta, quando Karajan l’aveva voluto (come Tamino) per la registrazione DGG dello Zauberflöte. E poi erano iniziati i ruoli rossiniani brillanti cui lo spingevano la vocalità estesa, gli acuti facili e sfolgoranti. Per contro: la voce nell’emissione sembrava “inscatolata”; il fraseggio era terragno e generico; le modulazioni erano scarse; l’interpretazione era modesta, generica e veramente primordiale. Che a un tenore del genere venisse affidato uno dei ruoli più magici, misteriosi, pazzi, esuberanti, tragici e cialtroni della storia dell’opera sembrava veramente un azzardo: eppure l’operazione riesce! Credo di non aver mai sentito Araiza cantare così bene: si sente che ci crede veramente. Certo, la voce non è un prodigio di modulazioni e dinamiche; quanto a questo specifico aspetto Alagna con Nagano sarà infinitamente più vario e idiomatico. Ma funziona.
I momenti solistici sono resi con partecipazione, affetto e un guizzo sulfureo di autoironia; né mancano assottigliamenti, smorzature e mezzevoci. Gli acuti poi, vero marchio di fabbrica di Araiza, sono sfolgoranti e, in qualche caso (come nella conclusione e nella ripresa della canzone di Kleinzach), persino oversize. Insomma, una gran bella prova che, tra l’altro, si colloca sui piani alti della discografia di questo ruolo che ha probabilmente il suo vertice nel già citato Alagna.
Al suo fianco, il miglior Nicklausse della discografia: Anne Sofie von Otter fa di questo ruolo un piccolo capolavoro. Bello, divertente e divertito, il tono svagato eppure sulfureo dell’atto di Olympia in cui le dinamiche contrastanti trovano sempre il giusto equilibrio. Molto più sereno e riflessivo il modo in cui viene affrontato la palpitante “Vois sous l’archet frémissant”, spettacolare nella resa vocale cristallina. L’Apothéose finale, nei panni della Musa, è semplicemente commovente: insomma, una prova maiuscola di questa grandissima cantante.
Sam Ramey è bravissimo: non capisco le critiche che capita ancora di leggere alla sua partecipazione a questo progetto. Manca di idiomaticità, è vero, ma la sua proverbiale professionalità lo rende ideale anche in questo repertorio. La sua migliore personificazione diabolica è il grigio burocrate Lindorf, ma anche il suo Docteur Miracle è notevole per crudeltà sommessa e sussurrata. Meno interessanti Coppelius e Dapertutto, ma siamo comunque su livelli molto alti, quelli cioè di Bacquier e, oggi, di Laurent Naouri, il più bravo fra quelli contemporanei.
Fra le donne, la migliore è senz’altro la Studer: se avessero pensato a un’unica interprete, lei poteva portarsele a casa tutt’e tre con solo qualche problema per la bambola, per la cui aria esistono comunque le varianti basse (peraltro scelte dall’interprete di quest’incisione). Come Juliette, Kaye le mette a disposizione un plot molto più ricco e variegato rispetto alla tradizione Choudens. L’aria è molto ben eseguita, ma è – come detto – tecnicamente un po’ più accessibile rispetto alla versione scelta dalla Jo con Nagano. All’epoca molti appassionati la trattavano con la puzza sotto al naso, ma era una gran brava cantante, la Studer; e all’occorrenza sapeva fare anche le cose per le quali non sembrava nata. E in più era nel giro discografico che contava; una combinazione vincente.
Olympia è Eva Lind: è la più giovane di tutto il cast, ma è non solo la meno caratterizzata ma anche una delle Olympie più sciape di tutta la discografia. Non fa nulla di indecoroso, anche perché sceglie le varianti basse; ma che noia. È un soprano coloratura di passabile virtuosismo e di sostanziale correttezza vocale: fa il suo compitino senza sporcarsi le mani. Per avere un’idea attendibile di cosa sia in realtà questo ruolo, una volta di più bisogna aspettare Nagano che metterà in sella Natalie Dessay.
La terza e ultima (mancando Stella) donna è un colossale errore di distribuzione, probabilmente anch’esso inevitabile tenuto conto dello star system del periodo: all’epoca della registrazione Jessye Norman aveva 43-45 anni ed era nel pieno della sua maturità artistica; una maturità che, ovviamente, non poteva annoverare la parte di una fanciulla ammalata divisa fra il fantasma della madre, la musica e un fidanzato che non capisce. Il suo “Elle a fui, la tourterelle”, con birignao innestato e pronuncia da Show Boat, è uno degli orrori più tristemente famosi della storia del disco d’opera. E che lei si sforzi di alleggerire un’emissione ormai quasi da mezzosoprano non fa altro che peggiorare le cose.
Personalmente non mi dispiacciono i comprimari; certo, la pronuncia non è sempre perfetta, ma c’è di peggio. Fra di essi scelgo decisamente Georges Gautier che fa i quattro ruoli tenorili; non sarà Bourvil, ma il suo lo fa più che onestamente.

I colori orchestrali sono splendidi – d’altra parte, trattasi della Staatskapelle Dresden – e il tutto è diretto molto bene da Tate, che accantona gli accenti sulfurei preferendo concentrarsi sui preziosismi orchestrali, sulla gioia della narrazione.

Categoria: Dischi

 

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