Lucia di Lammermoor
Aggiunto il 09 Ottobre, 2011
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Giudizio severo, quello che Operadisc attribuisce a questa registrazione di rara inutilità e che sembra rinverdire i fasti (si fa per dire) degli Anni Settanta, quando si registrava tutto ciò che si poteva, molte volte senza criterio, talvolta solo per incensare un divo o una diva e senza pensare invece a cosa sarebbe stato meglio fargli (farle) fare.
Qui, ovviamente, i divi di turno sono due: una ha già detto molte pagine fa tutto il meglio che poteva dire su questo ruolo, l’altro – il direttore – non ha nulla a che fare con un repertorio che non gli appartiene.
Ci sarebbe poi un tenore che è un progetto di divo, e tale è destinato a restare per lo meno in questo repertorio che, per il momento, lo sovrasta ampiamente. E poi c’è tutto il resto, che è un vero disastro.
La somma delle parti porterebbe complessivamente a un risultato potabile, appena passabile per l’ascoltatore meno smaliziato che potrebbe farsi affascinare dai miseri cascami delle magie che una volta la protagonista riusciva a mettere in campo, non diversamente da Joe Gillis che si faceva irretire da Norma Desmond in Sunset Boulevard; evidentemente è un gioco che non può durare troppo a lungo
Ma andiamo per ordine.
Natalie Dessay ha già affrontato e da molti anni questo personaggio in tutte le salse, compresa la versione francese che ha anche registrato. La sua impostazione potrà piacere, oppure la si potrà odiare furiosamente; quello che è certo, è che non lascia indifferenti. E non è solo questione del famoso urlaccio prima di “Spargi di qualche pianto”: quella della Dessay è una vocalizzazione estrema, violenta, esasperata che solo formalmente appartiene all’universo dei soprani leggeri-coloratura. Il modo di mordere le consonanti, i colori con cui dipinge ogni frase e, anzi, ogni singolo fonema fanno della Lucia della Dessay un’epigona di un’altra razza di cantanti, che è quella del drammatico d’agilità, categoria della quale non ha il peso ma tutto il resto, a cominciare dalla volontà.
Certo, la caratura vocale è quello che è; solo che una volta ci si faceva meno caso perché la vocalizzazione era talmente spettacolare e esasperata da rappresentare un unicum; forse l’unica che ci andava vicina era la Sills, ma la Dessay nonostante tutto aveva una spavalderia ancora maggiore: ciò che colpiva era veramente la sensazione che potesse andare oltre ogni limite imposto non solo dal buon senso, ma persino dalla Natura.
E quest’impostazione era esattamente quello che ci si doveva aspettare da un ruolo come questo che aveva al suo centro gravitazionale una scena di pazzia lunghissima che la protagonista mette in campo dopo essersi intrisa del sangue dello sposo scannato durante la prima notte di nozze. Ci voleva proprio il genio di Donizetti, col suo naturale istinto per la doppiezza e l’ambiguità, per dare un senso musicale a una vicenda del genere; e ci voleva finalmente una Dessay per dare un senso che non fosse l’estenuazione liberty, o il mesto languore, o il vuoto e ipnotico cinguettio alle giravolte sul pentagramma del personaggio, indipendentemente dalla cadenza scelta e dallo strumento che accompagna (in questo caso, come ormai quasi obbligatorio, la glassharmonika), bensì il racconto di una discesa nella follia vissuta come risposta all’orrore quotidiano.
Quest’impostazione, che ha fatto di quella della Dessay un’interpretazione paradigmatica e inquietante, sarebbe ancora oggi più che mai di un’attualità sconvolgente, a maggior ragione considerando che non c’è in giro nessun’altra in grado di portare avanti la stessa idea esecutiva, visto che le altre sono tornate ad arroccarsi dietro alla pulizia esecutiva delle loro note, lasciando decisamente perdere il lavoro sporco che faceva la lionese.
Come avrete notato uso l’imperfetto perché di tutto questo background della registrazione in oggetto non appare più quasi nulla: Natalie Dessay ormai non ha più la voce che le permetta queste esagerazioni folli e psicotiche. A questo punto della sua vita, dell’interpretazione di questo personaggio che avrebbe dovuto abbandonare ormai da un po’ di tempo, rimane solo il timbro un po’ acidulo di una voce ormai inaridita e povera di armonici che affronta con studiata prudenza persino il già citato urlo di disperazione ormai ridotto quasi a vocalizzo; il che accontenterà i puristi che non si sono mai riconosciuti in quest’interpolazione.
Per quello che riguarda i punti topici della prestazione, siamo dalle parti di un’onesta normalità. La cavatina è cantata con molto mestiere e con qualche suono bruttarello che non si vorrebbe da una cantante così caratterizzata e legata a questo ruolo. Poco interessante e movimentato anche il successivo duetto con Edgardo, ma in questo c’entra anche la prestazione problematica del tenore, inaspettatamente ben poco a suo agio con un ruolo in cui invece ci si aspettava molto da lui. Molto meglio il duetto con Enrico, anche in questo caso nonostante il baritono completamente fuori stile. La pazzia, nonostante la glassharmonika, è – se ci si passa l’ossimoro – molto ordinaria, e non perché ci si aspetti che la Dessay vada sempre sopra le righe, ma perché lei ci ha abituati molto bene mentre adesso gioca evidentemente di rimessa, a cominciare dalla cadenza che è la solita vecchia cadenza Melba che abbiamo sentito in tutte le salse e che non avremmo desiderato venisse riproposta in una nuova registrazione.
Certo, se guardiamo il resto della locandina, la Dessay si staglia ancora come il faro di Capo Horn sulle tempeste: se non altro, con molto mestiere e con qualche astuzia, il personaggio lo porta a casa.
Beczala, invece, per esempio, è un disastro vero e assolutamente non annunciato.
Personalmente l’ho ammirato moltissimo in altre performance cui ho assistito: la voce è bella, ricca e emessa secondo criteri molto classici; l’interprete forse non è variegatissimo, ma è comunque interessante. Qui, alle prese con un ruolo Duprez, dimostra tutti i limiti di un’emissione che non appartiene alle proprie caratteristiche.
La cartina da tornasole è, paradossalmente, il momento che si presterebbe maggiormente alle sue caratteristiche, e cioè il finale: “Tombe degli avi miei” ha un’intonazione periclitante e acuti ghermiti di forza, “Tu che a Dio” è disastroso: col che, il personaggio naufraga. Peccato perché, almeno inizialmente, nelle prime battute con Lucia fa presagire intenzioni interessanti che poi verranno clamorosamente disattese nel prosieguo. Il duetto della torre è invece calamitoso non solo per demeriti suoi, ma anche per la presenza di un baritono che non c’entra nulla con questo tipo di repertorio.
Proprio una brutta prova; e, come dicevo, non annunciata. Beczala è un cantante fra i più intelligenti dell’attuale generazione: personalmente non mi aspettavo una prova così brutta, anche se ho sempre rifuggito l’idea del cantante totipotente solo perché in possesso di una bella voce o di una supposta ortodossia di emissione. Non è vero: nessun cantante è buono per tutti gli usi. Lo attendiamo a prove più adeguate alla sua caratura.
Scendendo nella locandina e nella classifica troviamo tale Vladislav Sulimsky che riveste indegnamente i panni di Enrico Ashton. A dire il vero l’inizio non è tremendo: la sua cavatina rispetta i segni di espressione e le acciaccature previste in partitura, e non è che lo facciano proprio tutti. Ma da lì in avanti è un disastro: Sulimsky è totalmente fuori stile e non ne imbrocca mezza, né nel duetto con Lucia né in quello con Edgardo.
Ma il peggio deve ancora venire.
Tremendo, infatti, il Raimondo di tale Ilya Bannik, pessimo esponente di una categoria vocale di cui la zona geografica ove è stata fatta la registrazione è sempre stata prodiga.
E, se possibile, peggio ancora l’Arturo di Dmitri Voropaev, credo il cantante più stonato che io abbia mai sentito in vita mia.
Dirige il tutto Valery Gergiev, uno che sta a questo repertorio come il sottoscritto allo sport: qualcosa da contemplare seduto in poltrona. Direzione inutile, antiquata, anacronistica specie dopo tutto quello che è stato detto e scritto negli ultimi anni: greve, pesante, romantica di riporto. Non è brutta, intendiamoci, e poi ha sempre un buon senso del ritmo e un ottimo accompagnamento al canto; ma ributta la storia esecutiva di questo capolavoro indietro anni luce. Non se ne sentiva il bisogno