Venerdì, 22 Novembre 2024

Fidelio

Aggiunto il 10 Agosto, 2011



Ludwig van Beethoven
FIDELIO

Personaggi e interpreti:
• Leonore NINA STEMME
• Florestan JONAS KAUFMANN
• Rocco CHRISTOF FISCHESSER
• Don Pizarro FALK STRUCKMANN
• Don Fernando PETER MATTEI
• Marzelline RACHEL HARNISCH
• Jaquino CHRISTOPH STREHL
• Erster Gefangener JUAN SEBASTIAN ACOSTA
• Zweiter Gefangener LEVENTE PALL


Arnold Schoenberg Chor
(Chorus Master: Erwin Ortner)

Mahler Chamber Orchestra/Lucerne Festival Orchestra
CLAUDIO ABBADO

Data e luogo di registrazione: Festival di Lucerna, 12 e 15 Agosto 2010
Registrazione dal vivo

Edizione discografica: Decca, 2 CD

Note tecniche: registrazione di eccezionale qualità
Pro: Abbado
Contro: la scelta dei cantanti risponde ancora a vecchie logiche
Valutazione complessiva: images/giudizi/ottimo.png

Video:

È ascoltando un’opera-laboratorio come Fidelio che ci rendiamo conto del difficile inquadramento storico di un apax come Beethoven.
A seconda delle epoche e delle scuole, Fidelio è stata affrontata come “coda” illuminista, canone neoclassico o archetipo romantico. Tutte queste impostazioni si sono rivelate ben inquadrate nell’epoca in cui sono maturate e hanno avuto credibilità e celebrità variabile a seconda degli interpreti che vi si sono cimentati; ma nessuna di esse è stata tanto famosa come quella romantica, la cui fortuna è stata legata ai grandi interpreti tedeschi che la eseguivano come naturale deriva dei ruoli wagneriani di cui, per lo più, erano specialisti.
Cosa abbia portato a un mistake così clamoroso, francamente non saprei. Penso che sia dovuto soprattutto ai direttori che spesso avevano il Beethoven sinfonico in repertorio e che, quindi, erano portati a fare un minestrone di tutto questo materiale: basti pensare a Furtwaengler, insigne interprete del grande ciclo sinfonico di Beethoven e del Ring, che quindi affronta Fidelio con la Flagstad la quale, giustamente terrorizzata dal si bemolli di “Abscheulicher!”, affronta la parte con l’espressività di un tubero e fallisce clamorosamente.
Nonostante la Storia abbia dimostrato quanto sia fallimentare affidare queste parti a cantanti che siano privi di acuti, che non abbiamo emissione agile e tinta smaltata, se scorriamo la discografia recente di Fidelio vediamo non solo una pletora di cantanti wagneriani (fra cui il povero Hofmann, che non c’entrava nulla – ma proprio nulla - con una parte come Florestan) ma addirittura dei mezzosoprani nei panni di Leonore! Alcune di esse, come la Mödl, sopperiscono con la classe e la zampata del grande animale di palcoscenico; altre, come la Denoke (che ha registrato recentemente Fidelio con Rattle), fraintendono completamente il ruolo scambiando Leonore come la sorella più virtuosa di Kundry e ritenendo, erroneamente, che il declamato di area bayreuthiana si possa prestare tranquillamente anche a questa esigenza.
Niente di più sbagliato: il soprano – e va sottolineato che si tratta di un soprano lirico vero, non di un falcon o di un mezzosoprano riadattato – che canta “Komm, hoffnung” è parente stretta della Contessa delle “Nozze”, e quando grida in faccia al suo persecutore “Tot erst sein weib!” è la sorella di Elettra dell’Idomeneo.
Queste considerazioni preliminari sono necessarie alla comprensione del problema che sta alla base soprattutto di questa registrazione di “Fidelio”, perché Abbado è probabilmente il primo che si pone il problema di guardare a quest’opera come a una diretta emanazione dei grandi capolavori mozartiani; e, se non il primo in assoluto (in parte lo avevano già fatto sia Gardiner che Harnoncour), è comunque il primo a farlo in modo così strutturato. Lo fa con un’orchestra meravigliosa, che forse non ha mai suonato così bene, ma soprattutto facendo sentire un’idiomaticità, una tale appropriatezza di linguaggio, che è impossibile non rimanere coinvolti. Il problema è che appena i protagonisti vocali aprono bocca, l’incanto finisce o, quanto meno, si ridimensiona decisamente: si ritorna di nuovo in piani Anni Cinquanta. Anzi, peggio ancora: negli Anni Ottanta, quelli in cui avremmo avuto i mezzi per capire ma non abbiamo avuto la voglia di darci da fare perché era il momento dei Dominghi e dei Karajan che dirigevano ancora la Messa in si minore come se fosse il primo dei capolavori romantici.
Intendiamoci: qui ci sono pur sempre la Stemme e Kaufmann. E se il secondo, nonostante la classe immensa che lo contraddistingue, continua a rimanere un grossolano errore di distribuzione, la prima si sforza se non altro di snellire l’emissione, di alleggerire l’espressione, di dare l’illusione di trovarsi di fronte a una mozartiana vera. È un’illusione, certo, ma è pur sempre l’inganno di classe perpetrato dalla cantante di intelligenza superiore che capisce il contesto in cui si trova e cerca di affondare la zampata del fuoriclasse. Ma è pur sempre un inganno, ed è un peccato perché quest’edizione, con un cast diverso, avrebbe avuto tutti i presupposti per uscire dai soliti cliché rappresentativi e porsi in vetta alla classifica.
Sin dall’ouverture, affrontata con leggerezza e splendida percussione dall’orchestra di Abbado (cosa sono quei timpani!...), comprendiamo la vera matrice di quello che, forse per la prima volta, ci appare non come il prototipo dei grandi capolavori ottocenteschi, ma come l’ultimo grande fremito del Settecento che finisce. Il Settecento rivoluzionario, quello che era passato attraverso il Terrore prima e Napoleone poi, e che si dovrà confrontare con la squallida restaurazione del Congresso di Vienna, con Metternich e Talleyrand. Da quel momento in avanti inizierà un’altra temperie culturale, ma passeranno anni e anni prima che abbiano nuovamente un senso parole come Libertà, Eguaglianza o Fratellanza, per lo meno come ce l’avevano avuto – e per una breve stagione – nel Secolo che era appena finito. In tal senso vedrei le parole apparentemente incongruenti pronunciate da Marzelline (“Da quando Fidelio è arrivato, il mondo è come trasformato. I muri sembrano più spaziosi, il cielo più alto. Io respiro l’aria della Libertà”): più che un portato delle note simpatie politiche del direttore, è un omaggio tardivo al secolo che stava finendo e che stava chiudendo la partita con il personaggio che, più ingombrante di ogni altro, aveva incarnato le speranze di un cambiamento; quel personaggio da cui Beethoven era stato prima affascinato, e poi profondamente deluso.
Ne deriva quindi, e come logica conseguenza, la prospettiva affascinante di un’orchestra che guarda maggiormente a Mozart, e non solo quello coturnato delle grandi opere serie, ma anche quello dei capolavori scritti con Da Ponte, quello cioè su cui vengono costruiti i personaggi di Jaquino e Marzelline che, infatti, ricevono da Abbado un rilievo molto maggiore che in altre incisioni celebri. Non conosco bene la Harnisch – peraltro molto brava – ma Strehl, anche lui bravissimo e di emissione ricca e luminosa, è il Tamino del Flauto Magico inciso da Abbado qualche anno fa; al di là della “giustezza” di emissione di un cantante nato per il repertorio mozartiano, questa non può essere una coincidenza. Ascoltando i buffi couplets di Marzelline e Jaquino, si rimane davvero ammirati dallo spirito che li pervade (e che nessun direttore ci aveva fatto sentire così), che risuona davvero delle baruffe fra Figaro e Susanna, e che dà loro quel senso che mancava clamorosamente tutte le volte che l’opera era stata vista come un archetipo romantico o come una propaggine neoclassica. Parrebbe quasi scontato affermarlo ma, nonostante l’ammirazione reciproca, Beethoven non è Cherubini e i presupposti che stanno dietro a Fidelio non sono quelli di Medée o Lodoiska.
A fronte di ciò, bisogna riflettere seriamente sulle scelte dei tre protagonisti: isso, issa e ‘o malamente.
Kaufmann è un errore. Noi di Operadisc l’abbiamo già detto ben prima che comparisse questa registrazione che Kaufmann non può essere considerato un tenore buono per tutti gli usi. Innanzitutto è un declamatore: questo gli preclude una parte come Florestan che invece richiede un vocalista dotato di dizione percussiva e martellante. È questa la ragione vera per cui per anni i direttori “esperti” di repertorio sinfonico e di Wagner hanno trasferito i vari interpreti di Lohengrin (e andava anche bene), o di Siegmund e Siegfried (e qui le cose andavano talvolta maluccio) in una parte breve ma insidiosa e cattiva come questa. Perché certo: tutto Florestan dura come la scena della forgiatura della spada – o giù di lì – ma presenta tanti di quei trabocchetti vocalistici che è impossibile che un declamatore ci si trovi a suo agio. Sin dall’inizio della sua aria, c’è una terribile messa di voce che Kaufmann inizia con un suono assai simile a un miagolio ma che poi, per il vero, rinforza davvero molto bene. Il resto dell’aria si trascina in modo difficile per le caratteristiche di Kaufmann; il quale, è vero, riesce a trovare un tono allucinato che va benissimo per rendere la disperazione del prigioniero, ma che è lontano le mille miglia dalle caratteristiche vocali di un personaggio che trae la propria linfa vitale dai grandi ruoli seri mozartiani. Dovessimo scegliere oggi un possibile interprete attendibile per questo ruolo, adeguatamente vocalista e dotato di corretta scansione per i grandi ruoli seri, ci dovremmo rivolgere a Croft oppure, nonostante gli anni, a Gregory Kunde. Poi si capisce: non si è Kaufmann per nulla, per cui alla fine il tenore tedesco riesce a convincere, ma sfruttando gli stessi artifici che già aveva utilizzato a suo tempo Vickers. Però è un inganno, e Vickers riusciva a essere più convincente solo perché si trovava in un contesto più accomodante per una vocalità come la sua, mentre Kaufmann è più facilmente smascherabile grazie alla peculiarità del milieu musicale.
Anche la Stemme è un errore, seppure lievemente meno marchiano di quello di Kaufmann. Come declamatrice è meno esasperata del collega e il suo mezzo presenta modulazioni più interessanti che le permettono alleggerimenti di notevole bellezza, gli stessi che amiamo anche nella sua Isolde. Ma siamo sempre lì: nonostante gli sforzi di sfumare il canto, è pur sempre l’ennesima Isolde che si confronta con un ruolo che richiederebbe un’Elettra (dell’Idomeneo, ovviamente). I suoi interventi nel Quartetto (avviato benissimo dalla Harnisch, sia detto per inciso: non sarà la Jurinac o la Schwarzkopf, ma sa decisamente il fatto suo) sono piuttosto pesanti e fanno presagire il peggio, mentre arrivati all’Abscheulicher! affiorano le ragioni della cantante di rango che riesce a tirar fuori il meglio anche dalle situazioni non favorevoli, come peraltro la Stemme ha già dimostrato di saper fare anche in altri contesti (come la Brunnhilde scaligera). Non è la sua la voce di Leonore, d’accordo, ma non era nemmeno quella di Brunnhilde (che qualcuno le ha attribuito pensando che la regina irlandese e la figlia di Wotan siano due ribelli della stessa pasta, e dimostrando così di non capire nulla della storia del canto): è comunque la sua la voce di una cantante di classe e rango superiore e lo dimostra compitando un personaggio, se non adeguato al contesto, comunque storicamente credibile. Oggi come oggi dovremmo probabilmente rivolgerci a una cantante con le caratteristiche di Alexandrina Pendantchanska.
Il terzo grossolano mistake è affidare Pizarro al solito Wotan; ed è già un lusso, considerando che avrebbero potuto rivolgersi a un Alberich. Falk Struckmann è un altro tipico esempio di declamatore wagneriano, quindi un controsenso per un ruolo che richiederebbe invece un baritono mozartiano: quindi, per stare al “mercato” attuale (peraltro particolarmente prodigo di tali voci), un Weisser, un Maltman o un Mattei che, invece, si copre di gloria nelle poche frasi Don Fernando.
L’aspetto curioso è considerare come, nonostante questi errori di distribuzione, Abbado riesca a costruire una registrazione talmente bella da indurci a riflettere su che grande direttore sia nonostante i problemi vocali che, da sempre, inficiano la modernità delle sue letture: non è la prima volta, infatti, che una registrazione di Abbado vive su questa dicotomia fra la modernità del discorso orchestrale e la piatta convenzione del canto. Le ultime registrazioni ci avevano delusi anche sul fronte orchestrale; questa ci ha convinti di riavere fra di noi il nostro direttore più geniale.
Poco interessante ma complessivamente inoffensivo Fischesser, che fa un Rocco di tradizione senza infamia e senza lode; mentre invece straordinario per simbiosi con le intenzioni (geniali) del direttore il coro, il grandioso Arnold Schoenberg, probabilmente il migliore al mondo, dotato di un eclettismo senza paragoni.
In conclusione, una quasi grande registrazione, che ci restituisce un Abbado ai suoi massimi storici, penalizzato – oggi come ieri – da un cast vocale non all’altezza del milieu culturale evocato

Categoria: Dischi

 

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