Rigoletto
Aggiunto il 14 Agosto, 2010
Questione di punti di vista. Francamente diffido di chi, con atteggiamento spavaldo da "intenditore", afferma con una certa sufficienza mista a soddisfazione: "ah non ci sono dubbi, l’edizione di riferimento è questa". Perchè, badate bene, per me il problema non è tanto il suggerimento, che può essere comunque utile, quanto il riferimento. Riferimento a cosa? alle note scritte? alla tradizione? al proprio gusto? alla finezza dell’esecuzione? alla adesione psicologica degli interpreti ai personaggi? La valutazione quindi è più soggettiva di quel che si può immaginare, dato che nella scelta di una edizione, specie se parliamo di un titolo così celebre qual’è Rigoletto, siamo spesso guidati dalle priorità insite nel nostro modo di percepire quell’opera, e l’opera lirica in generale. Se poi a questo aggiungiamo che, per un fatto probabilistico quasi chimico, una singola incisione difficilmente racchiude tutto quello che desidereremmo ascoltare da quella musica, siamo costretti a fare una scelta "di campo", privilegiando la bravura di un interprete, la perizia di un direttore ecc. oppure a cercare inevitabilmente un compromesso. Difficilmente questa edizione potrà mai essere considerata di riferimento. Il vociomane probabilmente sceglierà le abbaglianti emissioni di Milnes, Pavarotti e Sutherland dell’edizione Bonynge, mentre il raffinato amante dei dettagli si butterà sulla cerebrale introspezione di Fischer-Dieskau, ben assistito dalla accurata Scotto e dal sempre elegante Bergonzi. Se poi focalizziamo la nostra attenzione su un solo particolare le scelte si fanno molteplici (penso ai Rigoletto di MacNeil e di Gobbi, alle direzioni di Giulini e di Sinopoli ecc. solo per citare i miei preferiti). Almeno tra quelle in studio, l’incisione di Solti sembra quasi un brutto anatroccolo, o se non brutto diremmo anonimo. Eppure, per chi scrive, questa edizione può ben rappresentare quel compromesso che risulta utile per capire globalmente cos’è il Rigoletto di Giuseppe Verdi.
Partiamo dal direttore. Solti è da molti accusato di generica superficialità. Può essere. Molti direttori sono più analitici di lui, questo è fuori discussione. Eppure si tratta di priorità. Siamo così convinti che la cura del dettaglio vinca sempre su tutto? Non può forse essere che il suo essere "superficiale" voglia semplicemente significare approfondimento di altri aspetti? Solti rimane a mio avviso un grande direttore, certo non efficiente in tutto il repertorio, eppure in questo Rigoletto in grado di costruire una struttura convincente. E’ il ritmo la sua chiave di volta. Ritmo non solo inteso come tempi serrati (Solti si conferma anche qui direttore dalla bacchetta "rapida", si ascolti il cantabile nel primo duetto tra Rigoletto e Gilda) ma anche ritmo drammaturgico, connesso con la scena. Rigoletto è un’opera piena di curve a gomito, di cambi di direzione, mutamenti di atmosfera, è un’opera "affannosa", dove la tensione aleggia dal preludio fino all’ultima scena. Si presti attenzione quindi non solo alla tempesta o ad altri passaggi concitati ("Cortigiani", "Si vendetta" ecc.), ma pure ai mille spunti strumentali che l’opera offre. Cito su tutti l’introduzione al recitativo e aria del Duca, dove l’effetto cinetico di corsa smarrita è reso perfettamente dal direttore ungherese. E’ vero, certe trame strumentali non vengono adeguatamente esaltate come da altri interpreti, eppure altri interpreti non posseggono quel senso del movimento che Solti dimostra di padroneggiare.
Il protagonista è, della terna di personaggi principali, forse l’anello debole. Merrill ha infatti una voce solida e robusta, ma come interprete si limita a inserirsi nel solco della tradizione interpretativa, senza tanti colpi di genio. C’è pure da dire che non molti sono stati gli artisti a lui coevi in grado di tratteggiare un Rigoletto assai più convincente di quanto non potesse fare un buon baritono medio. Il tanto lodato Fischer-Dieskau è sì mille miglia più lontano in fatto di fraseggio e cura dell’espressione, ma il rischio di essere poco credibile nei panni del buffone di corte (e non per il colore chiaro della voce, precisiamo) lo attende sempre dietro l’angolo. E’ meglio una interpretazione curata costruita intorno al personaggio, o un’interpretazione più dimessa scaturita dal di dentro? Anche quì, questione di priorità, di punti di vista. Eppure nel tonante e approssimativo Merrill (al quale non perdoniamo di buttar via l’intera scena solista del secondo atto) si ravvisa, seppur non sempre perfettamente a fuoco, la verità del Rigoletto personaggio, uomo semplice, burbero, frustrato, padre amorevole e ossessivamente iperprotettivo. E’ forse proprio l’aspetto paterno che viene reso al meglio, laddove la linea si fa teneramente cantabile e il grossolano Rigoletto di Merrill, carente nei chiaroscuri sulle linee spezzate, si addolcisce sulle melodie, trattate persino con una certa ingenua finezza. E’ pur sempre la finezza di un uomo difforme.
Poche parole sul Duca di Kraus, stralodato un po’ da chiunque, e a ragione. La tessitura impervia e tendenzialmente svettante ha fatto cascare più di un tenore (alcuni anche celebri cantanti verdiani), ma il problema è anche, tanto per cambiare, di natura intepretativa. Il buon Bergonzi, ad esempio, risulta vocalmente raffinato come suo solito, ma abbastanza estraneo al personaggio, dall’apparenza sì nobile e signorile, ma dall’atteggiamento guascone, strafottente, cinico e falso. Di Di Stefano si può dire esattamente contrario. E quindi non basta un Duca posato o un Duca ruffiano, è l’equilibrio il segreto del personaggio. Mai come in Kraus si compie questa sintesi tra altezza del blasone e bassezza della condotta morale. Una giovanile nobiltà vacua ed esteriore, priva di valori, che si bea della sua presunta onnipotenza sociale ricavata dall’aspetto e dal ceto, un "fighetto" come si direbbe oggi nel gergo giovanile. Inutile aggiungere pure che il magistero tecnico di Kraus non ha rivali (il suo "Parmi veder le lagrime" manderà in solluchero anche il fan vociomane).
E giungiamo a Gilda, il personaggio più pesantemente travisato dalla tradizione interpretativa. Anche in questo caso il discorso non può solo ridursi alla abitudine di affibbiare il ruolo ad una voce di sopranino ultraleggero, è evidente che questa scelta porta con sè un significato interpretativo più profondo, ossia quell’idea tutta incolore di una Gilda dal candore accecante, immacolato, la vergine inviolabile del mondo ultraterreno patria dei valori di purezza e bontà. L’errore, fin troppo superficiale, è in altre parole nel vedere Gilda come una Maddalena allo specchio, quando in realtà le due non si contrappongono, vivono la stessa realtà; ciò in cui differiscono è semmai il grado di libertà e, conseguentemente, l’esperienza e l’atteggiamento nei confronti degli uomini. Una è il risultato dell’iperprotettività della famiglia, l’altra quello dell’iperpermissività. In molte sono tuttavia cadute nel tranello. Persino pezzi da novanta come la Callas o la Scotto, sdoganatrici quasi per vocazione, non hanno fatto altro che scolpire la loro interpretazione (pur superiore alla media) attorno a questa stessa idea mutuata dalla tradizione. La Moffo, fraseggiatrice meno accurata, vocalista meno ferrata (tra l’altro fotografata all’inzio del suo declino), aveva dalla sua una sensualità intrinseca e ammiccante che, ad esempio, le rese grande successo in Traviata, o che la spinse nel fallimentare esperimento di Carmen. In questa Gilda non c’è più verginità, ma desiderio amoroso reale, attrazione fisica diremmo oggi. Il suo Caro nome è tutto fatto di portamenti, sospiri, e trilli che paiono brividi di piacere. E se è vero che in Verdi ancor più che in Donizetti la fioritura non ha mai un fine decorativo, tutti quei vocalizzi di Gilda sono ora facilmente interpretabili come una sorta di fantasia sessuale (e il libretto con cuori che palpitano, delizie dell’amore e ultimi sospiri si presta certo a doppi sensi). Del resto anche in Sempre Libera Verdi utilizza le agilità in maniera decisamente funzionale al messaggio che vuol dare, compiendo peraltro una operazione molto simile. Il drammatizzare le semplici attrazioni vivendole in maniera totalizzante come sentimenti assoluti (i famosi "amori della vita" dei giovanissimi) è tipico delle prime esperienze amorose, siano esse dovute all’inesperienza della giovane età o al contesto moralista e bigotto che ne intralcia l’espressione libera. Questa linea interpretativa rende anche più coerente anche il sacrificio finale, che appare così fatto con l’incoscenza di una ragazza che, semplicemente, ha perso completamente la testa per il primo uomo bello, più grande, e più ricco di lei (e non ultimo figlio di buona donna), un po’ alla maniera di molti teen-ager (cos’era Gilda se non una ragazza dell’epoca?!).E’ Rigoletto, con la sua iperprotettività, dovuta a frustrazioni personali, senso di solitudine e di insoddisfazione ad ammazzare Gilda, nella quale il desiderio represso di emancipazione insieme ad una buona dose di fascino per la trasgressione (pure questo tipico dei giovani e della natura umana in generale) sono portati fino all’estremo di un gesto così sconsiderato. La Moffo magari ci arriva in maniera incosapevole, per sua costituzione, eppure il messaggio arriva e rappresenta una novità abbastanza sostanziale.
I comprimari sono onesti (e la Maddalena della Elias merita menzione particolare), ma questo è un dettaglio poco rilevante in una edizione che non si prefigge di puntare sulla cura del particolare, bensì di dare con pochi tratti una idea della psicologia dei personaggi e della azione drammaturgica dell’opera. Se questo è quindi il nostro riferimento l’operazione può dirsi riuscita
Triboulet