Madama Butterfly
Aggiunto il 10 Agosto, 2010
Questa è – come noto – la seconda registrazione del capolavoro pucciniano realizzata da Karajan, la prima essendo stata realizzata con la presenza per nulla secondaria di Maria Callas: la fusione di due autentici geni musicali così prevaricanti aveva portato a un risultato sul quale ancora oggi si discute. Qui siamo in un alveo più tradizionale, almeno per quanto riguarda il soprano, giacché invece sul fronte orchestrale siamo alla prima delle due grandi rivoluzioni interpretative di questo titolo (l’altra essendo la registrazione di Sinopoli): la scelta di Mirella Freni, che pure mai porterà un personaggio così adatto alle proprie corde in teatro, è non solo ideale, ma quasi scontata nella temperie culturale in cui esce questa registrazione.
Si era infatti nella metà di quegli Anni Settanta che videro l’esplosione del disco non solo come mezzo di comunicazione di massa, ma anche come elemento di conservazione della memoria esecutiva. È infatti il periodo in cui le grandi case discografiche (DGG, Emi e Decca) arruolano i grandi esecutori e fissano sul vinile il repertorio con iil meglio che c’è a disposizione sul momento, non disdegnando di riprendere i titoli già precedentemente registrati per dare loro una nuova dignità.
Karajan aveva già registrato “Butterfly” con la Callas per la Emi che aveva già sotto contratto la Scotto che aveva registrato la parte con Barbirolli (1966); la Decca aveva già una Butterfly di assoluto rilievo incisa dalla Tebaldi (sempre con Bergonzi). Mettere insieme un cast all stars guidato da un Karajan già a quel punto della sua vita revisionista di se stesso era un tipico must degli Anni Settanta, espressione di un’epoca destinata a trascolorare negli Ottanta e che – nel bene come nel male – non si sarebbe ripresentata mai più.
Mirella Freni – née Fregni a Modena nel 1935, e quindi quasi quarantenne all’epoca della registrazione – era l’erede della grande tradizione lirica italiana di cui forse sarebbe stata l’ultima grande esponente. Voce splendida, naturalmente estesa, perfettamente immascherata secondo i canoni della grande tradizione di scuola italiana, impasto ricco di colori e di smalto luminoso, Mirella nasce come lirico-leggero per poi progressivamente virare verso i grandi ruoli drammatici che, negli anni a seguire, l’avrebbero portata anche ad approdi pericolosi per la sua vocalità: Tosca (incisa due volte), Elvira dell’Ernani, Elisabetta del Don Carlo, Leonora di Vargas. Butterfly non era un azzardo, in fondo: lo smalto della sua voce e la sensibilità a fior di pelle, unitamente al tono sorridente e ricco di fascino la rendevano interprete ideale di Puccini, almeno sulla carta. Oggi che molta acqua è passata sotto ai ponti e che abbiamo conosciuto altre interpreti, sappiamo che qualcosa le mancava: la nevrosi sottile ed inquieta che non dovrebbe mancare mai ad una donna pucciniana, ma che in lei – ricca di sereno buon senso – non sarebbe mai potuta essere una connotazione caratteristica; la sensualità torbida (in lei è sempre stata piuttosto la carnalità rilassata della donna di provincia come s’intendeva una volta); la furia distruttiva che mina la dolcezza languida ed estenuata. Partendo da questi presupposti, è ovvio che la sua Butterfly non poteva che essere l’erede della tradizione di Rosina Storchio, Rosetta Pampanini e Toti Del Monte, solo cantata con la voce di un soprano lirico in fieri, perché a regola stretta “lirico”, a quel punto, Mirella non lo era ancora, anche se la struttura della voce si stava irrobustendo. Ma non era più nemmeno “leggero” né forse, in fondo, lo era mai stato, anche se la sa estensione le aveva permesso Elvira dei Puritani: era semplicemente la Mirella, quella che sarebbe rimasta per tutta la sua vita.
Da un punto di vista vocale nessuna vera difficoltà, se non – appena percettibile – sulla scena d’entrata, in “…al richiamo d’amor” e sulle grandi campate del secondo atto, che non la vedono ancora così soggiogante come sarebbe stata con Sinopoli o come altre colleghe celebri (su tutte Sena Jurinac e Renata Scotto, probabilmente con lei i vertici interpretativi del ruolo). Dal punto di vista interpretativo, è l’unica (ma solo in questa registrazione del 1974) ad essere credibile nel primo atto riuscendo a rendere bene l’idea della fanciullezza verginale ma già vagamente maliziosa, e a non far sorridere l’ascoltatore sul “Quindici netti netti: sono vecchia diggià”. Con Sinopoli, per mere questioni anagrafiche, il gioco non sarebbe più riuscito. Il duetto d’amore è molto bello, ma la tensione emotiva viene smorzata dalla sovrana indifferenza di Luciano Pavarotti che dimostra una volta di più la difficoltà della resa di un personaggio come Pinkerton. La Freni però si scatena letteralmente nel secondo atto in cui giganteggia. Le intenzioni non sono ancora così raffinate come più tardi con Sinopoli, in compenso c’è – se possibile – una anche maggiore sincerità. Esemplari, da questo punto di vista, il lungo duetto con Sharpless (un commosso e pulitissimo Robert Kerns), culminato da un “Sai cos’ebbe cuore” che strappa letteralmente la pelle di dosso; e – come già rilevato da Elvio Giudici – i tre “Il nome!” che pronuncia con tre intonazioni differenti nel leggere il nome della nave appena arrivata nel porto. Fa un po’ difetto il “Tu tu piccolo iddio”, che sarà più rifinito con Sinopoli; e, soprattutto, il “Duetto dei fiori”, ma non tanto per colpa sua quanto per l’estraneità globale di Christa Ludwig alla temperie emotiva di un’opera del genere. Molto bello “Un bel dì vedremo”, cui però manca ancora l’emotività visionaria e psicotica che le farà infondere Sinopoli, forte di ben altre intenzioni cui invece Karajan non sembra essere interessato; e, parimenti, meno interessante di quanto ci si aspetterebbe, la scena con Yamadori che, con Sinopoli, risuonerà colma di tragica e, in fondo, inconsapevole ironia.
Quindi una lettura molto meno innovativa di quella di Maria Callas (e, per certi versi, della coeva Renata Scotto che la cantava in teatro proprio nello stesso anno di questa registrazione), ma strepitosamente bella per la franca e disarmante ingenuità; con Sinopoli sarà molto più interessante quanto ad intenzioni, ma a quel punto assai meno credibile perché la voce sarà decisamente invecchiata e quindi non più proponibile come archetipo interpretativo per un’adolescente psicotica.
D’altra parte, se le charme opère, è merito ovviamente del direttore che – per primo nella storia interpretativa quanto meno discografica del capolavoro pucciniano – impugna la partitura, la ripulisce di ogni orpello bozzettistico, elimina ogni riferimento alle scemenze di tradizione, si concentra su Butterfly e ne tira fuori una direzione ricca di colori caldi, affascinanti, ricchi di vita. Rispetto alla passata direzione con cui aveva accompagnato la rivisitazione del ruolo effettuata da Maria Callas (probabilmente il punto più alto raggiunto dalla collaborazione fra i due immensi artisti), c’è molta meno crudeltà e un plusvalore di pura bellezza formale quanto a colori orchestrali: i Wiener danno davvero il meglio delle loro possibilità. Anche l’intesa con Mirella, pur non così esplosiva come con la Callas (ma d’altra parte le due cantanti non potrebbero essere più lontane quanto a vissuto, emotività e caratteristiche tecniche ed interpretative), è comunque notevole, e si percepisce alla perfezione. Non diversa invece dalla prima registrazione è l’indifferenza con cui viene trattato il personaggio di Pinkerton, con la differenza che là c’era Gedda che, per quanto lontano dalla sensibilità del verismo italiano, era dotato di una musicalità innata che lo portava ad autonomizzarsi e a viaggiare con le proprie gambe; e qui c’è Pavarotti, che avrebbe tutto per essere il Pinkerton ideale per bellezza timbrica e colori, ma che a queste caratteristiche si ferma, risultando alla fine assai poco interessante.
Molto ben cantato, forbitissimo nell’espressione ed esente da accenti larmoyant è – come anticipato – lo Sharpless di Robert Kerns, cantante assai poco conosciuto dalle nostre parti: eccellente la scena della lettura della lettera, ricca di pudore e riserbo, e il terzetto “Io so che alle sue pene non ci sono conforti”, tenuto saldamente in mano da Kerns, nonostante le spampanature di un Pavarotti chiaramente già proiettato all’espansione di “Addio fiorito asil”, e la tragica indifferenza della Ludwig.
Quanto alla grandissima cantante tedesca, è proprio la sua performance che dimostra quanto possa essere difficile rendersi credibili in un ruolo di contorno come questo pur essendo abituata a ben altre prestazioni; il paragone con la Berganza dell’incisione di Sinopoli non si pone nemmeno per sbaglio.
Eccellente l’accento lascivo di Sénéchal nei panni di uno splendido Goro ed ottime le parti di fianco.
Splendida la registrazione in cui c’è la mano eccelsa di Raeburn come producer