Martedì, 08 Ottobre 2024

Fliegende hollander

Aggiunto il 25 Luglio, 2009


RICHARD WAGNER
DER FLIEGENDE HOLLAENDER

 Daland MATTI SALMINEN
 Senta LISBETH BALSLEV
 Erik ROBERT SCHUNK
 Mary ANNY SCHLEMM
 Der Steuermann GRAHAM CLARK
 Der Hollaender SIMON ESTES

Chor der Bayreuther Festspiele
Chorus Master: Norbert Balatsch

Orchester der Bayreuther Festspiele
WOLDEMAR NELSSON

Regia: HARRY KUPFER
Set design: Peter Sykora
Luci: Manfred Voss
Costumi: Reinhard Heinrich
Supervisione artistica: Wolfgang Wagner
Regia televisiva: Brian Large

Luogo e data di registrazione: Bayreuth, Festival del 1985

Edizione discografica: DGG, 1 DVD a prezzo pieno

Note tecniche: ottimo riversamento video e audio

Pregi: regia, direzione, protagonisti, tutto. La Balslev è una delle più grandi interpreti di Senta di tutti i tempi

Difetti: non ce ne sono: è una rappresentazione entrata giustamente nella leggenda

Giudizio complessivo: images/giudizi/eccezionale.png

Scegliere Bayreuth come paradigma dell’interpretazione wagneriana è più che doveroso: è inevitabile. E’ sul Colle che sono stati fissati gli unici criteri veramente attendibili per quella che oggi potremmo definire la "filologia" wagneriana, e sin dai tempi di Cosima, prima e feroce custode dell’eredità morale e culturale del marito. E’ sul Colle che si riesce misericordiosamente ad evitare siccome la peste ogni riferimento a quei melismi annacquati che i raffinati esegeti italiani invocano come antidoto all’asprezza del declamato, ignorandone ancora clamorosamente (e siamo nel 2000 inoltrato, santa pace!) le possibilità espressive e coloristiche. E’ sul Colle, infine, che a partire dagli Anni Cinquanta, sono iniziate quelle sperimentazioni che, partendo dall’ambito registico, hanno progressivamente coinvolto tutti gli aspetti della rappresentazione sino a creare un criterio dai tratti inconfondibili di vero riferimento per il “perfect wagnerite”.
Non che altrove non si facciano spettacoli wagneriani degni di rilievo talvolta anche epocale: basti pensare, a titolo d’esempio, al "Tristan" di Lenhoff allestito a Glyndenbourne o a quello di Guth a Zurigo - entrambi con l’immensa Nina Stemme - o al Ring assemblato a Venezia da Robert Carsen. Ma è a Bayreuth che tutto assume le caratteristiche di un unicum magico ed irripetibile, grazie anche alla lungimiranza di Wolfgang Wagner, regista non memorabile ma manager di una bravura talmente trascendentale da far passare in secondo piano le proprie mende tecniche e i deliri di onnipotenza: si pensi, a tale proposito, alla manfrina inscenata prima dell’abbandono della guida del Festival. Fu però lui che nel 1976 aveva fatto arrivare a Bayreuth, per il Ring del Centenario, il trio delle meraviglie costituito da Boulez, Chereau e Peduzzi; e fu sempre lui a convocare, nel 1978, il geniale, ambiguo e talentuoso Harry Kupfer. Tedesco nativo dell’area poi destinata a diventare DDR, ove era nato nel 1935, aveva diretto la sua prima opera – Rusalka – a Lipsia nel 1958. Quando arriva a Bayreuth è già un regista esperto, fantasioso e ben inquadrato, nell’ambito di quel Regietheater di cui fu uno dei pionieri. Fra gli spettacoli che l’hanno portato al successo – tutti all’insegna di un eccellente inquadramento psicologico – Otello, Frau ohne Schatten, Parsifal e Salome: ce n’è abbastanza per sbizzarrirsi nei meandri della psiche umana, un ambito che a Kupfer – come si vedrà nel successivo allestimento del Ring sempre a Bayreuth – è sempre andato a genio.
Chi c’era, ricorda ancora la sensazione di alcuni dei momenti topici dello spettacolo: fra tutti, il duettone del secondo atto fra Senta e l’Olandese che le appare in fondo alla scena incastonato nell’albero maestro della nave come in un sogno - o forse piuttosto un delirio strutturato? - mentre davanti alla figlia di Daland compare, a creare uno stridente contraltare, il promesso sposo borghese; e la scena del matrimonio all’inizio del terzo atto, cadenzata dai colpi di piede (e qui l’orchestrazione di Nelsson e’ davvero grandiosa), coi marinai vestiti di uno spettrale bianco ad incarnare il sogno di normalità della ragazza. L’idea di base di Kupfer è, ancora una volta, uno scandaglio gettato nell’abisso della psiche umana. Senta non vive la vicenda dell’Olandese: la immagina. È una ragazza diversa, sensibile, probabilmente disturbata, che vive una vita difficile nel borgo insieme ad una nanny iperprotettiva che ne conosce le nevrosi, e con un gruppo di amiche che non la capiscono. Il borgo la rifiuta, non diversamente da quanto fanno i compaesani di Peter Grimes. Il mare, lo stesso mare che angoscerà anche Britten, genera le nevrosi e accoglie nel suo alveo le sofferenze della ragazza, che ambirebbe ad una vita di normalità, ma che ne è impedita dalle sue ossessioni. Il finale è tragico ed amaro: non c’è redenzione per una psicosi delirante; Senta muore nell’indifferenza della gente che la ripudia come se fosse una cosa strana e sporca da cui tenersi accuratamente alla larga. Ed ecco quindi che il protagonista non è più il tormentato Olandese, erede della tradizione dell’Ebreo errante, eroe romantico e maledetto. No, il vero protagonista è proprio Senta – qui, la straordinaria Lisbeth Balslev – che sta sempre in scena e, quando non è parte dell’azione, contempla quello che fanno gli altri come una proiezione della propria mente. La Balslev, danese, nata nel 1945, aveva fatto il suo debutto nel 1976 e, nel 1977, aveva partecipato alla messa in scena dell’Olandese a Copenaghen, nel mitico allestimento di Wieland. L’audizione con Wolfgang, lo stesso anno, fu segnata da un piccolo evento umoristico: Lisbeth, stanca, propone di cantare l’aria di Fiordiligi e Wolfgang, gelido, ribatte: “A Bayreuth non si canta Mozart!”. La cantante intimorita propone la Ballata di Senta e la prima parte del duetto con l’Olandese; Wolfgang rimane impressionato dalla cantante, alla fine le chiede di cantare egualmente il “Come scoglio” e, ottenuto il parere favorevole di Kupfer, le affida la parte di Senta nella nuova produzione. Kupfer è rigorosissimo nelle prove, ma accetta volentieri i consigli: Lisbeth Balslev profonde nel ruolo la sua esperienza di infermiera in un reparto psichiatrico. Sarà grazie alla splendida intesa con il regista, sarà per la profonda compenetrazione del personaggio (una di quelle interpretazioni uniche e mitiche che, di tanto in tanto, si verificano nella rappresentazione operistica), sarà anche per il magnifico appoggio di Nelsson e per la simbiosi sulla scena con Estes, fatto sta che la Senta di Lisbeth Balslev è un capolavoro. Non si sa se ammirare maggiormente lo splendido magistero di un declamato praticamente perfetto, in cui risuona tutta l’asprezza del mare in tempesta (e, per ritrovare una protagonista di ispirazione analoga, bisogna risalire alla Silja del 1961 a Bayreuth con Sawallish), oppure la presenza scenica angosciata, tragica, da protagonista di un film di Bergman. Tutto in lei è semplicemente perfetto: il canto, magari appena un filo aspro e teso, ma comunque coinvolgente e ricco (la Ballata è letteralmente da brivido); l’interpretazione tesa e drammaticissima, anche se non priva di una nota di ingenuità deliziosa; la personalità della grandissima artista che sa che sta segnando il ruolo. In quegli anni la Balslev stava meritatamente raccogliendo l’eredità di Catarina Ligendza in ruoli carismatici come Brunnhilde e Isolde, Gutrune ed Elektra: è stata veramente la grandissima cantante wagneriana degli Anni Ottanta, prima dell’arrivo di Evelyn Herlitzius. La scena della morte, con lei disfatta sulla strada del borgo (Nelsson non ha scelto il finale della redenzione) e le finestre che si chiudono di botto, come se il popolo indifferente non volesse mischiarsi alla follia di una reietta, è uno dei grandi momenti del teatro musicale.
Non era, invece, la prima volta che un cantante afro-americano calcava il palcoscenico di Bayreuth: era gia’ successo nel 19, quando Wieland e Bejart avevano voluto come Venus nel Tannhauser Grace Bumbry. Nel 1978 fu la volta di Simon Estes che, proprio da questo spettacolo, ebbe la cassa di risonanza adeguata per proporsi come il nuovo basso wagneriano di riferimento. Oggi sappiamo che non fu cosi’: la voce fu bella per poco tempo, poi divento’ rapidamente catramosa e priva di armonici. Nato nello Iowa nel 1938, aveva studiato all’Università del suo Stato ove fu il primo studente nero ad entrare nella scuola universitaria degli Old Gold Singers. Nel 1964 si iscrisse alla Juilliard School e l’anno successivo debuttò in Aida; quando arriva a Bayreuth è quindi nel pieno della sua maturità artistica. Anche nel suo caso, il termine “simbiosi” riferito al rapporto con il proprio ruolo non appare inadeguato, pur se con qualche distinguo, quanto meno rispetto alla Balslev. L’interprete fu talmente trascendentale in questo spettacolo, ma successivamente e altrove sciatto, prevedibile e talora cialtrone (vedi certe sue escursioni in repertori extrawagneriani) da far sospettare che il merito in realta’ sia stato di Kupfer e dell’ - almeno qui - eccellente Woldemar Nelsson. Detto questo, difficile immaginare un Olandese più affascinante e carismatico di quello proposto da Simon Estes, vera forza della Natura in "Die frist ist um" e commovente e coinvolto nel duetto con Senta. La scena finale, poi, è un capolavoro.
Robert Schunk all’epoca era una grande promessa: voce bella, piena, robusta, ricca di armonici; interprete vario ed appassionato persino nella convenzionalità un po’ piagnona di un ruolo come quello di Erik. Ma è proprio la ricchezza della prestazione nella parte probabilmente meno ambibile (per un tenore) di tutto il repertorio wagneriano che lo rende particolarmente meritevole. Dopo questo “botto”, però, si è un po’ perso.
Matti Salminen fa un grande Daland, torvo e prepotente, talvolta ironico, sempre cinico.
Graham Clark si stava proponendo come l’erede della grande tradizione dei tenori “seconda parte” a Bayreuth; negli anni successivi, sempre sul Colle e con Kupfer, sarà un grande Mime, uno dei più importanti di sempre. È già bravissimo sin da questo momento.
Fa piacere – infine – poter rivedere nel cameo di Mary la grande Anny Schlemm.

Uno spettacolo magico che ha cambiato la storia dell’interpretazione del primo grande capolavoro wagneriano

Categoria: Dischi

 

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