Andrea Chenier
Aggiunto il 18 Maggio, 2009
Questa è una registrazione che avevo già recensito tempo fa per Operaclick. Ricordo che ero stato cattivello nei confronti di tutti, ma in particolare con Pavarotti e la Caballè: se non ci crede nessuno – mi chiedevo – come si fa a portare in sala d’incisione un’opera come questa?
Se il tenore non sceglie da che parte stare ma si limita a cantare le proprie note con l’espressività di un merluzzo, che senso ha andare ad incidere per un’etichetta così prestigiosa un ruolo come questo? Per il “piacer di porlo in lista”?
Se si ha un’organizzazione vocale che vent’anni prima andava appena appena bene per i ruoli Pasta, che senso ha mettersi a fare una Maddalena di Coigny che batte spesso sulla parte centrale del pentagramma, per di più mangiandosi le parole (e faccio riferimento alla frase: “La nostra morte è il trionfo dell’amore” del duetto finale che la Caballè trasforma in una specie di rantolo)?
Ero cattivo e ci andavo giù pesante, il che è parzialmente ingiusto; ma questo non significa che mi rimangi le valutazioni che rimangono valide, anche all’ascolto odierno, dopo che mi è sbollita notevolmente la rabbia per un’occasione perduta, soprattutto sul fronte tenorile.
Ai tempi in cui scrivevo, Pavarotti era ancora fra noi anche se mai più avrebbe potuto cantare un ruolo così impegnativo, forse nemmeno in sala di registrazione. Nel 1984, invece, era ancora nel pieno fulgore dei propri mezzi e un ruolo come Chènier sembrava scritto apposta per le sue corde, in grado di far valere le ragioni del Poeta. Ma Pavarotti, dotato di voce meravigliosa ma mai stato un mostro di musicalità, di fronte alla prospettiva di prendere una posizione purchessia, sceglie di affidare al disco le note di Andrea Chènier senza affidarsi a nessuna strada interpretativa. Giusto? Sbagliato? Mah. Il vociologo qui può trovare pane per i suoi denti, perché Pavarotti canta molto bene, con ottima intonazione, con acuti facili e squillanti e con la nota smaltatura del mezzo vocale che, all’occorrenza, sostituisce perfettamente lo squillo e il metallo. Poco male, perché comunque quello di Pavarotti non sarebbe mai potuto essere il guerriero, il rivoluzionario, ma tutt’al più il Poeta che si bea dell’ebbra gioia del canto, della composizione, dell’amore scoperto per la prima volta. Ci riesce? Ni. Non nego che ogni tanto l’incanto di una delle voci più belle del secolo scorso possa fungere da – chiamiamolo così – sostitutivo d’affetto, ma raramente basta. L’Improvviso è localmente bellissimo, ma manca sempre il tono giusto, trasognato e quasi soprappensiero che, per esempio, rendeva irresistibile quello di una patata bolsa come Beniamino Gigli; né peraltro appare percepibile l’odio malamente represso di Del Monaco o l’amarezza di Corelli. L’attacco di “Ora soave sublime ora d’amore” è vocalmente splendido, ma lì finisce; Corelli spesso esibiva nello stesso passaggio un portamentone tremendo, ma ci sentivi dentro una passione vera, magari molto casta e platonica, ma comunque degna di un vero Poeta. Stesso discorso sul “Sì fui soldato”: belle note, nessun eroismo, né vero né – e questo è anche peggio – posticcio. Nell’ “Andrea Chènier” è ammessa la finzione: è un’operona falsa e farlocca, dove tutto è esagerato più che in qualunque altra composizione, per cui va benissimo che uno faccia sentire anche l’esagerazione del momento. Ma qui non c’è, purtroppo. E non parliamo del duettone finale, che naufraga anche sul fronte vocale ma, ovviamente, per colpa del soprano.
E qui si apre un altro capitolo. Niente bello, purtroppo.
Montserrat Caballé è la cantante che conosciamo bene. Divina belcantista – quanto meno nei ruoli Pasta e in alcuni ruoli Ronzi affrontati con la volontà che sopperisce alla carenza dei mezzi naturali – non si capisce bene perché abbia voluto affrontare questo tipo di ruoli, che comunque l’hanno resa simpatica a tutti. Non ne aveva le caratteristiche; ma, ahimè, non ne aveva nemmeno le caratteristiche. Il medium è evanescente, ma purtroppo Maddalena si gioca tre quarti della parte nel medium che dovrebbe essere rotondo, cremoso, molle e sensuale: e nessuno di questi aggettivi può essere speso per la voce di Montserrat. Senza corpo centrale, la Caballé è costretta ad ingolarsi e a fare abuso di note di gola di una bruttezza singolare; e negli acuti, quando non riesce a piazzare le note flottanti per le quali andò giustamente famosa, deve ricorrere a strilletti e gridolini estatici ed imbambolati, che a suo tempo e con eccessiva cattiveria avevo definito suppergiù “da educanda alle prese con le prime fallofanie”. Sì, lo so, è una cattiveria probabilmente eccessiva, specie in rapporto a tutte le pagine grandi o grandissime che ha scritto questa cantante: ma questo è un approccio sbagliato ad un ruolo che, come tutti i ruoli veristi (e, direi, anche altri ruoli come per esempio Isolde, ma non vorrei aprire un altro “cahier de dolèances”), non sarebbe mai dovuto entrare nel suo repertorio.
Dicevo nella mia vecchia recensione che il migliore della compagnia è l’unico che, in fondo, dimostra di credere nel proprio personaggio, e cioè Leo Nucci. Il quale non fa nulla di straordinario: la voce, mai stata particolarmente bella, è piuttosto arida e nasaleggiante, anche se gli acuti sono belli e facili; quello che lo avvantaggia rispetto ai colleghi è il fatto di metterci il sentimento. Si tratta ovviamente di un sentimento farlocco, posticcio, in tutto degno di un finto rivoluzionario dal cuore di burro alle prese con la passione meno credibile di tutta la storia del teatro d’opera: ma è un’idea e, quindi, va salutata con entusiasmo. Tra l’altro Leo, in questi personaggi cialtroni dal cuore d’oro, riesce sempre ad infondere tutta l’umanità di cui è capace, per cui il gioco regge bene e il risultato alla fine è più che accettabile. Eppure, anche qui c’è qualcosa che non va: lo slancio melodico di “Nemico della Patria”, uno dei brani più belli mai composti per voce di baritono, soffre singolarmente dell’aridità timbrica del baritono bolognese. Non sono un esteta vociofilo, ma questo è un ruolo in cui – come si suol dire – anche l’occhio vuole la sua parte.
Il cast viene completato da una schiera di comprimari alcuni dei quali scelti, come succede al Milan degli ultimi anni, fra le figurine Panini dei grandi cantanti; e i risultati sono conformi a quelli della squadra milanese, purtroppo. Si va perciò dall’eccellente Bersi di Kathleen Kuhlmann, persino sprecata in un ruolo come questo; ad una Ludwig che non risolleva Madelon dallo strazio gonadico cui il personaggio è confinato; sino agli inascoltabili e tremendi Hugues Cuenod e soprattutto Varnay che, con tutta la gloria di cui si era ricoperta in memorabili stagioni a Bayreuth chissà per quale motivo ha sentito il desiderio di vestire i panni della Contessa di Coigny…
Di ottimo livello, infine, la direzione di Chailly: grancassa quando occorre, ritmo pimpante e giusto spazio agli abbandoni melodici. Quello che vorremmo sentire sempre quando ascoltiamo quest’opera