Siegfried
Aggiunto il 11 Maggio, 2009
NB: per quanto riguarda le considerazioni preliminari, vedi l’introduzione al Rheingold,
Non è un grandissimo Siegfried, questo.
Certo, c’è tutta la prassi ben consolidata di uno spettacolo collaudatissimo; di un direttore che già conosce alla perfezione materia, allestimento e cantanti; di artisti che si conoscono anche nei momenti più intimi. Eppure qualcosa non funziona.
Windgassen è meglio qui che nella Walkiria, non fosse altro che perché si trova a che fare con un personaggio la cui naiveté - da lui portata nel corso degli anni a vertici di assoluta poesia - gli è molto più familiare che non l’eroismo brado e desolato di quel Siegmund di cui aveva dovuto indossare i panni la sera precedente per la defezione di Vinay. Il Siegfried di Windgassen è un’invenzione che gli appartiene completamente per la poesia messa in campo che sostituisce l’esposizione dei muscoli preferita da altri interpreti come, per esempio, il sopravvalutato Melchior. È lui, forse più ancora di Hotter e Varnay, il vero simbolo della Neue Bayreuth e non tanto o non solo per intrinseche virtù canore, quanto per quel ribaltamento di prospettive che Wieland aveva chiesto ai suoi interpreti e che essi erano stati capaci di ottenere. A tutt’oggi, se dovessi identificare un solo elemento di rottura nella storia dell’interpretazione di Bayreuth, punterei proprio su questo tenore che aveva iniziato la carriera con ruoli come Tamino per arrivare a questi grandi personaggi wagneriani, affrontati con intelligenza, estrema musicalità e sagace ottimizzazione di risorse non sempre eccezionali per volume e scansione. E proprio Siegfried fu, senza ombra di dubbio, il personaggio che segnò una carriera non sempre univocamente guardata come esemplare, se si considera che molti critici tuttora ritengono il modello di Windgassen poco pertinente e comunque inferiore a quello di altri cantanti più muscolari o giudicati anche erroneamente di fonazione più ortodossa (per esempio, il già citato Melchior).
Giudicate sul piano della muscolarità, le prove di Windgassen non la vinceranno mai su cantanti più ortodossi e classici; e del resto, non era il fronte prediletto da questo tenore che puntava in altre direzioni come ben evidenziato anche da questa registrazione. Stupore adolescenziale, sorriso, smalto luminoso della voce che ha un impasto chiaro: tutto concorre a dare l’idea di un personaggio giovane, pensoso e riflessivo, anziché del solito stupido muscolare reso famoso da altri interpreti. E la ricerca di se stesso, di stampo squisitamente mozartiano (non a caso, Windgassen era stato un famoso Tamino), diventa la tematica principale di questo Siegfried che non si pone come obbiettivo l’uccisione del drago e di Mime, bensì la scoperta della Natura e della propria identità.
In un contesto del genere, il momento che appare meno interessante è proprio quello che manda maggiormente in visibilio gli appassionati, e cioè la forgiatura della spada, che Windgassen risolve con quello che si suole definire “il mestiere”: quello cioè che gli permette di evitare i trappoloni delle esigenze di una fonazione tesa allo spasimo, così lontana da un’organizzazione intrinsecamente delicata come la sua. Il “mestiere” comprende anche, ovviamente, un ottimo controllo dell’emissione declamatoria, cifra identificativa più genuina dell’interpretazione di Bayreuth: il declamato, in bocca a Windgassen, suona come un eloquio dolce ed ingenuo che dona una particolarissima cifra naif ad un personaggio indimenticabile.
Ma questo è l’unico acuto di una serata non indimenticabile, nell’ambito di uno spettacolo (quello di Wieland) che aveva lasciato gli ambiti dell’eccezionalità per entrare nella routine.
Anche la Varnay aveva fatto meglio. Certo, la Brunnhilde di “Siegfried” può contare solo su quel terrificante duettone per esprimersi al meglio, ma qui proprio non si riesce ad evitare la sensazione di una miniera di suoni duri e piuttosto brutti, quelli insomma che sembrano fatti apposta per mandare in solluchero chi sostiene che a Bayreuth si bercia invece di cantare. Intendiamoci: la Varnay non ha mai berciato in tutta la sua vita, ma questa è proprio una delle sue performances più routinarie e quindi meno felici. Se la sommiamo alla Walkiria non felicissima ci sarebbe abbastanza per scartare questo ciclo ma, come vedremo, il “Crepuscolo” è proprio un capolavoro con un finale da scrivere nell’albo d’oro non solo wagneriano, ma della storia dell’interpretazione lirica di tutti i tempi, per cui sopportiamo con paziente rassegnazione.
Anche Hotter fa gran routine, il che sembra strano per un cantante così. Siamo sempre lì: un interprete di grandissima classe che conosce la propria parte anche capovolta aiuta a portare a casa la serata, ma siamo pur sempre a Bayreuth per cui ci si aspetta la zampata del genio. Che qui, purtroppo, non c’è. Certo, qualche inciso del dialogo con Mime ha pur sempre l’allure del grandissimo interprete (ma il merito va egualmente diviso con Kuen), però siamo lontani dai momenti grandissimi del ruolo. Dove Hotter ritrova se stesso – il più grande fraseggiatore che abbia mai calcato il palcoscenico di Bayreuth e il Wotan più autoritario e carismatico di sempre – è nel grande duetto con Erda, anche in questo caso per l’apporto non banale della partner, una grandissima Jean Madeira che si iscrive di diritto al club delle interpreti storiche del ruolo.
Ai suoi soliti standard eccellenti il buon vecchio Gustav Neidlinger, in tutti quegli anni icona del ruolo di Alberich e, del pari eccellente, il glorioso Arnold Van Mill come Fafner. Ben cantato l’Uccello della Hollweg.
Paul Kuen è stato a lungo detentore del ruolo di Mime, e ben se ne comprendono le ragioni ascoltandone il canto convulso e folle di perspicacia: per arrivare a risultati superiori nel ruolo bisognerà aspettare ovviamente l’assai poco ortodosso Gerhard Stolze.
Knappertsbusch dirige il tutto con sagacia e buon senso, ma anche con tempi lunghi e con una certa dose di logorrea che mal si combinano con la fresca ingenuità di questo Siegfried alla scoperta di se stesso: uno scollamento che ben si percepisce anche al solo ascolto.
Un Siegfried di buona routine, non da leggenda, adatto per il bel suono e per la chiarezza espositiva a chi vuol capire le meccaniche esecutive della Bayreuth di qui tempi