Tosca
Aggiunto il 16 Maggio, 2007
È davvero un gran peccato che operazioni culturali come queste, attraenti nell’accostare un esimio concertista e direttore d’orchestra di formazione orientale ad un repertorio naturalista come quello del Puccini di Tosca risultino alla prova dei fatti positive solo per metà se non addirittura per un terzo (se si pensa ai 3 personaggi che qui dominano la vicenda). C’è da dolersi poi per un secondo aspetto: Tosca a differenza di Turandot oppure de La Boheme o di Madama Butterfly non vanta all’interno della discografia un’edizione di riferimento. Già - qualcuno subito obietterà - c’è De Sabata (ma il cast ?), oppure c’è Karajan I e II (e ripeto: ma il cast ?). Quello che si ode in quest’edizione è un’esecuzione orchestrale notevolissima mentre il cast è in larga parte deficitario. Andiamo per ordine. La direzione di Rostropovich si segnala anzitutto per duttilità, ampiezza e senso notevole del teatro: molto validi alcuni quadri come il commento al fuggiasco Angelotti che cerca la chiave (I atto) e ancora un bel virtuosismo all’ingresso del sacrestano (“E sempre lava…”) e analogamente nelle scene più solenni come l’ingresso di Scarpia (dopo un accompagnamento alla cantoria davvero multicolore), oppure nella preparazione e nell’esecuzione del Te Deum l’orchestra sa essere maestosa senza degenerare in inutili smargiassate e frastuoni. Anzi proprio dopo l’uscita di Tosca da S. Andrea l’orchestra crea un magnifico momento di sospensione che ha del misterioso. Notevole è anche la tensione nel momenti più martellanti del II atto come la scena della tortura o i vari interrogatori che ci sono. Malinconica l’alba romana e ben dosato l’accompagnamento ai due amanti che pensano di esser liberi mentre si sa come andranno a finire le cose… E le cose sappiamo subito come andranno a finire se si guarda al cast del quale inizierei a trattare a partire dai comprimari: buono anzitutto Zerbini come Angelotti, voce sonora e pastosa nonché buon interprete, valido anche Guggia come Spoletta anche se il suo racconto (“Della signora seguimmo la traccia”) è un po’ troppo affrettato. Di normale amministrazione lo Sciarrone di Versaci Medici e il Carceriere di Bertasi. Pessimo invece è Mazzini che fa del sacrestano un condensato di vecchi trucchi e caccole varie giungendo a tratti a parlare. La dizione è poi scadente. Già la dizione: elemento importante per rendere un’opera è qui fallosa nei tre protagonisti principali e ciò mi fa pensare anche ad una certa superficialità con la quale è stata affrontata tal incisione. Del triangolo Tosca-Mario-Scarpia indubbiamente il migliore vocalmente ed interpretativamente è il gelido barone. Manuguerra qui firma una delle sue incisioni migliori: di timbro grigio appena entra nel suo primo interrogatorio si mostra freddo e calcolatore per poi piegare la sua voce ad un’affettuosità tale da renderlo, nel primo incontro con Tosca, simile ad un buon padre di famiglia: il suo “Tosca divina, la mano mia…” e quel che segue è tutto da ascoltare. Anche in alto, se deve emettere un acuto, non grida né è becero, ma sempre composto e signore porta avanti la sua interpretazione con questa sigla avvalendosi di un timbro che forse non sarà dei migliori, ma che egli utilizza con profitto. Insomma anche nei momenti più violenti ed incandescenti non troviamo brutture. Inoltre Manuguerra ha dei momenti davvero singolari: ad esempio lo scambio di battute con Spoletta e Tosca del II atto per mettersi d’accordo sull’esecuzione di Cavaradossi possiedono davvero un’espressione misteriosa e sinistra (“Bisogna che tutti abbian per morto il cavalier”) ed appropriata al momento, ma che raramente si ode in altri più celebrati e gettonati baritoni. La dizione dicevo, a volte, fa cilecca (“ti avvinghiavi all’amante”, oppure “fellace speranza”), ma nel complesso è il livello di questo baritono guarda da molto alto la coppia degli sfortunati amanti, in particolare la Tosca della Vishnevskaya. Bonisolli è un Cavaradossi animato, ma a suo modo, cioè esteriore come interprete e vocalmente ‘a metà’: in alto fa la voce grossa, ma nei centri risulta ingolfato e quando vuole sfumare (quando? raramente) si sente che lo fa con difficoltà. Le due arie più famose non sono da scrivere nell’albo d’oro delle migliori esecuzioni, ma nemmeno il duetto del III atto con Tosca (quello del I è un po’ meglio).
E veniamo alla protagonista sulla quale faccio una precisazione di natura storica che forse sarà scontata: la Vishnevskaya è stata indubbiamente grande interprete e cantante della musica russa. Ma era sostanzialmente un soprano lirico (anche se per il repertorio italiano ha cantato Aida, ad esempio) ed il contatto con fraseggi nervosi e particolarmente serrati come quelli di Tosca senza il dominio non solo della parola, ma dell’espressione italiana che è alla base della conversazione pucciniana si rivela disastroso. L’esecuzione partirebbe bene, ma già nel duetto iniziale udiamo che alcuni suoni in alto non sono fluenti, anzi danno l’impressione di un soprano leggero senza contare la fissità. A tratti del duetto alcune frasi sono dilatate (“O mio amore” oppure “Ma falle gli occhi neri”) oppure questo dilatamento genera imbambolamento (“Ah quegli occhi” oppure “Oh come la sai bene l’arte di farti amare”). Inoltre nei pianissimi la voce tende a perdere consistenza. Ma il guaio è nel II e nel III atto perché oltre alla quantità di voce richiesta e alla dinamicità a tratti spasmodica di certe frasi bisogna avere anche espressione: qui non c’è nulla se non una parodia con effettacci non supportati né dalla dizione né da un vocione che almeno si faccia ricordare – nella peggiore delle ipotesi – per imponenza. È chiaro allora che non abbiamo mai una frase spontanea (nemmeno nel “Vissi d’arte” che è piuttosto bruttino con suoni fissi, difficoltà di articolare il suono oltre che la dizione), anzi avviene tutto il contrario: non è Tosca, ma è parodia. Alcuni esempi sono proprio degni di guitteria: “Quanto ? Il prezzo” tutta la scena della tentata violenza, la morte di Scarpia fino a culminare con un “Davanti a lui tremava tutta Roma ?” cioè a mò di domanda con tanto di inflessione interrogante. Mah…. Sarà una trovata, ma adatta a Mustafà dell’Italiana in Algeri. Nel III atto un’altra perla è “Ecco un artista”, fino ad arrivare al finale quando abbiamo il grande salto dalla Mole Adriana con buona dose di altri ‘effetti’. Anche i più accaniti sostenitori della Vishnevskaya devono fare i conti con quanto qui esibito: il documento audio lo ritrae crudamente.
Riflessione-domanda: perché pubblicare questa edizione con un direttore tanto originale ed una coppia di cantanti non in regola? Premesso che ogni opera dev’essere rispettata, ancor più ci si espone alle critiche quando si intenta un’operazione nuova per un titolo così inflazionato e, discograficamente parlando, ricchissimo
Luca Di Girolamo