Otello
Aggiunto il 22 Aprile, 2007
Iniziamo subito a toglierci i sassolini dalle scarpe col sottolineare fermamente ed additare al pubblico ludibrio l’orrido verdicidio che il direttore perpetra – per chissà quale ragione – alla fine del III Atto quando massacra ignobilmente il sublime concertato eliminando quel capolavoro che è tutta la parte che inizia con Jago che dice ad Otello: “Una parola…”, con tutto quello che segue. È uno scempio inspiegabile, che non ha nessuna giustificazione (nemmeno di tipo teatrale) e che, per di più, porta con sé il fardello di aver generato un’eredità di pessimi imitatori, tipo Rahbari, a dimostrazione che gli allievi non imitano solo i pregi dei Maestri, ma anche – ahinoi – i difetti.
Detto questo, bisogna però anche sottolineare che questa menda, per quanto sgradevole e francamente incomprensibile, non arriva ad inficiare completamente un’interpretazione che – sul fronte orchestrale – non ha nulla di men che favoloso. I complessi di Berlino sono ispiratissimi e suonano in modo divino; il coro è di una precisione mozzafiato in tutti i suoi interventi; e la tensione che anima la lettura del capolavoro verdiano è spasmodica.
Difficile citare i punti più riusciti: il pedale con cui si apre l’opera è cupo e angosciante, con una resa anche “visiva” pressoché perfetta della tensione che si avvita su se stessa durante l’episodio della tempesta. Il coro del “Fuoco di gioia” scoppietta letteralmente di festa per lo scampato pericolo, con perfetta evidenza di tutte le figure onomatopeiche. L’accompagnamento al duetto d’amore del primo atto tristaneggia un po’, ma è ricco di un fascino sinuoso da calda serata d’estate dopo la tempesta. E poi: l’atmosfera ovattata e minacciosa che avvolge sempre tutti gli interventi di Jago, le esplosioni che accompagnano gli scatti di furore di Otello, sino alla magistrale fanfara che introduce il finale III (poi, purtroppo, violentato alla fine dal maestrissimo). E il finale del IV atto ha una solennità asciutta, scabra, dolorosa che ben si combina con le intenzioni interpretative di Jon Vickers che, letteralmente, respira col direttore. Complessivamente si tratta di una delle due-tre più belle direzioni di questo capolavoro: uno di quei capolavori che hanno contribuito a creare la gloria di Karajan e, diremmo, un termine di riferimento assoluto per il futuro. Ciò che entusiasma maggiormente è il sapiente e perfettamente bilanciato equilibrio fra gli episodi più violenti e quelli più intimi, che vivono di una sofferenza interiore e profondamente intima, non riscontrabile con questa compiutezza in altre interpretazioni non meno celebri (comprendendovi anche quella di Kleiber); ciò non deve meravigliare, ove si consideri che questa incisione vede la luce immediatamente a ridosso della realizzazione del ciclo integrale del Ring per la DGG il cui arrivo sul mercato discografico aveva sparigliato le carte entusiasmando alcuni e gettando nella costernazione molti di coloro che vedevano nella svolta del Maestro salisburghese un’involuzione minimalista. Non è questa la sede per discutere tutte le implicazioni legate al Ring (che viene trattato a parte), ma complessivamente si tratta di un grosso passo in avanti rispetto alla precedente direzione, assai più estroversa e non così personale, che aveva caratterizzato la direzione per la Decca (quella con Del Monaco, Tebaldi e Protti).
Mentre quindi sulla parte orchestrale non si può manifestare nessun dubbio, se non quello legato al taglio scellerato in fondo al terzo atto di cui abbiamo parlato, qualche considerazione di segno differente la merita il canto, che sceglie strade sensibilmente diverse rispetto al comune sentire nei confronti di quest’opera.
La scelta di un tenore come Vickers potrebbe sembrare a prima vista un omaggio alla tradizione imperante di affidare ai wagneriani il ruolo del Moro. Ma Vickers fu un wagneriano molto sui generis. Con Karajan fece i due personaggi tenorili più tormentati del grande Autore tedesco, vale a dire Siegmund e Tristan, offrendo di entrambi letture indimenticabili pur se poco ortodosse rispetto a quanto comunemente ci si aspetta. Nella tradizione esecutiva di Otello, Vickers si cala come elemento di transizione: al termine della colossale parabola di Del Monaco – che non avrebbe potuto lontanamente avvicinare sul piano della pura caratura vocale – ed immediatamente prima dell’esordio di Domingo, che avrebbe fatto suo il ruolo per un buon quarto di secolo. In mancanza di mezzi vocali così sfolgoranti come quelli del tenore fiorentino, e in possesso – peraltro – di una personalità ricca di debordante umanità, il tenore canadese plasma un personaggio vocalmente inadeguato, molto sofferente nelle zone alte del pentagramma (con cui lotta rischiando or quinci e or quindi di soccombere), ma terribilmente credibile in un’evoluzione che passa dalla dolce, virile e serena malinconia con cui intride il duetto del I atto; al tono affranto con cui affronta il sospetto del secondo; alla tragica disperazione di fronte all’incomprensibile certezza del tradimento; sino all’ultimo sussulto di nobiltà riconquistata con quel “Tant’osi?…Niun mi tema” in cui si affermano nuovamente le ragioni del grande condottiero che è grande d’animo, anche se ferito nell’essenza stessa della propria umanità. Il canto è spesso censurabile e, probabilmente, molto lontano da quell’ideale che, a nostro parere, è ancora ben codificato dai dischi di Tamagno, primo interprete del ruolo e, per così dire, latore della volontà stessa dell’Autore; ma ha una sua scorrevolezza – purtroppo un po’ minata dalla scarsa padronanza della lingua italiana – ed è impreziosito da alcune splendide mezzevoci che Vickers ha sempre profuso a piene mani nelle proprie interpretazioni, frutto probabilmente della familiarità che aveva anche con il canto dei lieder (e ci sentiremmo di consigliare a tutti l’ascolto del ciclo della Winterreise inciso dal grande tenore nel 1983 con Peter Schaaf: a tutt’oggi un riferimento assoluto). Ne deriva un personaggio nobile ma profondamente sofferto e con già più di un presagio di una tragedia incombente, che però non ha mai la bava alla bocca né mai rinuncia alla propria strabordante umanità. E se qualche acuto appare francamente ai limiti dello scrocco (aspetto per cui Vickers sembra sempre manifestare una singolare nonchalance), certi momenti ricevono per contro un rilievo fortissimo, come il “Dio mi potevi scagliar”, tenuto tutto sul fiato di una dolente mezzavoce magistralmente accompagnata dall’orchestra di Karajan.
Del pari singolare – pur se ancora più censurabile sul piano puramente vocale e su quello della padronanza della lingua italiana – è lo Jago di Peter Glossop, che ha una pronuncia italiana se possibile ancora peggiore di quella di Vickers, ma ha un eloquio nervoso e mobilissimo che fanno del suo Jago qualcosa di molto simile a quello che richiedeva il dettato verdiano. Nessuna espressione trucibalda o forzosamente bieca turba mai una linea di canto sorvegliatissima, all’insegna di quella che la Arendt definirebbe “La banalità del male”. Le uniche esplosioni che si concede – inevitabilmente – sono quelle del “Credo”; per il resto, il suo è uno Jago che sussurra, insinua e affonda con delicatezza, sempre sorridendo, talvolta spaventandosi di fronte ai cambiamenti di umore di Otello: da questo punto di vista, il II Atto di questi due artisti è semplicemente esemplare.
Molto più ortodossa nella linea del canto la Desdemona di Mirella Freni che offre la propria limpida e svettante voce ad un personaggio molto convenzionale nella sua umanità ferita; lo fa in modo radioso e sublime, come si conviene ad una cantante come lei, per di più nel pieno delle proprie straordinarie capacità; ma è egualmente un personaggio destinato a non brillare per particolare originalità esecutiva in un contesto così peculiare. Per cui alcuni momenti come l’ “Ave Maria” o il “Salice” sono splendidi, grazie al giusto peso che Mirella sa dare ad ogni singola espressione; ma nel duetto del III atto con Otello non sa fare altro che contrapporre alle ingiuste accuse del consorte un’umanità genericamente dolente per l’offesa. Altrove, come nel qui famigerato concertato del III atto, l’espressione attonita di questa Desdemona si staglia in modo talmente luminoso sulla folla ribollente da fissarsi vivida nella memoria.
Fra i comprimari segnaliamo il Lodovico di José Van Dam e il simpatico Cassio di Bottion; censurabile invece il Roderigo del solitamente brillante Sénéchal.
Un Otello ancora oggi di riferimento