Tristan und Isolde
Aggiunto il 10 Febbraio, 2007
A quanto ci consta, è almeno dal 1968 che Plàcido Domingo frequenta Wagner, con risultati che nel corso degli anni hanno raggiunto il carattere dell’eccezionalità, riuscendo a fondere – come ormai noto – un approccio rigoroso (scandito tra l’altro da una pronuncia tedesca ormai virtualmente perfetta) con una sensibilità che i più sono soliti definire “latina”, come se tale connotazione portasse una plusvalenza di cui gli interpreti di area germanica sono solitamente privi. Affermazione quest’ultima senz’altro destituita di ogni fondamento nella sua genericità buona per tutti gli usi; e basterebbe sentire una qualunque fra le interpretazioni storiche da Windgassen a Moser per rendersene conto; ma è destino che Domingo debba sempre essere considerato “musicale” e “latino”, non necessariamente in quest’ordine, e comunque sempre per mascherare le ormai ben note difficoltà nelle zone alte del pentagramma.
Quello che c’è da dire, al di là di queste considerazioni che lasciano un po’ il tempo che trovano, è che Domingo era già da molti anni in predicato di affrontare questa tappa fondamentale del proprio percorso artistico; circa vent’anni fa si parlava con insistenza di un possibile “Tristan” al fianco della Caballé, che poi affrontò il monumento wagneriano dal vivo in una produzione dai risultati quanto meno interlocutori, mentre Domingo si buttò su altri ruoli come Siegmund e Parsifal un filo meno impegnativi non tanto da un punto di vista interpretativo, quanto da quello vocale, riuscendo nel non banale risultato di porsi come riferimento interpretativo. Ma l’eroe di Cornovaglia era evidentemente un obbiettivo importante che è progressivamente maturato nelle convinzioni del tenore spagnolo sino al momento di questa registrazione, per la quale possiamo essere complessivamente ben più che contenti di aver aspettato tanto tempo, visti i risultati entusiasmanti. La copertina ritrae il vecchio cantante, abbracciato alla ben più giovane co-protagonista, con lo sguardo perso in lontananza; sembrerebbe quasi un’immagine vintage, mentre invece forse è più simbolicamente lo sguardo di un uomo che, giunto alla soglia (o forse proprio nel bel mezzo; con Domingo di sicurezza anagrafiche non ce ne sono mai state) dei settant’anni, sente il bisogno di fare un bilancio della propria vita e, per farlo, sceglie l’opera della nostalgia, della solitudine, del mondo dell’ineffabile; e il protagonista di questo momento così catartico è proprio lui, il grande comunicatore, colui che più di ogni altro ha portato l’opera in mezzo alla gente, facendone un mezzo molto glamour e quasi narcisistico di seduzione. In questo Tristan sembrerebbe rinunciare a tutti i suoi ammiccamenti che, ancora oggi, irretiscono giovani e meno giovani all’insegna di una seduzione – questa sì! – molto latina, in favore di un tono austero, quasi malinconico ma fondamentalmente tenero e sorridente, una specie di “The way we were” in cui una delle più gloriose carriere tenorili di sempre – se non la più celebrata in assoluto – viene rivista sotto forma di flashback con una tenerezza che colpisce l’ascoltatore abituato ai ben altrimenti spavaldi atteggiamenti di un cantante che ha sempre buttato ben più che il cuore oltre l’ostacolo.
Da un punto di vista interpretativo, la prestazione è viva, palpitante, di un’attualità che lascia sconcertato anche l’ascoltatore più smaliziato, quello che non ha mai accettato di farsi coinvolgere dai trucchi e dalle alchimie di questo geniale cantante che ha sempre dato l’idea di rivolgersi ad ogni singolo spettatore/ascoltatore, impedendogli di focalizzarsi su altri piani a lui più sfavorevoli. Da un punto di vista vocale, si ha l’impressione che Domingo sia arrivato all’appuntamento fresco e riposato: la forma vocale è straordinariamente buona, nettamente superiore a quella di altre registrazioni recenti e qualche nota stiracchiata la si perdona facilmente, tenendo conto che sono trappole in cui sono caduti anche autentici specialisti del ruolo. Complessivamente è una prova fondamentale, una di quelle che entrano a pieno diritto nella Storia e un parametro con cui dovranno confrontarsi d’ora in avanti tutti coloro che affronteranno questo personaggio così complesso.
Un’interpretazione da centellinare nota dopo nota: da un primo atto in cui appare trasognato e quasi travolto da un evento di cui non riesce a comprendere bene le ragioni; ad un secondo atto in cui il piglio eroico ed orgoglioso smorza efficacemente le note eccessivamente zuccherose che tante volte annacquano l’eloquio di interpreti che non riescono ad affrontare altrimenti le difficoltà di una parte così complessa (e va proprio ascoltato questo duetto del secondo atto fra un Domingo così violento e rapinoso e una Stemme aspra e frastagliata); sino ad un terzo atto che costituisce il vero capolavoro di Domingo in quest’incisione, nonché il suo vero testamento artistico, in cui non si sa davvero se ammirare maggiormente una linea vocale ancora così integra o la potenza evocativa di un eloquio che proprio fa fatica a trovare paragoni.
Meno singolare – e non potrebbe essere altrimenti, data la giovane età e l’ingombrante presenza di un partner di questo livello – la prova del soprano svedese Nina Stemme che, avendo iniziato con un repertorio lirico-leggero, nel corso degli anni ha virato verso i ruoli lirici spinti fra cui, appunto, Isolde, che aveva già debuttato con enorme successo a Glyndebourne. Voce non particolarmente debordante ma percussiva, con più di un sentore aspro ma sempre perfettamente intonata.
In lei quel “furore virginale” cui faceva riferimento Anja Silja, quando aveva deciso di abbandonare il personaggio, come connotazione fondamentale del personaggio, ritrova finalmente il proprio ruolo nel caratterizzare una donna aspra e orgogliosa che vive l’amore dapprima come prevaricazione e poi come abbandono.
Splendidi anche tutti gli altri: dal baldanzoso Kurwenal di Bär (finalmente un baritono che non faccia il verso a Fischer-Dieskau), alla trepida Brangäne di Mihoko Fujimura – che però è forse l’elemento meno singolare di questo bellissimo cast, al Marke di René Pape, ancora giovane e baldanzoso e quindi, per una volta, credibile pretendente di Isolda Biancamano, al Marinaio di Villazòn, sino al Pastore di Bostridge che, a prima vista, sembrerebbe uno spreco, se non fosse che alla trenodia del suo personaggio riesce a dare uno straniamento che rimanda al britteniano Peter Quint.
L’orchestra del Covent Garden non ha la straordinaria iridescenza di colori dei Wiener, ma Pappano riesce a dare un passo svelto, privo di sentimentalismi di basso profilo, agevolando non poco i cantanti che non devono indugiare nelle terrificanti campate ideate da Wagner. Una direzione che a molti non è piaciuta; ma è una direzione ricca di buonsenso, che non sceglie strade prevaricanti, nel rispetto dell’eccezionalità dell’evento.