Esule di Granata
Aggiunto il 09 Gennaio, 2007
Fra i molti problemi che l’accettazione di Meyerbeer ha incontrato e tuttora incontra presso il pubblico e la critica contemporanei, uno che riguarda la sua prima produzione italiana è quello che lo classifica come satellite di secondo piano dell’astro rossiniano. Le cose non stanno proprio così: se è innegabile che attorno agli anni Venti dell’Ottocento Rossini fosse l’indiscusso punto di riferimento per qualunque operista attivo in Italia, è anche vero che il Meyerbeer italiano mise a punto un linguaggio con caratteri autonomi non trascurabili. E poiché i meccanismi della storia sono sempre più articolati di quanto le semplificazioni storiografiche tendano a ridurli, è anche possibile che l’influenza fra i due compositori sia stata reciproca: con i suoi lavori il tedesco aveva assunto nel panorama teatrale italiano un ruolo di primo piano ed è poco probabile che Rossini, negli anni che lo portavano all’estrema sua tappa italiana di “Semiramide”, non ne abbia tenuto d’occhio la carriera e la produzione.
Con Rossini, Meyerbeer condivise molti interpreti ed è inevitabile che anch’esso facesse del virtuosismo vocale uno dei caratteri principali della propria musica. Meno che in Rossini, però, il canto di coloratura sembra in Meyerbeer essere parte integrante della linea musicale, mentre emergono un’abilità tutta particolare nel trovare l’inciso melodico caratterizzante o la modulazione inaspettata e, nei pezzi d’insieme, un gusto per l’intreccio polifonico e la creazione di strutture complesse che già fanno intravedere i monumentali ensembles delle opere parigine. È anche notevole l’abilità strumentale del compositore, che si esprime in orchestrazioni di notevole ricchezza e nell’uso frequente di strumenti solistici e di orchestre fuori scena.
Quinta e penultima delle opere italiane di Meyerbeer, “L’esule di Granata” ebbe la sua prima rappresentazione alla Scala il 12 marzo 1822, con esito interlocutorio. Non tutti i suoi brani piacquero e, nonostante un cast di primissimo ordine che comprendeva Rosmunda Pisaroni, una quasi esordiente Adelaide Tosi e Luigi Lablache, alcuni di essi furono accolti con freddezza. L’opera tenne la scena per sole nove recite, fu ripresa alla Pergola di Firenze nel 1826 e poi scomparve definitivamente dal repertorio.
Il fortunato debutto italiano di Meyerbeer era avvenuto a Padova nel 1817 con il dramma semiserio “Romilda e Costanza”, su libretto di Gaetano Rossi. La collaborazione fra i due era proseguita con le opere serie “Semiramide”, presentata al Regio di Torino nel 1819, ed “Emma di Resburgo”, andata in scena lo stesso anno al San Benedetto di Venezia. Il successo di questi tre lavori consolidò grandemente la posizione di Meyerbeer nel panorama teatrale italiano, e più ancora fece il trionfo del dramma semiserio “Margherita d’Anjou”, scritta per la Scala su libretto di Felice Romani nel 1820. La fredda accoglienza di “L’esule di Granata”, quindi, fu la prima moderata battuta d’arresto nella carriera del maestro tedesco, ben presto superata col clamoroso successo di “Il crociato in Egitto”, di nuovo su libretto di Gaetano Rossi, che avrebbe debuttato sulle scene veneziane della Fenice nel 1824, segnando la fine della carriera italiana di Meyerbeer e l’inizio della sua ben più nota, anche se ancora non troppo esplorata, esperienza francese.
Prima di pubblicare questa selezione di “L’esule di Granata”, Opera Rara aveva già inciso brani di tutte le opere italiane di Meyerbeer nella raccolta “100 years of Italian Opera” e due ottime registrazioni integrali di “Il crociato in Egitto” e “Margherita d’Anjou”. All’appassionato del repertorio ottocentesco dispiace sicuramente di doversi accontentare della selezione di un’opera che, probabilmente, non avrà mai l’occasione di ascoltare in versione integrale. Ma Opera Rara ha già un’attività talmente intensa di registrazioni complete che le sue selezioni possono solo essere accolte con la gratitudine che pienamente meritano. Come sempre, oltre al solito esemplare saggio introduttivo il libretto allegato contiene il testo dell’intera opera con l’evidenziazione delle parti registrate. Continuo a essere dell’opinione che edizioni accurate come queste di Opera Rara dovrebbero fornire le indicazioni sceniche, parte integrante del testo del libretto, anche in lingua originale e non soltanto nella traduzione inglese.
La selezione include soprattutto brani di insieme: la monumentale introduzione, due duetti, un terzetto e il quintetto che chiude il primo atto, oltre a parti della grande scena con coro di Azema (soprano) e al rondò finale di Almanzor (contralto). L’esecuzione rientra perfettamente nei canoni e nei livelli qualitativi abituali di Opera Rara. Il livello medio delle voci è estremamente buono e, senza innalzarsi alle vette dei mitici revival belcantistici cui negli scorsi decenni diedero splendore cantanti come Sutherland, Horne, Caballè o Ramey, non ha nulla a che spartire con certi punitivi recuperi di titoli fuori repertorio inficiati da esecuzioni pesantemente inadeguate che affollano i palcoscenici festivalieri di mezzo mondo. Al contrario, se nel cast raccolto per questo “Esule” manca l’interprete che possa competere con i miti della Pisaroni o di Lablache, l’accuratezza dell’esecuzione e l’appropriatezza dello stile rendono di quest’opera un’immagine complessivamente più efficace e corretta di quanto non abbiano fatto alcuni revival costruiti a beneficio di una solitaria diva e nella totale indifferenza sia del resto del cast sia delle scelte testuali.
Vocalmente, le cose migliori vengono da Laura Claycomb e Manuela Custer, rispettivamente Azema e Almanzor. La Claycomb è un soprano di timbro chiaro e luminoso ma non esangue, che padroneggia estremamente bene sia il legato che i momenti di canto agitato, ha un buon trillo e acuti sicuri e interpreta con fantasia e varietà di accenti. È eccellente in particolare nella lunga scena con coro del secondo atto, preceduta da un bellissimo assolo di due violoncelli e dalla quale, purtroppo, è stata tagliata la parte centrale. Il sacrificio era sicuramente inevitabile per poter contenere la selezione in un solo cd, ma è doloroso perché fa perdere la corretta percezione della struttura drammaturgica e musicale. Manuela Custer non ha un timbro particolarmente caratterizzato né decisamente contraltile, ma è brava nella vocalizzazione e nel canto legato e sufficientemente energica quando il ruolo en travesti che ricopre lo richiede. Emerge particolarmente nell’esecuzione del rondò finale, della cui cabaletta domina con perizia la bassa tessitura.
Il basso Mirco Palazzi, Sulemano, possiede uno strumento rilevante ma è anche poco incisivo e tende ad arretrare il suono nei passi vocalizzati, cosicchè il suo canto risulta spesso inerte. È questa, peraltro, una caratteristica comune nei cantanti molto giovani come lui. Non è invece all’inizio della carriera Paul Austin Kelly, Alamar, che canta solo nell’introduzione con timbro chiaro e acuti facili ma anche con una fastidiosa tendenza ad aspirare i pur brevissimi passi vocalizzati che gli spettano.
Giuliano Carella, felicemente e giustamente entrato nella scuderia di Opera Rara, dirige l’Academy of St. Martin in the Fields da quell’esperto conoscitore del repertorio primottocentesco che è, accomunando energia e senso dello stile e portando a compimento una realizzazione discografica che aggiunge una nuova tessera al mosaico ancora troppo incompleto della nostra conoscenza dell’opera italiana dei primi decenni dell’Ottocento.
Riccardo Domenichini