Giovedì, 04 Luglio 2024

Carriera di un libertino

Aggiunto il 23 Luglio, 2006


• Trulove Robert Lloyd
• Anne Dawn Upshaw
• Tom Rakewell Jerry Hadley
• Nick Shadow Samuel Ramey
• Mother Goose Anne Collins
• Baba the Turk Grace Bumbry
• Sellem Steven Cole
• Keeper Roderick Earle

Coro e orchestra de l’Opéra de Lyon
Chorus Master Alan Woodbridge
Direttore Ken Nagano

Luogo e data di registrazione : Lyon luglio 1995; gennaio e marzo 1996

Note tecniche sulla registrazione: qualità eccellente, con rapporto voci-orchestra ottimale

Pregi: straordinari Nagano e Ramey; ottimi coro, orchestra e il resto del cast

Valutazione finale: images/giudizi/eccezionale.png

Per alcuni musicologi con la Carriera di un libertino finisce il mondo dell’opera lirica, intesa in modo classico.
Sarà poi vero?
Lasciamo codeste “sentenze” agli studiosi e, pensando molto più terra-terra, ci lasciamo trasportare da questa rivisitazione dell’opera neoclassica, che tocca proprio tutti gli stilemi di quell’epoca.
Facile sarebbe fare del manierismo nelle molte arie, duetti e terzetti disseminati a ricalcare un po’ e il Così fan tutte e il Don Giovanni.
Nagano sfugge alla trappola con una musicalità sopraffina che lo porta a leggere la partitura con una invidiabile chiarezza di intenti, in questo supportato da quello splendido “strumento” che era e rimane l’orchestra di Lyon.
Agogica studiata nei minimi particolari per sottolineare la tenerezza di Anne da un lato, con quei moti dell’animo che sembrano trasalimenti impercettibili e pure nascono da una profonda disillusione amorosa, alla spensieratezza iniziale, giovanile e un po’ sciocca, di Tom dall’altro, che si fa vieppiù amarezza man mano che le “spire” di Shadow si stringono.
Nagano pare non fare nessuna fatica a tenere le fila di un gioco contrappuntistico legato a ritmi puntati, molto prossimi ad una vera “ballata” popolare, che si alternano a brevi slanci lirici, dolci ma mai mielosi.
Non concede facili gigionate né a Ramey, in una parte assai signorile e distaccata, né alla Bumbry, che disegna una Baba the Turk che mai si dimentica di cantare.
Ascoltare al proposito il cambio di ritmo e di “clima” tra la prima scena del primo atto tutta idilliaca e la vitalità turbolenta ma mai volgare della scena seguente al bordello di mother Goose, dove, anzi, la cavatina di Tom in tempo lento ha tutte le caratteristiche di un’aria dalla malinconia così marcata da spazzare via ogni facile eccesso folcloristico.
Impeccabile è poi nel riprodurre con dovizia di chiaroscuri il modello settecentesco dell’aria “ Quieta conduci a lui la mia carezza” e quello ottocentesco della cabaletta “ io vò, io vò da lui” di Anne, nella terza scena sempre del primo atto, in cui certe sottolineature degli archi hanno il sapore amaro e mesto di un romanticismo non tanto sottaciuto.
L’aria di Tom all’inizio del secondo atto “ Deh cambia musica, o Londra, andiamo!” si arricchisce di una cura nell’accompagnamento del corno e della tromba solisti da encomio.
All’aria di Nick “ Lo schiavo quand’è giovane” dona invece un ritmo saltellante, rapido ed energico che si incastona in un inizio ed una coda in tempo lento da manuale del perfetto precettore.
A chi avesse invece poca dimestichezza con la “vera” musica secentesca, alla Lully tanto per intenderci, si raccomanda l’ascolto della sarabanda, finale della seconda scena del secondo atto, in cui ottoni e archi fanno a gara nella trasparenza dei timbri tanto da somigliare d’appresso agli strumenti antichi.
Tanta attenzione ai particolari fa sì che venga percepito come un vero meccanismo poco oliato, che si muove con difficoltà, il gioco dei legni a simulare la macchina che trasforma i sassi in pane, invenzione ironica di Nick che “perderà” definitivamente il povero Tom.
Se di contrappunto è piena la partitura, geniale è la costruzione stravinskyana nella cosiddetta Bidding-scene, ma altrettanto superlativa è la realizzazione di Nagano, che ci fa toccare con mano lo svolgimento dell’asta, come se vi partecipassimo anche noi ascoltatori.
Assai lugubre, coma deve suonare, è la scena del cimitero, dove il richiamo al Don Giovanni si fa evidentissimo, anche se qui il clima è ben meno giocoso.
Al tono disperato di Tom, mezzo morto di paura, si contrappone un Nick brillante, quasi trionfante, che assapora con classe la opportunità di conquistare all’inferno un’altra vittima.
Il clavicembalo, saltellante, enuncia compiaciuto il tema del diavolo e svolazza come un uccello della malora sul derelitto libertino, che pure deve avere quell’angelo protettore di Anne da qualche parte lì vicina, tanto da scampare alla pena eterna.
Come sempre il sacrificio della donna innamorata conquista il paradiso agli uomini, anche a quelli meno meritevoli di tali “trofei” finali.
L’enfatico Nick si inabissa scornato tra le fiamme, in un gioco ritmico che ha tutta in evidenza la diavoleria dell’orchestrazione, con gli ottoni che quasi ruggiscono tra “ Io brucio! Brucio!” e “ Gelo di vergogna!”.
Altro contrasto e i flauti leggeri e modulanti ci enunciano il motivo della follia che già aveva opportunamente fatto capolino nel breve preludio ad inizio opera.
Nagano chiude in appropriata mestizia, tra emozione e malinconia, una storia che altrimenti doveva finire e che ci lascia un certo amaro in bocca.
Anne e il padre Trulove si accomiatano da Tom con un corale bachiano di precisa esecuzione che contrasta nuovamente col finale alla Don Giovanni dove tutti i protagonisti, chi in allegro, chi in ritmo puntato e chi in maniera squillante, ribadiscono “ che da quando Adamo se ne andò con Eva, per mani e cuori ed intelletti oziosi, sa il diavolo trovar qualche lavoro…”
Detto della precisione del coro, assai bravi risultano tutti i protagonisti.
Jerry Hadley è un Tom Rakewell perfetto, così come lo era stato nel Candide di Bernstein. La voce non è particolarmente bella, ma non essendo chiamata qui a “passaggi” troppo scabrosi né ad acuti troppo spinti, si rivela invece in grado di assecondare nei minimi particolari le esigenze interpretative del direttore. Idilliaco nel duetto iniziale con Anne, strafottente col suocero, facile nei Sol acuti disseminati qui e là, asettico nell’enunciare il “nuovo catechismo” di Nick Shadow, amaro ed espressivo nella cavatina “ Amor, così spesso ingannato”.
Gareggia in inquietudine con il clarinetto ed il corno nell’aria del secondo atto, che sa screziare di autentica agitazione, con le mezzevoci che sono dispiegate con rara intensità e che solo in un episodio sconfinano in un falsetto neppure tanto disdicevole.
Molto bello il duetto con Anne, che lo va a trovare a Londra, in cui la declamazione si fa filosofia di vita e saggezza verso gli altri, ma non per sé.
Così entusiasta, come solo i bambini sanno esserlo, nel sottolineare il puro e sciocco idealismo delle “scoperte” fasulle, ma fa fin tenerezza in quel ritrovarsi nel cimitero al cospetto del diavolo e “colorare” come se l’angoscia fosse cibo da tagliare a fette.
Nella parte di Adone, ormai impazzito per volontà ultima del vendicativo Shadow, sa trovare accenti di trasognata pazzia, tutti intrisi di tenerezza e in ultima analisi di amore vero.
Samuel Ramey giganteggia da par suo, con voce imponente, emessa in maniera superlativa, morbida in tutti i registri, saettante negli acuti come tuonante nei gravi, ma soprattutto esibisce quella maestria del “recitar cantando” che ne fa uno Shadow storico.
Perfetto maggiordomo, asettico come nelle migliori tradizioni inglesi; sa infondere tanta autorevolezza da convincere senza troppi sforzi il “babbuino” Tom.
Sentire con quanta nonchalance risponde al “nuovo” padrone che per il momento non ha bisogno di discutere di salario, rimandando il saldo “fra un anno e un giorno”.
Il recitativo e l’aria in tempo disteso, nel secondo atto, in cui convince Tom a sposare Baba la turca è talmente insinuante da sembrare opera di una novella serpe del “paradiso terrestre”.
E il seguente “Andiamo, mio padrone il fato a stuzzicare” ha la brillantezza saltellante del precettore e consigliere consapevole delle proprie arti.
Che accattivante morbidezza nel rivolgersi confidenzialmente al pubblico, tanta sembra la sicumera di chi conosce come le proprie tasche la dabbenaggine dell’uomo.
Un vero capolavoro risulta poi la scena del cimitero, dove sia il sorgnone gioco del gatto col topo sia l’enfasi signorile danno spessore tragico, ma sempre assai nobile, alle inflessioni e alla ricerca di chiaroscuri espressivi.
La “sconfitta” viene vissuta in maniera assai composta, pure, alla diavoleria finale della maledizione di Tom, vi aggiunge una rabbia sì contenuta ma che lascia trasparire la perfidia del cattivo, finalmente senza più maschere “buoniste”.
Perfetta, con la voce di lirico puro che si ritrova, la Anne di Dawn Upshaw, liale, nonostante tutto, nel marasma di delusioni vissute.
Tenera e forse troppo ingenua, lascia che gli eventi la sommergano senza quasi far trasparire la delusione e la profonda amarezza, sempre confidando in un momento futuro migliore.
Ma anche vocalista sopraffina nell’aria e soprattutto nella cabaletta del primo atto, dove alle continue modulazioni e colorature sa anche aggiungere, disinvoltamente, pienezza agli acuti, raggiante al proposito il Do acuto proprio alla chiusa della cabaletta.

Ugo Malasoma

Categoria: Dischi

 

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